Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Un cammelliere a Manhattan
Un cammelliere a Manhattan
Un cammelliere a Manhattan
E-book377 pagine6 ore

Un cammelliere a Manhattan

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Attraverso le guerre, le frontiere, il terrorismo, il romanzo di due ragazzi afghani curiosi, allegri, innamorati e sicuramente un pò matti!
Muna, diciassette anni ha soltanto un pensiero: sposare Azad, il bel cammelliere del quale è follemente innamorata da quando era bambina. Ma Azad è un sognatore con una grande passione per le poesie e per i viaggi e prima di sposarsi vuole girare il mondo. Così, all'intraprendente ragazzina viene un'idea: fingere di essere rapita per farsi liberare dal suo amato. Si taglia i capelli, si veste da maschio e sale su un autobus in direzione nord. Poi telefona a casa e comunica le richieste dei suoi fantomatici rapitori: Azad deve portare loro una preziosa testa di Buddha del periodo di Gandahara. Ma il diavolo fa le pentole e non i coperchi. E così i due ragazzi finiscono nei guai. Arriveranno fino in America, dove la sorte li farà incontrare sotto i riflettori delle telecamere, protagonisti fino in fondo del Nuovo Grande Gioco della politica internazionale.
LinguaItaliano
Data di uscita30 mar 2014
ISBN9788868990299
Un cammelliere a Manhattan
Autore

Lucia Vastano

Lucia Vastano è giornalista professionista dal 1982, collabora con testate italiane e statunitensi. Come inviata o su incarico, ha seguito le guerre in Libano, Angola, Salvador, Cambogia, nel golfo e in Iraq, nei Balcani, in Albania, Afghanistan e Kashmir. È autrice di reportage da vari Paesi africani, dalla Cina, dall’India, dagli stati islamici dell’Asia Centrale e dall’America. Ha vinto numerosi premi giornalistici tra cui, nel 2005, il prestigioso Premio Saint Vincent, e il premio UNESCO 2003 «Comunicare i diritti umani» riservato agli inviati di guerra. Per Salani ha pubblicato "Tutta un’altra musica in casa Buz" (2005), vincitore di diversi premi letterari, "Un cammelliere a Manhattan" (2008) e il più recente "La magnifica felicità imperfetta" (2013).

Leggi altro di Lucia Vastano

Correlato a Un cammelliere a Manhattan

Ebook correlati

Narrativa di azione e avventura per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Un cammelliere a Manhattan

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Un cammelliere a Manhattan - Lucia Vastano

    Kandahar

    È stato durante una tempesta di sabbia che mi sono chiesto per la prima volta: «Perché se un buon musulmano può divorziare dalla propria moglie io non posso divorziare dal mio dromedario?»1

    Jamal non aveva dopotutto un brutto carattere. Era un dromedario affezionato e fedele e se anche mi fossi perso nel bel mezzo del deserto non mi avrebbe mai lasciato solo al mio destino. Sarebbe rimasto sempre al mio fianco. Mi avrebbe condotto in salvo o mi avrebbe fatto compagnia negli ultimi istanti della mia vita, come un vero fratello. A volte mi sembrava persino che mi capisse più della mia fidanzata che, quando le raccontavo della mia inquietudine, della mia voglia di andare a scoprire cosa c’era oltre la terra del nostro clan, alzava le spalle e sorrideva a sua madre che è poi anche mia zia che mi conosce da quando sono venuto al mondo. E allora la zia si rivolgeva a mia madre e la rimproverava per quello che era successo diciassette anni prima.

    «Lo vedi, è tutta colpa tua. Non avresti mai dovuto metterti in viaggio mentre aspettavi Azad. E così lui non sarebbe nato su un autobus in corsa e non gli sarebbero mai venuti pensieri del genere… andare lontano, visitare il mondo. Che follia! E se poi tu e tuo marito aveste seguito il mio consiglio non lo avreste mai chiamato Azad, libertà, ma Amir, ricco, come il cugino di tuo marito, novantadue cammelli, ventiquattro figli tutti sposati bene e un negozio di antiquariato in Europa. E così il tuo ultimogenito non sarebbe ora troppo libero e troppo poco ricco e la mia Muna non dovrebbe preoccuparsi per il suo futuro».

