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Nuova Terra. Gli occhi dell'erede. Prima Parte
Nuova Terra. Gli occhi dell'erede. Prima Parte
Nuova Terra. Gli occhi dell'erede. Prima Parte
E-book425 pagine6 ore

Nuova Terra. Gli occhi dell'erede. Prima Parte

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Info su questo ebook

La Terra come la conosciamo è cambiata, è cambiato il suo aspetto e la sua popolazione: a Nuova Eyropa, oltre alla Razza Umana, vivono la Razza dei Lupi Grigi e la Razza delle Tigri Bianche, uomini in grado di trasformarsi nei rispettivi animali e in conflitto tra loro da più di cento anni.

Shayl’n Til Lech, cresciuta come Umana in un orfanotrofio, impara a conoscere la povertà, a combattere con i pugnali e a odiare e temere i Lupi, le Tigri e la loro guerra. Gli occhi di Shayl’n hanno una strana colorazione, che lei crederà sia solo un brutto scherzo del destino, fino a quando non verrà rapita da un gruppo di Tigri Bianche. Con loro dovrà affrontare la sua natura di Mezzosangue, la trasformazione imminente, la sua eredità nascosta per anni, il potere del suo sangue e della sua mente, la disperazione della morte, le ragioni della guerra e le mille sfaccettature dell’amore.

Attraverso territori ammantati di neve, deserti sabbiosi, città vecchie e nuove, dovrà lottare per se stessa e per le persone che ama con ogni mezzo: pugnali, pistole, artigli, seduzione e sentimenti.

"Un libro epico per dimensioni e contenuti: una storia d'amore struggente, una storia di vita che conquista, una storia d'avventura ricca di colpi di scena e viaggi e personaggi profondi e tridimensionali. Combinando elementi tipici del fantasy ed elementi riconducibili al distopismo postapocalittico, ma rielaborati in termini assolutamente originali, Dilhani ha dato vita a un romanzo pieno e ricco".

http://www.dilhaniheemba.com/nuovaterrasaga.html
LinguaItaliano
Data di uscita25 mag 2013
ISBN9788891111784
Nuova Terra. Gli occhi dell'erede. Prima Parte

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    Anteprima del libro

    Nuova Terra. Gli occhi dell'erede. Prima Parte - Dilhani Heemba

    Dilhani Heemba

    Nuova Terra

    Gli occhi dell’erede

    PRIMA PARTE

    Ai bambini delle creche dello Sri Lanka,

    che da anni vivono nella povertà

    in una terra stupenda, distrutta dalla lotta infinita

    tra militari singalesi e le ribelli tigri tamil.

    A voi perché sorridete.

    Titolo | Nuova Terra - Gli occhi dell’erede - Prima Parte

    Autore | Dilhani Heemba

    ISBN | 9788891111784

    Prima edizione digitale 2013 

    © Tutti i diritti riservati all’Autore

    Youcanprint Self-Publishing

    Via Roma 73 - 73039 Tricase (LE)

    info@youcanprint.it

    www.youcanprint.it

    Questo eBook non potrà formare oggetto di scambio, commercio, prestito e rivendita e non potrà essere in alcun modo diffuso senza il previo consenso scritto dell’autore.

    Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata costituisce violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla legge 633/1941.

    Curiosità e note d'autore su www.dilhaniheemba.com/curiosita.htm

    Personaggi

    Shayl’n Til Lech, ragazza orfana dalla nascita, rapita dalle Tigri Bianche

    Umani

    Erien - ragazza rapita insieme a Shayl’n

    Hassan - autista del pulmino della creche

    Ilai García - amico di Shayl’n

    Khaled, Andrè, Elias - bambini rapiti insieme a Shayl’n

    Latha - donna che lavora per Shiire Raja

    Lechy García - madre di Ilai

    Madre Brìgit Lech- la madre della creche di Roma, sorella dell’ordine mariano

    Maryām - amica di Shayl’n

    Nilmini Ferrara - bambina della creche di Roma che Shayl’n considera come una sorella

    Shiire Raja - Sultano di Nayband

    Pietro, Salina, Salvatore, Clarissa, Filìp, e Màrtin - bambini della creche di Roma

    Tigri Bianche - Tiouck

    Ahilan Dahaljer Aadre - Capo Branco

    Dan/Danka Kijowski - donna soldato

    Ifraen Gelov - soldato/guerriero

    Jama - soldato/guerriero

    Layo Luba - soldato/guerriero

    Maliak Toivainen della dinastia Minse di Danubie - padre di Shayl’n e figlio di Teon Toivainen, mezzo Uomo e mezza Tigre Bianca (defunto)

    Nalinika della dinastia Minse di Danubie - principessa orfana adottata legalmente da Tagron - cugina di Shayl'n

