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L'Italia in guerra 1896-1943: la grande storia degli italiani del Regno
L'Italia in guerra 1896-1943: la grande storia degli italiani del Regno
L'Italia in guerra 1896-1943: la grande storia degli italiani del Regno
E-book178 pagine2 ore

L'Italia in guerra 1896-1943: la grande storia degli italiani del Regno

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Il Novecento, per i contemporanei che ne festeggiavano l’arrivo, era il secolo delle grandi speranze e delle immense delusioni. Le speranze di pace che erano fiorite durante i felici anni della belle époque si inabissarono per sempre, come il Titanic. Le convenzioni dell’Aia del 1899 che dovevano garantire la pace europea vennero cancellate dal sangue dell’Arciduca Francesco Ferdinando versato a Sarajevo. Il secolo che prometteva un lungo e prosperoso periodo di armonia tra i Paesi europei portò presto le due più terribili e sanguinose guerre della Storia. Ultima delle sei grandi potenze, l’Italia scivolava nel Novecento reduce dalla terribile sconfitta di Adua e dai cannoni del generale Bava Beccaris che a Milano avevano sparato sul popolo in rivolta. Ma la grande proletaria, come la definì Giovanni Pascoli, per acquistare prestigio internazionale mosse il suo giovane esercito contro l’Impero ottomano per conquistare la Libia, all’epoca possedimento turco. Fu la scintilla che fece scoppiare il grande incendio dei Balcani che portò nell’agosto del 1914 allo scoppio della Grande Guerra. Nove mesi più tardi, ai primi di maggio del ’15, gli italiani erano ancora divisi tra neutralisti e interventisti. Tuttavia la notizia dell’entrata in guerra era nell’aria e in tutto il Paese si respirava l’ansiosa attesa dei grandi eventi. Una violenta trepidazione divampava sulla stampa e nelle piazze si celebrava l’euforia per l’intervento nelle radiose giornate di maggio. Il cinque, di ritorno da Parigi, Gabriele D’Annunzio sullo scoglio di Quarto inaugurò il monumento dedicato a Giuseppe Garibaldi, arringando una folla entusiasta dalla sua grande oratoria, agitando le sue corte ma vivaci braccia e trasformando l’interesse per l’imponente statua scolpita da Eugenio Baroni verso quello per la guerra contro l’Austria: “Voi volete un’Italia più grande non per acquisto, ma per conquisto, a prezzo di sangue e di gloria. Udite, udite: la Patria è in pericolo, la Patria è in punto di perdimento. Intendete? Avete inteso? Viva Trento e Trieste, viva la guerra”, concluse D’Annunzio, mentre la folla eccitata agitava i suoi eleganti cappelli. Quasi un milione di uomini partirono per il fronte e presto un’intera generazione vide spegnere il proprio entusiasmo nel fango e nei reticolati delle trincee. La vittoria non aveva accontentato nessuno e tutti si accorsero presto che Caporetto era stata una vittoria e Vittorio Veneto una sconfitta. Spaventata da una possibile rivoluzione rossa, l’Italia nel ’22 si svegliò fascista e inaugurò il periodo delle grandi dittature europee. Quarant’anni dopo la disastrosa impresa d’Abissinia nel ’36 attaccò l’Etiopia alla ricerca di un posto al sole, schierando nell’immenso continente nero il più grande esercito mai sbarcato in terra africana. Due anni più tardi gli italiani venivano informati dalle leggi razziali di appartenere alla razza ariana e un tragico vento di odio e di morte cominciava a soffiare da nord, dove nel folklore italiano volano le streghe che al loro passaggio causano terribili e inevitabili sciagure. Appena giunse il ’39 i chiromanti erano sicuri: i pronostici per quell’anno erano terribili e prevedevano perfino l’apparizione della stella cometa come fosco presagio. Nessuno vide mai la cometa ma il primo settembre le terribili previsioni risultarono esatte. La Germania nazista di Adolf Hitler trascinò il mondo nel buio abisso della guerra e Mussolini, tragicamente, vi trascinò dentro l’ultima Italia del Regno.
LinguaItaliano
Data di uscita5 giu 2020
ISBN9788835843160
L'Italia in guerra 1896-1943: la grande storia degli italiani del Regno

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    Anteprima del libro

    L'Italia in guerra 1896-1943 - Stefano Poma

    Bibliografia

    Introduzione

    Il Novecento, per i contemporanei che ne festeggiavano l’arrivo, era il secolo delle grandi speranze e delle immense delusioni. Le speranze di pace che erano fiorite durante i felici anni della belle époque si inabissarono per sempre, come il Titanic. Le convenzioni dell’Aia del 1899 che dovevano garantire la pace europea vennero cancellate dal sangue dell’Arciduca Francesco Ferdinando versato a Sarajevo.

    Il secolo che prometteva un lungo e prosperoso periodo di armonia tra i Paesi europei portò presto le due più terribili e sanguinose guerre della Storia. Ultima delle sei grandi potenze, l’Italia scivolava nel Novecento reduce dalla terribile sconfitta di Adua e dai cannoni del generale Bava Beccaris che a Milano avevano sparato sul popolo in rivolta.

    Ma la grande proletaria, come la definì Giovanni Pascoli, per acquistare prestigio internazionale mosse il suo giovane esercito contro l’Impero ottomano per conquistare la Libia, all’epoca possedimento turco. Fu la scintilla che fece scoppiare il grande incendio dei Balcani che portò nell’agosto del 1914 allo scoppio della Grande Guerra.