    La zia in realtà non sapeva niente di me. Io non mi sono mai sentito né troppo libero e né tantomeno povero. Non avevo nemmeno idea di cosa volesse dire essere ricco perché, per quello che mi riguardava, la libertà non aveva niente a che fare con i soldi, di quelli ne avevo tenuti ben pochi in mano, ma solo con la prevedibilità della vita. Quando le giornate sono tutte uguali e questo comincia a pesare, libertà significa poter modificare quel ripetersi senza fine degli eventi e provocare l’imprevedibile. Se puoi permetterti di farlo sei libero e ricco. Se invece qualcuno o qualcosa ti impedisce di cambiare, sei schiavo e anche povero. Tutto qua. Questa è la mia filosofia di vita. Mi rendo conto che non è troppo elaborata. Non spiega il senso dell’esistenza di ognuno di noi. Ma cosa si può pretendere da un ragazzo che ha avuto a che fare più con i dromedari che con gli esseri umani?

    Jamal non era un gran chiacchierone e con lui non potevo fare grandi approfondimenti. L’unica sua preoccupazione era ruminare, ruminare da mattina a sera con quella sua aria sempre soddisfatta e appagata. Mio padre mi ripeteva: «Azad, figlio mio, devi imparare da lui. Non si lamenta mai, è contento con quello che ha, gli basta qualche ciuffo d’erba per essere felice. Il tuo Jamal è un grande saggio».

    Per anni, al tramonto, seduto vicino al fuoco dopo aver legato le mie bestie per la notte, ho guardato Jamal dritto negli occhi per interpretare i suoi silenzi come quelli di un saggio sufi. Per anni mi sono dato dello scemo per non riuscire a capire che cosa Jamal mi volesse dire con quel suo sbattere di mascelle. Poi, un giorno in cui la polvere sollevata dal vento oscurava gli ultimi bagliori del sole che scendeva dietro l’orizzonte oltre Kandahar, il mio fedele amico mi ha finalmente parlato: «Io sono felice perché faccio quello che mi piace e per cui sono stato creato. Se un ciuffo d’erba a tuo padre può sembrare poco, per me è tutto, è la cosa più preziosa del mondo. È quello che voglio, è quello che sono».

    Dopo avermi regalato la sua perla di saggezza, Jamal è tornato a ruminare e con la sua aria distratta si è girato dall’altra parte per farmi capire che non era il caso di seccarlo oltre. Ma io avevo già avuto quello che mi serviva, la risposta. Il mio ciuffo d’erba era altrove e se il volere di Allah era stato quello di mettermi alla prova con questa ricerca, io non potevo certo tirarmi indietro. Il mio dovere di buon musulmano, la mia jihad, doveva essere partire, lasciarmi alle spalle le sicurezze quotidiane per cercare il mio ciuffo di paradiso. Più o meno due anni fa, il giorno del nowroze, il capodanno afghano che coincide con il primo giorno di primavera, decisi che sarei partito alla scoperta del mondo.

    È una sfortuna essere ultimogenito. Quando avevo dodici anni mio fratello Hashmat mi ha messo in mano il suo bastone, il Corano e uno schioppo e mi ha detto: «D’ora in poi sarai tu a portare le bestie al pascolo». Con queste poche parole ha scaricato a me le incombenze che un altro nostro fratello, Nadir, aveva lasciato a lui quattro anni prima. Io dietro di me non ho nessuno a cui lasciare il bastone e affidare Jamal. Sono l’ultimo di una famiglia di cinque fratelli e tre sorelle, tutte già sposate. Il più coccolato, lo ammetto. Ma anche il più fregato, quello che deve rimanere a prendersi cura dei genitori, quando diventano vecchi. Quello che deve proteggere e conservare i patrimoni di famiglia: le terre, i dromedari, i gioielli, i risparmi di tante vite del clan sotterrati nell’angolo esterno della nostra casa. Io ero quello che deve restare. Gli altri si facevano vedere di tanto in tanto per ricevere la benedizione sul capo da nostro padre. Ma ognuno di loro aveva scelto liberamente il suo destino, anche quello di farsi ammazzare in guerra, come Asif, mio fratello maggiore.