    Nikolaos Kristoforos - dottore e tutore di Nalinika

    Pasha Klein - soldato/guerriero

    Ron Nawa- soldato/guerriero

    Sophia Kristoforos - figlia di Nikolaos Kristoforos

    Srei - soldato/guerriero

    Sybil Kristoforos - moglie di Nikolaos Kristoforos

    Tagron Toivainen della dinastia Minse di Danubie - attuale re dei Tiouck - zio di Shayl'n

    Teon Toivainen della dinastia Minse di Danubie - legittimo erede al trono che ha abdicato per sposare un’Umana, padre di Maliak (defunto)

    Tejii Weber - soldato/guerriero

    Lupi Grigi - Bamiy

    Antar Breel, soldato del reparto di difesa

    Belden Wilém Monreau Harvey, della dinastia Erdreè - attuale re dei Bamiy

    Barenì, nonna di Jean David

    Caroline Monreau Harvey, della dinastia Erdreè - madre di Shayl’n, figlia di Belden (defunta)

    Darie Menlue, primario dell'ospedale di Nuv Monàc

    Jean David Monreau Harvey, della dinastia Erdreè - figlio di Belden, principe dei Bamiy - zio di Shayl'n

    Peter Way, soldato del reparto di difesa

    Riannè Sullivan, capo di uno dei battaglioni

    Sanìt, Carlize, Brigitte, Hameline - bambini soldato

    Tar Mechie, capo di uno dei battaglioni

    Glossario

    amma, mamma

    appa, papà

    baha-char, mercato

    chèrie, cara, diletta

    detské vojakov, bambini soldato

    eshgh, amore

    babr, tigre

    gamine, ragazzina, monella

    khanevade, famiglia

    khorshid, sole

    kindersoldaten, bambini soldato

    mamnun, grazie

    mon Dieu, mio Dio

    moya lyubov, amore mio

    petit, piccolo

    shohar, marito

    tytär, figlia

    volk, lupo

    zan, moglie

    - parole inventate -

    arindo ichslavo, lingua delle Tigri Bianche

    bretençal, lingua parlata dai Lupi Grigi

    iuropìan romanzo, lingua degli Umani

    mude, stoffa di Lupi e Tigri per combattere il caldo o il freddo

    POD meglev, mezzo di trasporto che sfrutta l’energia del campo magnetico

    tapi, stoffa lunga portata intorno alla vita

    I titoli delle parti del libro sono tratti dalle seguenti canzoni:

    This is the life, Amy McDonald

    Blue, A Perfect Circle

    Breathe, Pearl Jam

    Tumbalalaika, canzone ebrea della tradizione russa

    Undertaker, Puscifer (Renholder Mix)

    Star Of The Winds, Irfan

    Fly Away From Here, Aerosmith

    Zombie, Cranberries

    Bring me to life, Evanescence

    Così celeste, Zucchero

    Truly Madly Deeply, Savage Garden

    LIBRO UNO

    Gli occhi dell'erede

    PRIMA PARTE

    Thinking This Is The Life

    1

    C’è stato un tempo in cui ero una bambina dai capelli neri sempre arruffati, le gambe magre che correvano veloci sulle strade polverose e si arrampicavano agili sulle palme ondeggianti della Città Eterna; la mia pelle, esposta spesso al sole, aveva il colore della crema caramellata. Ero una bambina ubbidiente, allegra e pensierosa, con un esagerato e spesso falloso senso di giustizia, che animava la maggior parte dei miei scontri con gli altri bambini. Quello era il tempo in cui me la prendevo quando mi dicevano che i miei occhi avevano un difetto nel colore: un cerchietto verde che circondava la pupilla, nera e liquida come il resto dell’iride. In futuro, mi dissero che i miei occhi erano come due pietre di malachite, ma era un altro tempo, un tempo in cui non era un difetto.

    Ed era, invero, un difetto notevole in un mondo dove gli Umani avevano gli occhi neri o marroni.

    C’è stato un tempo in cui mia madre era una donna alta, mora, dagli occhi neri, che mi aveva lasciato perché gravemente malata; e mio padre era un uomo senza nome, che non appariva mai nei miei sogni. Il tempo in cui famiglia era Madre Brìgit, l’unica persona che mi conoscesse dalla nascita, l’unica che guardasse oltre i colori, le lacrime e talvolta le parole. La sola che mi crescesse come fossi figlia sua.

    Il tempo degli studi, delle sbucciature, il tempo in cui giocare alla guerra con Ilai García, il figlio dei vicini, era una guerra fatta di pugnali di legno e pistole di cartoncino, o il coltellaccio di una cucina. Le armi da fuoco non rientravano neppure nei miei pensieri. Era il tempo della preghiera prima di mangiare, il tempo di un’infanzia povera e serena.

    E c’è stato un tempo in cui amore era quello che provavo per Madre Brìgit, era silenzioso e scevro da ogni compromesso; e odio era una parola priva di un significato effettivo.

