Inviati di guerra. Storie e protagonisti del giornalismo in aree di crisi
Di Andrea Motta
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Anteprima del libro
Inviati di guerra. Storie e protagonisti del giornalismo in aree di crisi - Andrea Motta
guerra.
Capitolo 1
Chi è l’inviato di guerra?
1.1 Un mestiere in costante rapporto con la tecnologia
Il corrispondente di guerra è forse la figura giornalistica più eroica e autentica che ci sia, perché rischia la vita per svolgere il suo lavoro, quello di informare i propri lettori o telespettatori dagli scenari caldi, raccontando ciò che ha visto personalmente. Per il pubblico, del resto, il giornalismo di guerra è da sempre uno dei generi fondamentali, probabilmente quello che in ogni epoca ha più appassionato e coinvolto. Si chiamano corrispondenti perché, inizialmente, inviavano al giornale non articoli, bensì lettere che arrivavano in redazione dopo numerose settimane. Il giornalista, infatti, scriveva con calma, anche uno o due giorni dopo che gli eventi si erano verificati, o dopo che aveva finito di raccogliere informazioni e testimonianze. È stato con la guerra di secessione americana (1861-1865) che il telegrafo è diventato, per la prima volta, disponibile su larga scala; da quel momento, i quotidiani, che in precedenza pubblicavano raramente servizi giunti attraverso questo dispositivo, hanno iniziato a pubblicarne due o tre pagine, di cui almeno una tenuta in sospeso fino al momento della trasmissione del messaggio, per potervi includere le ultime notizie. Ma il telegrafo innescò anche una rivoluzione stilistica. L’alto costo e la precarietà delle linee fece sì che si diffondesse l’abitudine di riferire fin dalla prima frase dell’articolo i fatti più importanti, in modo che la sostanza della notizia arrivasse in redazione anche se la linea fosse caduta. Per lo stesso motivo si affermarono le agenzie di stampa, capaci di apportare un cambiamento strutturale nel mondo dell’informazione: «Una commercializzazione delle notizie favorì fortemente la professionalizzazione. Diventate merce, le notizie erano tanto più vendibili quanto più erano tempestive, complete, affidabili e imparziali»[1]. Un’altra tecnologia che ha cominciato a diffondersi nello stesso periodo, migliorando la copertura delle guerre, è stata la fotografia. Basti pensare a Mathew Brady e Karl Baptist, ritenuti i primi fotoreporter di guerra. Due figure opposte a quella di Roger Fenton, il fotografo inviato in Crimea dal principe Alberto per proporre agli inglesi una visione distorta della guerra: «Alla fine l’opinione pubblica ebbe l’impressione di una guerra come un picnic»[2]. Brady, invece, realizzò straordinari reportage fotografici sulla guerra di secessione, immortalando per i lettori dei giornali la realtà dura e cruda del conflitto. Pregevole fu anche il lavoro svolto dal rumeno Karl Baptist von Szathmari, che immortalò generali russi e scene di accampamenti militari nella valle del Danubio durante la guerra russo-turca del 1853. La sua fama, però, si è ben presto spenta perché la sua opera è andata perduta quasi per intero e ne abbiamo testimonianza solo attraverso gli entusiastici commenti dell’epoca. Per un mestiere come quello giornalistico, strettamente legato alle nuove scoperte tecnologiche, l’impiego della neonata televisione per raccontare la guerra del Vietnam ha rappresentato uno spartiacque. Il nuovo mezzo, dal 1954, ha portato, per la prima volta, nelle case di milioni di persone, la guerra senza retorica e senza censure. Dal 1980, poi, Ted Turner ha fondato ad Atlanta la CNN, che, pioniera nel settore, ha iniziato a trasmettere notizie ventiquattrore al giorno. All’inizio degli anni novanta, poi, ha fatto la sua comparsa il direct broadcasting by satellite, che ha permesso di ricevere e inviare immagini in diretta da ogni angolo del globo. Questa tecnologia, combinata con la rete di Turner, ha decretato la nascita della prima televisione globale, trasformando il modo di raccontare i conflitti: si è aperta, così, l’era dell’informazione di guerra in tempo reale. La tv, del resto, ha modificato i contorni del lavoro dell’inviato: «La drammatizzazione è diventata lo specifico del racconto giornalistico, perché questo è lo specifico della comunicazione televisiva. (…) Assistiamo oggi alla messa in scena della cronaca, non più a una cronaca, e ne siamo tutti spettatori. Il corrispondente di guerra (ogni giornalista) vorrebbe essere invece un testimone. Ma (…) l’impatto delle immagini (…) diventa una barriera difficile da abbattere»[3]. L’ultima scoperta che ha rivoluzionato il modo di fare giornalismo è internet. Questo mezzo ha rivestito un ruolo fondamentale nei conflitti a partire dalla metà degli anni novanta, attraverso la nascita dei warblog, diari telematici in cui è stato possibile trovare notizie alternative rispetto a quelle diramate dalle fonti ufficiali: «[I loro autori] hanno fatto un po’ di luce tra le ombre della guerra (…) [e] sono diventati dei reporter andando a sostituire i corrispondenti imprigionati dalla censura. Certo, erano racconti che risentivano del coinvolgimento emotivo diretto, mancavano di distacco, ma si trattava pur sempre di cronache di una realtà che nessun altro era in grado di fare»[4]. Un altro pregio delle informazioni fornite dalla rete è che possono essere consultate da tutti con calma, a differenza di quanto avviene in televisione, dove il telespettatore è costretto a seguire i ritmi dei palinsesti. Quest’ultima frontiera della comunicazione è stata alimentata dalla nuova generazione di macchine fotografiche e telecamere digitali a basso prezzo che, unitamente ai programmi di editing dei personal computer, consentono a chiunque di riprendere un evento, realizzare un servizio di taglio giornalistico e metterlo senza