    Così Kamran è diventato il primogenito e un giorno tornerà a occupare la casa di famiglia per diventarne il capo, ma per il momento se la spassava viaggiando tra Afghanistan, Pakistan, India, Iran e Cina per comprare merce per il suo negozio. Quanto l’ho invidiato. E quante volte gli ho chiesto: «Posso venire con te?» Lui non aveva nemmeno dovuto faticare a trovare la risposta: «Nostro padre è anziano, sei tu ora l’uomo di famiglia che deve pensare alle bestie e a custodire i nostri tesori».

    All’inizio quel lavoro quotidiano, portare al pascolo Jamal e il suo branco, mi era sembrato un grande privilegio, una responsabilità che a mio giudizio implicava una grande stima nei miei riguardi. In fondo quei dromedari erano il capitale della nostra famiglia. Sarei morto per difenderli. Nessuno me li avrebbe mai potuti rubare.

    Le prime notti passate completamente solo nel deserto sono state una vera avventura. Ho combattuto decine di jin che si avvicinavano al mio accampamento. Alcuni di questi spiriti avevano sembianze davvero mostruose, si formavano dalle ombre che scaturivano dalle fiammelle del mio fuoco e crescevano a dismisura traendo forza dall’oscurità. Il mio primo impulso, lo ammetto, era stato quello di rifugiarmi sotto le coperte cercando di scomparire alla loro vista, di diventare un tutt’uno con la terra. Una volta sono persino saltato in groppa a Jamal e l’ho spronato a correre verso il villaggio. Nella furia della fuga non avevo però slegato la sua zampa e così il dromedario era rimasto immobile, un po’ interdetto da quel mio strano comportamento. Allora ho capito che i dromedari non hanno la capacità di vedere i jin. Quella notte rimasi aggrappato a lui nella speranza che nemmeno i jin potessero vedere i dromedari.

    Ma man mano che prendevo confidenza con il buio, cresceva anche il mio coraggio. Un giorno, quando sono arrivati i jin, un esercito completo armato fino ai denti e deciso a trascinarmi nell’oscurità per sempre, mi sono alzato in piedi, ho strappato la mia tunica e ho urlato con tutto il fiato che avevo nei polmoni: «Questo è il mio petto. Se volete colpirmi con le vostre lance fatelo ora perché mai più vi offrirò un’altra possibilità. Sarete voi a perire sotto i colpi del mio schioppo». I jin se la sono data a gambe e dopo di allora si sono presentati al mio cospetto un’altra volta soltanto. Non credo di essere mai stato più orgoglioso di me stesso di quel giorno, anche se poi a casa ho dovuto fare i conti con mia madre per aver strappato la camicia quasi nuova.

    È un prezzo che ho pagato volentieri perché qualsiasi ragazzo pashtun ha sempre sognato di pronunciare quella frase. Qualsiasi ragazzo ha sempre sognato di essere Rostam, l’eroe della letteratura epica persiana che aveva ispirato la mia ribellione agli spiriti. In casa mia gli adulti ci raccontavano le sue gesta, nel periodo talebano, quando era vietato guardare la televisione. Eravamo una ventina di bambini e ragazzi, tra figli e nipoti, ad ascoltarli con gli occhi spalancati nel silenzio più assoluto. A dire il vero a quei tempi era vietato anche leggere lo Shahnameh, il «libro dei re» scritto da Abolqasem Ferdosi, che narra la storia della nostra gente dalla creazione del mondo e le avventure di eroi come Rostam ed Esfandiyar che io sono sicuro siano esistiti veramente perché la fantasia umana non può arrivare a tanto e creare dal nulla personaggi così affascinanti.

    Lo Shahnameh, perlomeno quello che veniva custodito da generazioni in casa nostra, era composto da otto volumi con bellissimi disegni che noi ragazzi passavamo intere giornate a guardare. Ognuno di noi aveva la sua illustrazione preferita. La mia era quella in cui Rostam spingeva al galoppo Rakhsh, il suo coraggioso destriero, in un deserto che io mi immaginavo fosse il Registan che da Kandahar conduce verso sud, nella stessa direzione in cui correva spesso la mia immaginazione.