    Quel tempo finì l’anno in cui vivevo i miei diciannove anni.

    2

    La strada per il picco d'Adamo era piena di curve, polverosa e sembrava disegnarsi al lato della montagna in modo pigro, sopratutto nelle giornate calde come quella.

    Nilmini Ferrara, tre anni e mezzo, si accoccolò accanto a me, guardando fuori dal finestrino del nostro pulmino. Si era alzata presto, quella mattina, e non si era lamentata: non uscendo mai, doveva essere incuriosita. Non sembrava avesse voglia di dormire. Eravamo in viaggio da tre quarti d'ora e i nostri compagni dormivano silenziosi. Anche Erien, che insieme a me accompagnava i bambini in gita, teneva gli occhi chiusi stringendo per un braccio Andrè, che poco prima era sovraeccitato.

    Udii il rumore lontano di un motore, che doveva appartenere a un elicottero. Tornai a guardare fuori dal vetro, osservando la valle del Tever: una distesa di casette minuscole e terreni che si perdevano nella foschia del mattino; Nilmini non le aveva mai viste da così in alto e gliele indicai.

    La strada costeggiava la montagna ripida e sulla sinistra aveva uno strapiombo che mise le vertigini alla bambina. «È altissimo qui», osservò.

    Sentii l'elicottero avvicinarsi, faceva un rumore molto forte. Nilmini si stiracchiò e sbadigliò, e fece sbadigliare anche me, che le sorrisi.

    «C'è un elicottero», fece presente.

    «Sì, pulcino. Salutalo quando passa.» Mi voltai a guardare da dove veniva, sentendolo troppo vicino.

    Fu questione di attimi: tutti si svegliarono per il forte rumore e le vibrazioni; Hassan, che guidava, rallentò la corsa e infine inchiodò.

    L'elicottero si posizionò davanti a noi bloccando il passaggio mentre un altro si affiancava a noi sulla nostra sinistra.

    Erien urlò nel momento stesso in cui io mi resi conto che erano Tigri Bianche.

    «Vattene, Hassan! Torna indietro!» gridai.

    L'autista sembrava paralizzato, fece per mettere la marcia, ma una raffica di colpi di pistola ci prese in pieno, frantumando i finestrini, bucando le gomme e colpendo Hassan ed Elias, che era seduto sul sedile anteriore.

    Urlarono tutti, i bambini si misero a piangere.

    In preda a una paura che non avevo mai provato, non riuscivo a mettere a fuoco la scena.

    Tentai di respirare. C'erano quattro Tiouck, che venivano verso di noi, altri sull'elicottero stavano combattendo con il secondo elicottero, dovevano essere Umani, ma non ebbi tempo di soffermarmi su quel pensiero: da qualche parte sbucarono anche due macchine e fu tutto molto veloce. Andrè uscì fuori di corsa, in direzione dell’elicottero degli Umani, urlando, ma fu colpito dal fuoco e cadde a terra.

    Nilmini si gettò tra le mie braccia e rimase immobilizzata dalla paura e lo sgomento fino a che un Tiouck non si materializzò accanto allo sportello che Andrè, uscendo, aveva lasciato aperto.

    «Fuori!» gridò, cercando di coprire il rumore di spari ed elicotteri. Rimasi ferma, come se non fossi in grado di pensare o muovermi.

    Per un attimo ragionai sul fatto che, se avessero vinto gli Umani, forse non avremmo avuto problemi a salvarci, tuttavia quella speranza morì subito, quando l’elicottero si infiammò con una vampata. Cadendo venne verso di noi e il Tiouck dovette chiudere gli occhi e ripararsi con un braccio. Il tonfo sonoro mi riscosse o forse fu la mano dell’uomo che si allungava verso Nilmini, a riscuotermi.

    Lei gridò un disperato «no», stringendo le manine alla mia vita; fui io a scostarla da me, l’allontanai con una mano e con l’altra cercai di dare un pugno alla Tigre. Nel cercare di uscire dal pulmino, il sedile davanti mi frenò nel movimento e caddi insieme all’uomo.

    Troppo grande e forte per me, lui mi scansò con facilità e cercò di afferrarmi. Scartai di lato cercando di evitare la sua presa; il cuore mi batteva troppo forte nel petto, come se volesse esplodere. Se fossi riuscita a prendere il mio pugnale, forse sarei riuscita anche a ferirlo.

    Mentre facevo questo pensiero, l’uomo mi colpì in volto con il dorso della mano e sentii il sapore del sangue in bocca. Mi coprii il viso per non ricevere un secondo schiaffo.

    «Jama, prendi i bambini. A lei ci penso io.» Nel trambusto udii questa voce in lingua arindo ichslavo, subito sopra di me. Un ragazzo mi prese la mano e, inginocchiandosi, me l’ammanettò.