    Dopo che i talebani hanno conquistato Kabul e il mullah Omar ha imposto che venissero bruciati tutti i libri con raffigurazioni umane, una mezza dozzina di guardie armate con kalashnikov si è presentata a casa nostra. Mi ricordo ancora quando papà e lo zio hanno preso, uno per uno, quelli che erano considerati i tesori di famiglia: i libri. Un talebano, dopo aver acceso un fuoco nel nostro cortile, li ha strappati con la forza della sua ignoranza e li ha gettati sulla pira che ardeva. Mio nipotino Kamaluddin, quattro anni spesi bene, piangeva a gran voce e versava tutte quelle lacrime che la nostra famiglia non poteva permettersi di ostentare. Ma da quel rogo papà e lo zio erano riusciti a salvare i volumi preferiti da tutti noi, tra cui quelli che riguardavano Rostam, dalla sua nascita fino alla sua morte, comprese la battaglia contro Esfandiyar e la tragica fine di suo figlio Sohrab.

    In un primo momento mi sono rallegrato per la scomparsa dei jin dalle mie notti sotto la tenda. Poi la noia mi ha vinto e allora il deserto ha cominciato ad andarmi stretto. La tranquillità ha castrato i miei sogni di avventura. O meglio: ha smesso di farmela vivere lì dove ero e ha dato il via alla mia voglia di andare lontano, per inseguire Rostam e il suo destriero. Cominciai a guardare le stelle, a dar loro dei nomi e a puntare il dito per indicarne una, ora a est ora a ovest, che mi sembrava brillasse più delle altre, quasi a chiamarmi in quella direzione. «Seguimi, ti mostrerò cose meravigliose. Vedrai le piantagioni del tè che bevi per riscaldarti di notte e per dissetarti di giorno. Vedrai i campi dove si raccoglie il cotone con il quale è fatto il tuo vestito e le montagne che nascondono lapislazzuli, argento e smeraldi. Vedrai gli altopiani spianati dal vento e le verdi valli dove cresce il grano. Scavalcherai i passi di montagna fino ad arrivare ad altre città, con palazzi, moschee e minareti che ti toglieranno il fiato. E poi arriverai là, dove si stende il deserto di acqua che si chiama mare. Vedrai i porti e le navi e ti verrà voglia di scavalcare anche quel per te insolito deserto e allora, io, la stella che ti avrà condotto fino a lì, potrò mostrarti nuovamente la strada».

    Un ragazzo che passa la maggior parte del suo tempo con i cammelli non ha molte scelte: o cerca un posto all’ombra dove sdraiarsi a dormire per non pensare a niente, nemmeno alla gioventù che passa senza essere goduta. Oppure comincia a sentire crescere dentro quell’irrequietezza che gli altri chiamano insofferenza giovanile, ma che in realtà è fame di vita, di avventura. Per soddisfare quell’appetito, chi ha incontrato i libri come me comincia a sognare di correre dietro a parole o immagini stampate, di fare parte di quella carovana di mercanti che scivolava sulle dune di sabbia per arrivare a un mercato lontano, di essere Ibn Battuta partito quasi settecento anni fa, ancora ragazzo, per scoprire il mondo, dall’Africa all’India, alla Cina.

    Dopo che i jin hanno smesso di frequentare le mie giornate soltanto i libri che mio padre mi metteva nella sacca insieme alle coperte, ai datteri e al pane hanno fatto compagnia a me e a Jamal. Ho letto di tutto e ho studiato le lingue che sono importanti per ogni viaggiatore. Ho imparato il dari che parlano i persiani, l’urdo e il turcomanno e persino alcuni dialetti locali. Dai libri rimasti in casa dai tempi dell’occupazione sovietica, ho imparato a leggere e scrivere il russo e anche quelle parole e quelle frasi necessarie a uno straniero per sopravvivere: «Ho fame, ho sete. Dove si trova il mercato? E la moschea? Ho bisogno di un dottore. Cosa mi dai in cambio di questo?»

    Mi sentivo pronto per andare ovunque. Mi mancava solo il coraggio di lasciare casa. Chissà se anche Ibn Battuta si era sentito così prima di partire. Aveva solo vent’anni quando si mise in viaggio. Era solo di qualche anno più vecchio di me e per giunta allora il mondo era ben più misterioso di adesso. Ora, ovunque ci venga in mente di andare, c’è sempre già stato qualcuno che conosciamo.

    E così, mi dicevo, della mia vita non c’era traccia alcuna. A diciassette anni non avevo fatto nulla per meritare di essere ricordato. Non c’era luogo al di fuori del mio deserto, dove vi fosse una mia impronta. Persino il mio dromedario aveva percorso più strade del mondo di me. Mio fratello Hashmat, quando me lo aveva affidato, mi aveva raccontato che veniva dall’India, ma Nadir mi aveva riso in faccia quando poi ero stato io a vantare per lui tali origini.

    «Jamal? Il mio Jamal dall’India? Che stupidaggine! Il mercante che, dieci anni fa a Jalalabad, lo vendette a nostro padre e a me lo aveva comprato al bazar della domenica di Kashgar, nello Xinjiang, la provincia più occidentale della Cina. Jamal è un dromedario mongolo ed è sceso dall’altopiano per pascolare nel Registan, la terra della sabbia». India, Cina… che importa? La sostanza era questa: il mio dromedario era un grande viaggiatore, arrivato da lontano per cercare il ciuffo d’erba giusto, quello che lo aveva appagato e reso saggio e sereno.

    Una volta Jamal aveva persino salvato la vita a mio padre che era stato attaccato dai banditi nelle montagne nere, a nord di Zahedan, in Iran. Per tre giorni se l’era portato in groppa ferito da un colpo di schioppo. Non era una ferita grave, ma non ce l’avrebbe mai fatta ad arrivare in salvo senza di lui. Come potevo sentirmi io? Alla stessa età del mio cammello ero una nullità al suo confronto.

    Un giorno, avevo circa tredici anni, ne ebbi un’ulteriore prova. Dopo un anno che ero diventato cammelliere, per spezzare la monotonia, avevo deciso di seguire un percorso differente per tornare a casa. Così avevo deviato dal tracciato che mio padre mi aveva raccomandato di non abbandonare mai e mi ero spinto verso una increspatura laterale del terreno. Mi sentivo felice. Spronai Jamal al galoppo. Un paio dei dromedari più giovani, probabilmente entusiasti come me di quella variazione, si misero a correre davanti alla carovana con la testa alta e fiera di chi ha appena ritrovato la libertà e se la sbrana avidamente fino ad avere la schiuma alla bocca.

    La nostra felicità non durò che un minuto. Ci fu un’esplosione. I due giovani dromedari erano finiti su un terreno minato. Avevano incontrato la morte nascosta sotto un velo di sabbia. Uno di loro fu colpito in pieno petto da una scheggia e morì all’istante. L’altro ebbe una zampa stroncata di netto. Aveva un buco al posto di un occhio. Urlava come un essere umano a cui stanno strappando il cuore. Ho ancora quello strazio nelle mie orecchie. Stavo per correre al suo fianco, se non altro per regalargli un pietoso colpo di schioppo alla testa, ma Jamal il saggio si rifiutò di procedere, si impennò e voltò la sua testa all’indietro. Prese a galoppare nella direzione da cui eravamo arrivati. Gli altri dromedari seguirono il loro capo. Mentre ci allontanavamo, il richiamo straziante del dromedario ferito era come un grido d’accusa alla mia incoscienza: «È colpa tua Azad! Maledetto sia il tuo nome per il quale io ora pago con la sofferenza e la morte». Si può maledire la libertà anche se costa così cara? Non credo. Ero io il maledetto.

    Quando arrivai a casa e raccontai quello che era successo mi sarei aspettato una severa punizione. Me la meritavo per aver disubbidito. Ma tutti gli adulti sembravano impazziti dalla felicità. Mi abbracciarono persino i miei fratelli. Mi accolsero come un eroe. «Sei stato coraggioso. A volte non mi rendo conto quale compito gravoso e pericoloso ho messo sulle tue spalle» disse mio padre sospirando per lo scampato pericolo.

    Cercai di spiegare che il merito non era certo mio se ero tornato a casa sano e salvo con quasi tutte le nostre bestie. Un castigo mi avrebbe fatto sentire meglio. Quella sera venne invece organizzata una grande festa in mio onore. Io non sorrisi mai e non mangiai nemmeno il mio dolce preferito. Me ne rimasi in disparte con gli occhi bassi dalla vergogna. «Il ragazzino è sotto choc» sentii mia mamma dire alle sue amiche. Ecco cosa ero per tutti, un bambino che se l’era fatta sotto.