    Cercai di reagire sollevandomi a sedere. Lui ne fu sorpreso. Aveva i capelli corti, castano scuro, e la pelle appena ambrata. I suoi occhi azzurri, dal colore intenso, incrociarono i miei, ci fissammo per un attimo, ma indugiò sul mio viso per un secondo di troppo e ne approfittai per voltarmi carponi e scappare. Lui riuscì ad afferrarmi una gamba facendomi cadere a faccia in avanti.

    «Lasciami!» strillai, tra paura e rabbia.

    «Non ci penso proprio», disse atono nella mia lingua, lo iuropìan romanzo. Mi salì sulla schiena con un ginocchio e mi immobilizzò, facendomi respirare a fatica, con la guancia schiacciata a terra. Mi prese l’altra mano e la legò alla prima. «Visto? Non vai da nessuna parte.» Mi sollevò da terra come se fossi un fuscello. «Muoviti», mi ordinò, spingendomi avanti.

    Osservai la strada: sembrava un campo di guerra, l’elicottero bruciava in un fumo nero, pervaso da un odore acre, a terra c’erano vetri rotti e sangue. Mi cedettero le gambe quando vidi Andrè, disteso a terra, in modo innaturale.

    Il Tiouck mi sorresse e mi condusse alla macchina, dove un altro uomo ci stava aspettando, mi gettò dentro con violenza e io battei il capo, perdendo i sensi.

    ***

    Mi svegliai di notte, in una foresta.

    Notai subito lo sguardo fisso di Erien, a un metro da me. Aveva pianto, e parecchio: occhi gonfi e guance sporche, capelli sciolti e testa inclinata.

    «Dove siamo?» le chiesi, sommessa.

    Lei scosse appena il capo e guardò a terra.

    Non potei fare a meno di notare che Nilmini e Khaled erano abbracciati a lei. Voleva dire che non avevano libertà di movimento; mi sentii troppo distante.

    Intravidi il fuoco poco lontano, c'erano sei Tiouck, che mangiavano e ridevano, questo mi fece provare una rabbia infinita. «Eeehi», urlai.

    «No, lasciali perdere», mi supplicò Erien.

    Non la ascoltai. «Ehi, voi!»

    Uno dei Tiouck si alzò, fu fermato dall'altro, che si alzò a sua volta. Posò qualcosa a terra e si avvicinò.

    «Ben svegliata», disse raggiungendomi.

    «Lasciateci liberi!» sbottai.

    «E perché mai?» Il ragazzo si accovacciò accanto a me, era controluce e non riuscii a vederlo bene, dalla voce riconobbi quello che mi aveva ammanettata.

    «Siete delle bestie. Lasciateci in pace.» Lo guardai in cagnesco.

    «Non sai neanche di che parli.» Sorrise e intravidi i suoi denti bianchi e perfetti. I denti di una Tigre.

    «Loro sono solo dei bambini, che te ne fai?» Cercai di insistere.

    «Niente. Ho bisogno di te. Se vuoi li lascio qui da soli nella giungla.» Aveva una voce profonda e stava usando un tono pacato che gli avrei volentieri rificcato in gola.

    «Riportali a casa!»

    «Ahilan, ci sono problemi?» domandò qualcuno in arindo ichslavo.

    Il ragazzo si alzò. «Fai troppe richieste, ragazzina; ti consiglio di startene buona.» Non c’erano inflessioni nel suo iuropìan romanzo. Si voltò e si allontanò di qualche passo.

    «Scordatelo. Non ci voglio stare qui. Avete ucciso dei bambini, dei bambini che non hanno fatto nulla. EEEHI!» gridai con tutto il fiato che avevo in gola.

    Lui tornò indietro con un unico balzo, si chinò all'improvviso, digrignando i denti. «Faresti bene a stare zitta, se non vuoi fare la stessa fine!» mi intimò. Fece per voltarsi, ma iniziai a dibattermi e a urlare per essere liberata.

    Accorse uno dei Tiouck, che mi ficcò uno straccio in bocca senza tante cerimonie, facendomi sbattere la testa per terra. Sentii mancarmi l'aria per la violenza, vidi Nilmini affondare il viso sul petto di Erien e rimasi immobile, buttata per terra.

    Vidi tre Tiouck prendere i bambini e la ragazza e trascinarli via, tirandoli per le braccia, mentre loro singhiozzavano. Non era giusto, non era giusto. Erano solo bambini. Mi maledissi per aver portato Nilmini con me, avevo insistito tanto. Come mi era venuto in mente? Perché non l’avevo lasciata a casa?

    Allora mi sentii persa come non mi ero mai sentita in vita mia.

    ***

    Il giorno seguente, dopo quattro ore di macchina su alcune strade sterrate, ci fecero scendere. Ci porsero un pezzo di pane per uno e dell’acqua, poi lasciarono le macchine parcheggiate al lato della strada e si addentrarono con noi nella foresta.