    Me la sono fatta sotto un’altra volta, quando sono tornati i jin dopo anni che non si facevano vedere. Non erano veri jin, ma così ho creduto appena li ho sentiti arrivare e quando poi li ho visti. Ero accampato a una trentina di chilometri da Kandahar, in un posto che ai miei dromedari piaceva particolarmente. Nei pressi c’erano una piccola sorgente d’acqua, qualche filo d’erba più saporito e una collina di terra compatta che proteggeva dalla sabbia e dalla polvere che si alzavano al primo alito di vento. Era un luogo magico anche per me, soprattutto quando, come quella notte, c’era la luna piena e potevo leggere senza torcia anche se il fuoco si era spento. Le parole stampate hanno ancora più fascino dopo il tramonto e io me le ero godute fino a che il sonno non mi aveva vinto. Avevo chiuso gli occhi con il libro ancora stretto in mano.

    Fu il baccano dei jin a svegliarmi. Arrivarono dal cielo dentro la pancia di un grande uccello il cui potente sbattere di ali fece volare via la mia tenda che pure avevo saldato per bene alla terra. L’enorme volatile si posò non lontano da dove ero accampato. Mi arrampicai strisciando in cima alla collina per vedere quello che stava succedendo. Ci fu un sordo ruggito, poi i jin uscirono dal ventre dell’uccello. Dieci, venti, trenta figure balzarono a terra con un rumore di ferraglia, come le spade di Rostam o i kalashnikov della mia gente. Fu allora che la luna si fece largo da sotto una nuvola. E io capii. Quelli erano i jin più pericolosi di tutti: uomini veri, armati fino ai denti. Parlavano una lingua sconosciuta che credevo di non aver mai udito prima. Non erano russi e nemmeno cinesi. Mi chiesi da dove venissero. Poi ricordai i discorsi degli adulti nelle settimane passate e le notizie della radio. C’era stata la morte di

    Massud. E poi, in Occidente, un attentato di Osama bin Laden. Migliaia di morti. E la morte di un occidentale, si sa, vale per dieci o per venti di noi. «È la guerra, è la guerra. I talebani hanno le ore contate» si mormorava in casa mia. «L’America è il regno del Male e ha dichiarato guerra all’Afghanistan» tuonavano i talebani nelle moschee il giorno di preghiera. «Vogliono ammazzare tutti i musulmani. Vogliono ammazzare tutti gli afghani. Ma il Bene trionferà sul Male, perché Allah è con noi».

    Vogliono ammazzare tutti gli afghani. Mio padre mi diceva di non prestare mai orecchie ai talebani. Di solito gli davo retta. Ma adesso il Male era lì, a pochi metri da me. Potevo diventare il primo ragazzo a essere ucciso a Kandahar. Il primo martire da invocare il venerdì alla moschea tra pianti collettivi. D’altro canto il mio nome si presta per essere urlato a gran voce: «Libertà, libertà!» Non ci tenevo a tanta popolarità. Come avrei voluto, per una volta soltanto, aver dato retta a Muna, la mia fidanzata. E così avrei capito cosa stavano dicendo gli stranieri armati. Mi sembrava di sentirla. «Sei proprio uno sciocco Azad. Che te ne farai mai dell’uzbeko o del tagiko o dell’urdo? Se vuoi viaggiare devi studiare l’inglese. A Kabul lo parlano tutti quelli che hanno a che fare con gli stranieri. Ma già, a te a che serve l’inglese? I tuoi dromedari non lo capiscono». Odiavo Muna quando faceva così. Sempre a parlare di Kabul solo perché io non ci ero mai stato e lei sì. Io non ero stato da nessuna parte, lo sapeva bene. Lei ci godeva a prendersi gioco di me. Mi credeva soltanto uno sciocco cammelliere. Avrei voluto risponderle a tono, ma mi mancavano sempre le parole. Il motivo? In cuor mio temevo che lei avesse ragione. Sarei invecchiato passando le notti sotto una tenda nel deserto a vegliare sul sonno dei miei dromedari.

    Pochi minuti dopo l’arrivo dei soldati americani nel deserto del Registan, me ne scappai via. Slegai le zampe dei dromedari, presi le redini di Jamal e lo strattonai. Prima piano piano, passo dopo passo. Poi sempre più velocemente. Quando fui abbastanza lontano, salii in groppa a Jamal e lo lanciai al galoppo, sicuro che tutti gli altri animali ci avrebbero seguiti. La luna piena ci condusse a casa. Non facemmo brutti incontri. Diedi la notizia ai miei familiari: «Gli americani sono arrivati a Kandahar» urlai concitato.