    L’aria era umida, faceva molto caldo e fastidiosissimi insetti ci pizzicavano la pelle, con un'insistenza tediosa.

    Le Tigri indossavano dei pantaloni da militare. Portavano degli zaini ed erano armati di pistole e pugnali. Uno di loro aveva invece un fucile. Tutti loro portavano una sorta di foulard, legato intorno alla vita, che avevo visto anche ai Lupi, in seguito scoprii che si chiamavano tapi.

    Seguirono quello che doveva essere il capo, Ahilan, che apriva la fila, e Jama, subito dietro di lui. A chiudere la fila c’era Layo Luba, che ci seguiva con una pistola in mano puntata su di noi. Gli altri tre non seguivano la fila e camminavano accanto a noi, sparendo di tanto in tanto dietro le felci verdi.

    Khaled, un bambino di dieci anni, era stato legato con una corda alle manette di Erien, mentre Nilmini era stata legata a me con una cordicella non troppo robusta che mi circondava la vita. Mi stava attaccata, silenziosa come non mai e il pollice in bocca. Non avevamo nessun legame di sangue, tuttavia la consideravo come una sorella fin da quando, durante i miei sedici anni, era arrivata all’orfanotrofio. Per lei fu amore a prima vista.

    Potrei raccontare che il mio amore fosse irrazionale e disinteressato, tuttavia, dovendo essere onesta, dirò che mi innamorai di Nilmini per un motivo in particolare. Arrivò da noi quando aveva solo pochi giorni, come era successo a me, e mi sentii in diritto di avanzare una qualche pretesa su di lei, che altri non potevano avere, perlomeno secondo il mio punto di vista.

    Fu portata da un uomo, che non la riconosceva come figlia e sosteneva di averla trovata in strada, una sera in cui il tempo era mite e nel cielo c’erano strisce di nuvole filiforme. Il nome le fu dato da me, il cognome invece era dell’uomo che l’aveva portata da noi, un cognome tipico della zona in cui abitavamo.

    Nilmini Ferrara era così piccola che avevo paura di romperla solo a sfiorarla. I primi mesi sembrava avere gli occhi del colore dell’antracite, con il passare dei giorni, divennero due profondi occhi neri, che le invidiavo più di ogni altra cosa. Aveva ciglia lunghe e folte e un taglio da cerbiatta. Anche il colore della pelle poteva essere oggetto della mia gelosia, in quanto più scuro del mio, e per questo più simile a quello di Madre Brìgit: era il colore morbido e intenso di un dolce al cioccolato con le sfumature vive e rossicce della cannella.

    Le sorelle dicevano che sembrava sempre troppo piccola. Io non mi intendevo di neonati, per me era perfetta e me la tenevo stretta tra le braccia come fosse di mia proprietà.

    Piccola e paffuta, con gli occhi gonfi e rossi, ora sembrava ancora più piccola della sua età.

    Ed era troppo piccola per camminare a lungo, quindi si stancò presto. Iniziò a piagnucolare prima in maniera sommessa poi sempre più forte.

    «Arriveremo presto», cercavo di incoraggiarla.

    «Tra quanto?»

    Non ne avevo idea. «Non so, dieci minuti.»

    Ma i dieci minuti passavano e loro non accennavano a fermarsi. La prendevo in braccio, poi, esausta, la facevo camminare di nuovo. «Shay. Shay, quando arriviamo?»

    Uno degli uomini, Srei, gettò il proprio zaino a terra e scattò verso di lei. «Ora basta.» Sfoderò un pugnale ricurvo. La bambina si immobilizzò all’istante e sgranò gli occhi.

    «Ma che cazzo fai?» sbottai. Scacciando la stretta di terrore parossistico che mi strinse lo stomaco, cercai di pararmi davanti a lei, ma fui spostata con una spinta. «Nooo!» gridai. L’uomo, però, aveva già la lama a un soffio dal bacino della bambina e, con un taglio netto, spezzò la corda che ci legava.

    La sollevò di peso, afferandola per l’elastico dei pantaloni e la ficcò dentro allo zaino. «E ora non ti voglio più sentire.» La strinse con i lacci dello zaino, lasciandole testa e braccia fuori. «Va bene?»

    Nilmini lo guardò con le lacrime agli occhi e annuì.

    «E neanche a te», disse rivolgendosi a me e caricandosi lo zaino sulle spalle. Anche io annuii, ancora stupefatta, e lo raggiunsi subito, mettendomi dietro di lui in modo da poter essere accanto alla bambina. Le lanciai un bacio con le labbra e le sorrisi, cercando di infonderle un coraggio che non avevo.

    Camminammo per ore interminabili. La giungla era infinita, buia e poco incoraggiante, i suoi alberi si chiudevano su di noi come un involucro opprimente e vivo. I sei uomini non sembravano stanchi, ma Erien, Khaled e io eravamo distrutti. Avevamo le gambe indolenzite e i piedi facevano malissimo. Nilmini si era addormentata nello zaino, con il dito in bocca.