    I mesi che seguirono furono molto difficili per la nostra gente. Le forze dell’Alleanza del Nord erano arrivate a Kabul senza troppe pene per la popolazione civile. Ma a Kandahar la guerra fu molto più violenta. Ci furono le bombe, le esecuzioni sommarie di quanti i talebani consideravano traditori. Ci fu lutto e terrore e molti scapparono verso i confini con il Pakistan abbandonando le case ai saccheggiatori e agli speculatori che mettevano in giro la voce che gli americani avrebbero fatto come Gengis Khan e raso al suolo Kandahar per vendicare i loro morti.

    Nessuno del mio clan se n’è andato. «Quello che sarà sarà» ripeteva mio padre. Io dopo quella notte di luna piena avevo smesso di portare al pascolo i dromedari. Era troppo pericoloso. Anche dopo la liberazione di Kandahar, ci volle del tempo prima che la mia gente sminasse i sentieri nel deserto lungo i quali uomini, donne e bambini continuavano a perdere la vita o a rimanere mutilati. Anche le greggi vennero decimate. Le esplosioni impoverirono ulteriormente i più poveri che erano rimasti a Kandahar.

    Fu proprio dopo quegli interminabili mesi di sedentarietà forzata che Jamal mi fece il «discorso del ciuffo d’erba» e mi fece capire che dovevo partire. La parte più difficile era trovare il coraggio di comunicare la notizia in famiglia. Non temevo mio padre, ma i miei fratelli. Temevo che qualcuno di loro avrebbe potuto dirmi: «Non puoi tradire i nostri genitori, non puoi abbandonarli al loro destino proprio ora che stanno diventando vecchi e che, con la morte di Asif, hanno più bisogno di te». Un traditore. Ecco come mi sentivo per un’azione che ancora non avevo compiuto, per una colpa che ancora non avevo commesso.

    Io ho capito Azad prima ancora di lui stesso. Gli uomini in genere ci mettono molto di più di noi donne per dare corpo ai loro pensieri nascosti. Azad è un libro aperto per me. Lo è da sempre, fin da quando eravamo piccoli e giocavamo a nascondersi. Io sapevo perfettamente dove sarebbe andato a ficcarsi e se fingevo di non trovarlo mai era solo perché non volevo fargli fare brutta figura con i suoi amici.

    Non mi ci è voluto molto per capire cosa aveva in mente, ancora prima che cominciasse a progettare il suo viaggio. Sapevo che presto avrebbe detto: «Padre, madre, io devo andare». Mi chiedevo soltanto quale storia avrebbe inventato per indorare la pillola e rendere la cosa accettabile ai suoi cari e anche a mia madre. Già me la vedevo a strapparsi i capelli dalla testa per me che ero stata disonorata e che sarei rimasta zitella. Per un giorno avrebbe vissuto come se tutto il mondo le fosse caduto addosso, ma poi avrebbe ingoiato il boccone amaro e sarebbe tornata alla routine di sempre visto che con quella scena aveva fatto la sua parte e si era guadagnata la solidarietà delle vicine.

    Così, mentre Azad ancora cercava con l’aiuto del suo dromedario di capire chi fosse e quale strada dovesse seguire, io da mesi mi preparavo per intraprendere il suo viaggio e cercavo di mettere a punto un piano per non suscitare l’ira dei miei fratelli quando anche io avrei annunciato che me ne sarei andata, che avrei seguito il mio fidanzato. Questo sì era un dilemma difficile: come giustificare la mia partenza? Potevo contare solo sulle mie forze e sul mio ingegno per trovare la risposta. Non avevo nessun Jamal, bravo ad ascoltare e bravo anche a tacere, con cui confidarmi. Non mi fidavo delle amiche. Un segreto può appartenere a una persona soltanto.

    Io, con tutta la mia buona fede, non sono mai riuscita a tenere l’acqua in bocca nemmeno con le confidenze della mia migliore amica. In un modo o nell’altro sono sempre cascata nel primo tranello che mi si è presentato davanti. Sia quelli congegnati da qualcuna per farmi cantare, sia quelli in cui perversamente mi sono infilata da sola. Ce li ho qui chiari in testa una sfilza di esempi a conferma della mia tesi. Mi fa ancora male ripensare al più drammatico di tutti.