    Quando Ahilan si fermò, verso sera, nessuno disse nulla. Sapevano tutti cosa dovevano fare, senza doversi dire niente, come fossero una persona sola. Scorreva un fiume di piccole dimensioni vicino a dove ci eravamo fermati e noi tre corremmo a bere sulle sue rive, seguiti a vista da Layo. Un colibrì volò via, sentendoci arrivare.

    Tornai indietro dopo essermi riempita la pancia con troppa acqua, e cercai di tirare Nilmini fuori dallo zaino, facendola svegliare. Avevo le mani legate e non ci riuscii.

    «Jama», disse Ahilan «aiutala.» L’uomo mi aiutò e mi mise in braccio la bambina, che si aggrappò a me con le manine, silenziosa.

    Mi sedetti a terra con le gambe incrociate, le misi in bocca qualche pezzetto di pane che avevo conservato. Anche gli altri si misero a terra e mangiarono.

    Poi il capo mi avvicinò con il suo passo sicuro e felino. «Alzati», ordinò perentorio.

    Feci finta di non sentire.

    Lui mi puntò una pistola sulla testa. «Ho detto alzati», tuonò.

    Mi issai Nilmini in braccio e mi alzai con deliberata lentezza.

    «Lei rimane qui.» Fece per prenderla in braccio.

    «Non la toccare!» ringhiai.

    Lui tirò indietro le mani e le alzò, in segno di resa. «Come vuoi, basta che ti muovi.»

    Lasciai la bambina in braccio a Erien e, cercando di deglutire, lo segui in mezzo alla vegetazione. Il sangue mi pulsava nelle tempie. Avevamo percorso poche decine di metri, tuttavia la vegetazione ci teneva nascosti dal resto del gruppo. «Dove stiamo andando?» domandai, cercando di mantenere la voce ferma.

    «Ti devo parlare», rispose laconico.

    «Parlare?» chiesi scettica. «A volte siete anche in grado di parlare, voi

    Lui si voltò e mi attaccò la pistola alla tempia, che se fosse stato possibile avrebbe pulsato fino a scoppiare. «Vuoi fare qualcos’altro? Sai, siamo in grado di fare tante cose con voi donne, noi.»

    Lo fissai con occhi sicuri, sapendo che la mia bocca era appena un po’ imbronciata tradendo la paura che mi divorava a morsi.

    Lui non batté ciglio. «Siediti», comandò adamantino.

    «Qui?» riuscii a dire.

    «Qui.»

    Mi sedetti di peso tra le radici di un tulang.

    Lui rinfoderò l’arma e tirò fuori una torcia. Si piegò accanto a me e me la puntò nell’occhio destro. «Tu ti chiami Shayl’n Til?» chiese, asciutto.

    Ci pensai alcuni istanti perché solo Nilmini mi aveva chiamata, e mai con il nome intero, forse Erien mi aveva chiamata così, per forza, mi dissi, o forse no? «Tu come lo sai?»

    Lui guardò l’altro occhio, poi mi fissò per alcuni istanti. «Credo di sapere più cose di te, di quante ne sappia tu stessa.»

    «Incantata», commentai sarcastica. «Io invece scommetto che tu ti chiami Ahilan.»

    Lui ripose la torcia nella tasca. «Scommetti male. Mi chiamo Dahaljer, Ahilan è solo un altro nome.»

    Aggrottai la fronte. «E che senso ha?»

    «Senti, sono io che sono armato, sono io che ti ho portata qui, e sono io che faccio domande. E mi piace ribadire queste cose il più possibile, ah, mi piace anche sentirmelo dire, sai?» Si sforzò di non ridere.

    Lo guardai con astio. «Le Tigri come te mi fanno schifo.»

    «Non mi interessa.» Tornò serio. «Anche a me fanno schifo le ragazzine Umane, soprattutto quelle che parlano troppo, come te.» Fece una pausa, senza smettere di guardarmi. «Shayl’n Til, sai se tua madre si chiamasse Caroline e tuo padre Maliak?»

    Sul volto mi si disegnò un’espressione stupita, che non riuscii a dissimulare, e scossi la testa. «Non so nulla di loro. Solo che mi hanno salvato la vita, lasciandomi all’orfanotrofio. O almeno così mi è stato detto.»

    «È molto probabile che sia vero. Sei nata a metà estate?» mi chiese senza lasciarmi il tempo per pensare.

    Piegai la testa da un lato. «Sì…»

    «Sai con certezza di che Razza sei?»

    «Razza Umana», risposi sicura.

    Lui annuì appena. «Hai avuto conati particolari e immotivati, negli ultimi tempi?»

    «Ma che ne sai?» Scattai. «Cosa vuoi da me?»

    «Lo prendo per un sì.»