    «Non è vero che Tamana è brutta e che nessuno la vuole. Farid le fa una corte spietata». Da questo segreto svelato per difendere la mia amica dalle malelingue di cui era piena la mia classe è scaturito un vero dramma che poteva sfociare in tragedia. Alla fine solo il buonsenso di un vecchio nonno ha evitato il peggio. Mi sono sentita in colpa per mesi e neanche il perdono di Tamana mi ha fatto stare meglio. Per questo non ho voluto mettere il mio destino nelle mani, anzi, nelle bocche di nessuno. Sono troppo affezionata alle mie amiche per buttare sulle loro spalle un peso del genere.

    C’era un’altra cosa che ancora Azad non aveva capito: di amarmi con tutto il suo cuore, con tutta la tenerezza e la passione che un uomo di diciassette anni può provare. Io lo sapevo da molto tempo, anche quando era convinto che il nostro fidanzamento combinato fosse solo un dovere al quale non poteva sottrarsi se non al prezzo di grossi dolori da parte delle nostre famiglie. Anche quando offriva più attenzione al suo dromedario che a me, quando strigliava con devozione il suo pelo come avrei voluto spazzolasse i miei capelli, non mi sono lasciata prendere dallo sconforto. Io so aspettare e so riconoscere negli altri le potenzialità nascoste. D’altro canto me lo dicono tutti, io ho preso da mio padre che era professore di letteratura all’università di Kabul. Un poeta, con le parole e con la vita. Io ho il suo stesso dono: so guardare dentro l’anima della gente, so vedere il bello e il brutto di ognuno al di là delle apparenze. Mi basta un’occhiata per capire chi ho di fronte. Ed è per questo, con tutta questa spazzatura che c’è in giro, che Azad mi piace da morire. Perché è puro come l’acqua della fonte, perché sa vedere le cose che non sono, ma che potrebbero essere. Perché sa inseguire i propri sogni senza uccidere quelli degli altri e non ha paura del deserto fuori e dentro di lui. E questo, mi disse un giorno mio padre, è quello che fa grande un essere umano, che sia uomo o donna non fa differenza alcuna.

    Mio padre me lo disse il giorno prima di morire per un male di cui io non sapevo nemmeno soffrisse, ma che si portava dentro da anni. «Non aver mai paura di rimanere sola. Chi sa essere in buona compagnia con se stesso non sarà mai solo». Questo è stato l’ultimo insegnamento che mi ha voluto regalare. Ma io allora avevo solo undici anni e per questo ci ho messo del tempo a imparare. Dopo la sua morte non riuscivo più a sopportare le assenze. Appena mia madre usciva dalla stanza in cui mi trovavo mi sentivo persa e pensavo che non sarebbe più tornata e che anche lei mi avrebbe abbandonata per sempre. Avevo paura del buio, ma anche della luce troppo forte che rende ciechi come l’oscurità. Per settimane non parlai. Non potevo sopportare che se avessi chiamato a gran voce «Padre, padre!» lui non sarebbe più arrivato. Me ne stavo perlopiù accucciata ai piedi di mia madre senza guardare mai negli occhi né lei né i miei fratelli perché quando lo avevo fatto avevo visto che la paura era padrona anche di loro. E questo confermava la mia preoccupazione: non avevamo scampo.

    Mio padre aveva scelto un brutto periodo per morire. Non era facile per una vedova tirare avanti una famiglia ai tempi dei talebani. Ne avevo viste di madri in mezzo alla strada a chiedere l’elemosina, senza un tetto sotto cui ripararsi anche quando c’era la neve e faceva freddo persino nelle case con le stufe accese. Lo sapevamo tutti: per guadagnare qualcosa, visto che le donne non potevano lavorare, non avevano che vendere il proprio corpo e anche quello delle loro bambine. Anche quelle piccole come me.

    Cominciai ad aspettarmi che da un giorno all’altro la nostra famiglia si sarebbe dissolta nel nulla. Il niente, questo era per me la morte. Un mese dopo il funerale di mio padre, smisi di mangiare nella speranza inconscia di accelerare i tempi della fine, per uscire più in fretta dall’incubo. Dopo una settimana non riuscivo più a reggermi in piedi. Fu allora che zio Nawid, cugino di mio padre, senza tanti convenevoli entrò nella mia stanza, mi prese in braccio e disse: «D’ora in poi abiterete con noi».

    Fu così che la casa di Azad divenne anche la mia,

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1