    «No, invece.» Unii le mani a pugno e cercai di colpirlo con tutta la forza che avevo, tuttavia Ahilan si spostò rapidamente. «Mi devi delle spiegazioni», gridai.

    Lui si alzò. «Non ti devo proprio niente.» Mi tirò su con uno strattone e, tenendomi stretta per un braccio, si piegò leggermente per guardarmi dritto negli occhi. «Al massimo, sei tu che mi devi qualcosa. Per esempio, la vita.»

    3

    L’inverno più freddo che si ebbe su Nuova Terra, dopo il duemiladodici, fu nel duemiladuecentoquarantaquattro, quando nelle regioni del nord i Lupi Grigi attaccarono con ferocia alcuni villaggi al confine est.

    Io non lo sapevo ancora, né me ne preoccupavo. Avevo quattro anni, le mani piccole e sulle labbra il sorriso di chi non vuole preoccuparsi della vita. E, infatti, di quella volta non mi preoccupai, tanto che il peggior problema che affollava la mia testolina mora era riuscire a fare una torta degna di essere chiamata tale con Madre Brìgit.

    «Batuffolo, vedi che la stai buttando ovunque», mi fece notare la religiosa. Batuffolo è un appellativo di cui non conosco l’origine; da che ho memoria, la Madre mi ha sempre chiamata così.

    «Lo so», risposi divertita. «Vola via.» Risi, mostrando i dentini bianchi.

    «Non ci giocare», mi riprese Madre Brìgit con voce sicura e il timbro caldo che riusciva ad avvolgermi come un abbraccio. «Non si spreca niente qui. Versala piano.» Quell’anno eravamo ricchi, perché potevamo fare una torta, senza dover festeggiare nessuno. Anzi, eravamo ricchi perché potevamo fare una torta.

    In quel momento entrò Lechy García, una donna giovane, bassina e tarchiata, che accese la radio. «Ascolta, Madre.»

    «Cosa c’è di nuovo?»

    Lechy fece segno di fare silenzio.

    «…hanno colpito nella notte», diceva la radio «quando tutti dormivano e nessuno delle Tigri ha potuto fare nulla. L’attacco era stato programmato da alcuni mesi dal re Belden Wilém Monreau Harvey, poiché il confine a est contava ormai troppi Tiouck stabiliti sulla frontiera, che potevano diventare pericolosi per la popolazione. Il responsabile delle Comunicazioni del Re ha dichiarato di essere soddisfatto, sottolineando l’importanza di tali attacchi per i Bamiy. Ha rivelato, inoltre, che questo potrebbe essere solo l’inizio.

    Il re dei Tiouck, Tagron Toivainen, sembra aver ricevuto molte critiche da parte della sua popolazione. Non erano presenti molti loro guerrieri, in quel punto, e ora per loro potrebbe essere l’inizio della repressione. Signor Fay, lei che ne pensa?»

    Lechy spense la radio e guardò la Madre.

    La donna, di trentasette anni, continuò a mescolare l’impasto nella ciotola. «Cosa vuoi che dica, Lechy?» domandò distratta. «Sappiamo bene quanto questo sia folle, ma noi non abbiamo voce in capitolo, nessuno di noi», aggiunse guardandola di sottecchi.

    «Lo so, ma dovremmo fare qualche cosa», provò a dire lei.

    «Sono Lupi e si ammazzano con le Tigri. Faremo una preghiera per i morti che muoiono senza avere colpa, e anche per quelli che hanno colpa», precisò. «Ma noi Umani non possiamo fare nulla», concluse in tono cupo.

    Allora, non sapendo nulla della vita, sapevo molto poco anche della lotta tra Lupi Grigi e Tigri Bianche; oggi posso dire di esserne felice. Quelle vicende avrebbero tanto complicato la mia vita, che sapere di avere avuto un’infanzia povera, ma esente da ogni problema legato a loro, mi rincuora.

    «Non è giusto», gracchiò Lechy, con esacerbazione. «I Lupi ci trattano come bestie. Noi. Noi capisci? Si tengono tutto loro, solo perché sono di più. Comandano loro e va avanti da troppi anni. Anzi, che dico, secoli!» gemette, accasciandosi sulla sedia.

    Qualche anno più tardi, sui banchi di scuola, avrei studiato la storia dall’inizio dei tempi, altri tempi. C’era stato un periodo molto più lungo della nostra epoca in cui Nuova Terra, il nostro turbolento pianeta, si chiamava solo Terra, aveva infinite distese di acqua, ma il ghiaccio presente era un quarto di quello presente attualmente; in compenso, gli Uomini che l’abitavano erano molti di più e l’unica Razza esistente era proprio quella Umana. Era a quello che si riferiva Lechy, in quel momento.

    La Madre non rispose e si rivolse a me: «Hai messo tutto dentro, Batuffolo?»

    «Sì. Però mi hai detto di ricordarti di aggiungere un goccio di liquore di cocco.»

    «Hai ragione, me ne stavo dimenticando.» Si alzò da tavola e aprì la credenza dietro di me. La stanza era piccola ed era facile raggiungere tutti i posti dal tavolo.

    «Madre, mio marito diceva che questa situazione doveva essere cambiata», continuò Lechy, imperterrita.

    «Tuo marito è morto lasciandoti sola con tuo figlio», replicò lei asciutta. «E tu è a lui che dovresti pensare. A proposito, dov’è?»

    «Sta di là, sta giocando con Pietro.»

    La Madre annuì versando un goccio di liquore chiaro nell’impasto. «Tieni», mi disse. «Versalo dentro la padella.»

    Noi abitavamo a Roma, nella valle del Tever. Era un’immensa città di baracche, governata dai Bamiy, i Lupi Grigi. Tutto, a dire il vero, era governato da loro, tranne alcune regioni molto a nord, che si estendevano poi verso est, dove vivevano i Tiouck, le Tigri Bianche. O almeno così pensavo.

    Dopo il 2012 dell’anno del Signore, una serie di cataclismi aveva cambiato volto al nostro infelice pianeta. A seguito degli eventi di quell’anno, la crosta terrestre si era mossa così tanto che nulla o quasi era rimasto come prima. Il quasi era l’Oceania. Dalla parte opposta del mondo, era più grande e più a nord; trovandosi ora proprio sotto la linea dell’equatore, l’Oceania era rimasta molto simile nel tempo, ed era abitata solo dalla Razza Umana. Le Americhe non esistevano più, tranne una consistente fetta di quello che un tempo era stato il Canada, che oggi era intrappolato sotto i ghiacci perenni. L’Africa, con forme diverse, si era spostata molto a sud, e, un continente che allora era considerato tra i più caldi, oggi era in buona parte ricoperto anch’esso dai ghiacciai. Tranne la zona nord, peraltro governata dai Bamiy.

    L’Europa, oggi Nuova Eyropa, si era allungata di molto, creando pianure e montagne che un tempo non esistevano; era diventata più lunga che larga e io non sono mai riuscita a immaginarla in modo diverso. Tra noi e il Medio Oriente c’era un mare a dividerci, il Mare degli Urali.

    Praha un tempo distava da noi poco meno di mille chilometri. Oggi era oltre i duemila e tra di noi si stendevano pianure infinite e isolette piatte e disabitate. Praha era la capitale dei Tiouck; in seguito avrei scoperto che la neve da quei luoghi andava via solo per pochissimi giorni dell’anno.

    Al momento, la neve non sapevo neanche cosa fosse, così presi la ciotola che la Madre mi porgeva con due mani e versai il contenuto. Insieme mettemmo la padella nel forno e chiudemmo lo sportello.

    «Ora dobbiamo aspettare cinquanta minuti», mi avvisò.

    «Va bene, però rimango qui», dissi con voce querula.

    «Non vai a giocare con gli altri?» domandò con fare indagatore.

    Scossi appena la testa, fingendo interesse per una macchiolina sul pavimento bianco.

    «Perché?» volle informarsi.

    Sapevo che me lo avrebbe chiesto e che non avrei potuto evitare di rispondere, così ostentando indifferenza dissi: «Ilai dice che sono un Lupo.»

    «Cosa?» sbottò Lechy. «Ilaaai», chiamò con voce stridula. «Vieni subito qui!»

    Il bambino accorse, seguito da un bimbo più grande. Aveva gli occhi del colore delle nocciole che tendevano a scurirsi all'esterno; la pelle chiara, nonostante stesse spesso al sole. I capelli neri gli incorniciavano il viso ovale e dall'espressione tracotante, nonostante l'età.

    «Chiedi scusa a Shayl’n», ordinò sua madre.

    Lui piegò l’angolo della bocca. «Che ho fatto?» chiese, perplesso.

    «Cos’è questa storia dei Lupi?»

    Il bambino guardò Pietro e sorrise sornione. «Ah, quella. Stavamo solo scherzando. È che lei ha quel giro verde negli occhi.» Mi indicò con la testa.

    «È vero. Proprio come i Lupi», sentenziò Pietro.

    Lechy si alzò con l’intenzione di picchiarli. Madre Brìgit la fermò. «Lasciali stare. È vero, Shayl’n Til ha un cerchietto verde negli occhi, ma lei è Umana, come voi due, vero, piccola?» Mi attirò a sé per prendermi in braccio e mi baciò la guancia accarezzandomi i capelli neri. «La nostra Shayl’n Til ha degli occhi stupendi e voi non dovreste prenderla in giro.» Uscì fuori e gli altri ci seguirono.

    Nel cortile l’erba era secca e gialla. L’inverno più freddo a Roma aveva solo portato un’aria più mite, ma non pioveva da giorni e il terreno era

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