    Nove mesi più tardi, ai primi di maggio del ’15, gli italiani erano ancora divisi tra neutralisti e interventisti. Tuttavia la notizia dell’entrata in guerra era nell’aria e in tutto il Paese si respirava l’ansiosa attesa dei grandi eventi. Una violenta trepidazione divampava sulla stampa e nelle piazze si celebrava l’euforia per l’intervento nelle radiose giornate di maggio.

    Il cinque, di ritorno da Parigi, Gabriele D’Annunzio sullo scoglio di Quarto inaugurò il monumento dedicato a Giuseppe Garibaldi, arringando una folla entusiasta dalla sua grande oratoria, agitando le sue corte ma vivaci braccia e trasformando l’interesse per l’imponente statua scolpita da Eugenio Baroni verso quello per la guerra contro l’Austria: Voi volete un’Italia più grande non per acquisto, ma per conquisto, a prezzo di sangue e di gloria. Udite, udite: la Patria è in pericolo, la Patria è in punto di perdimento. Intendete? Avete inteso? Viva Trento e Trieste, viva la guerra, concluse D’Annunzio, mentre la folla eccitata agitava i suoi eleganti cappelli.

    Quasi un milione di uomini partirono per il fronte e presto un’intera generazione vide spegnere il proprio entusiasmo nel fango e nei reticolati delle trincee. La vittoria non aveva accontentato nessuno e tutti si accorsero presto che Caporetto era stata una vittoria e Vittorio Veneto una sconfitta.

    Spaventata da una possibile rivoluzione rossa, l’Italia nel ’22 si svegliò fascista e inaugurò il periodo delle grandi dittature europee. Quarant’anni dopo la disastrosa impresa d’Abissinia nel ’36 attaccò l’Etiopia alla ricerca di un posto al sole, schierando nell’immenso continente nero il più grande esercito mai sbarcato in terra africana.

    Due anni più tardi gli italiani venivano informati dalle leggi razziali di appartenere alla razza ariana e un tragico vento di odio e di morte cominciava a soffiare da nord, dove nel folklore italiano volano le streghe che al loro passaggio causano terribili e inevitabili sciagure.

    Appena giunse il ’39 i chiromanti erano sicuri: i pronostici per quell’anno erano terribili e prevedevano perfino l’apparizione della stella cometa come fosco presagio. Nessuno vide mai la cometa ma il primo settembre le terribili previsioni risultarono esatte. La Germania nazista di Adolf Hitler trascinò il mondo nel buio abisso della guerra e Mussolini, tragicamente, vi trascinò dentro l’ultima Italia del Regno.

    Il mondo che cambia

    Il 31 dicembre 1899, una domenica, il mondo scivolava in un nuovo secolo, il Ventesimo. In tutta la storia dell’umanità nessun nuovo anno era stato accolto con quell’entusiasmo, con quella travolgente emozione. L’eco dell’ultimo colpo di cannone era ormai lontano e risaliva al 1871, alla guerra che la Prussia del Kaiser Guglielmo vinse contro la Francia di Napoleone III. Da quel momento erano passati trent’anni, i quali, si credeva, avevano fatto progredire l’Europa come mai era accaduto prima.

    La parola pace era, si pensava, frutto del progresso e nell’aprile del 1900 a Parigi si inaugurava l’Esposizione Universale. La capitale francese, tra dipinti e grandi statue bianche come l’avorio decorate d’oro e d’argento in stile liberty raccoglieva e riuniva la migliore tecnologia nata nell’Ottocento. I visitatori dell’Esposizione passeggiavano col naso all’insù, venerando quella nuova divinità che si mostrava sotto forma di elettricità. La luce elettrica era la vera protagonista. Quella luce chiara, splendente e ammaliante faceva uscire l’uomo dal buio del Medioevo, dalle tenebre della superstizione e dal cieco egoismo che sempre in passato aveva portato alla barbarica necessità di fare la guerra.

    Le strade e le piazze delle capitali europee finalmente s’illuminavano, accecate dallo splendore degli alti lampioni e quelle grandi città, grazie ai nuovi trasporti terrestri e navali, potevano sentirsi più vicine, più libere di aprire le proprie porte. Chi non poteva spostarsi col treno utilizzava il telegrafo o il telefono. Tutto era finalmente collegato e il nuovo mondo che stava nascendo capiva di non poter fare a meno del peso delle grandi masse.

    *  *  *

    Era l’epoca della belle époque, l’epoca bella per eccellenza. Jules Verne nel 1872 aveva immaginato il giro del mondo in ottanta giorni e soltanto pochi anni più tardi c’era chi riusciva a compierlo impiegando la metà di quel tempo. Le storie avventurose narrate da Verne svegliavano in tutti un’ingorda sete di tecnologia, un’ubriacatura generale che fantasticava oltre la realtà. Si sognavano viaggi al centro della terra, sulla luna e sotto i mari, possibili, in futuro, grazie ai potenti razzi e ai veloci sommergibili.

    La favolosa euforia per il progresso non era portata soltanto dalle incredibili nuove conquiste tecnologiche, ma era il nuovo senso della vita di una umanità che stava uscendo dalla schiavitù della miseria e dalla minaccia quotidiana dell’estinzione. L’essere umano contava di più e la popolazione cresceva rapidamente. L’Europa aveva, in soli cento anni, più che raddoppiato la sua popolazione, da 180 a 400 milioni. Le città si affollavano continuamente; gli spazi si restringevano e i quartieri si allargavano.

    Per millenni l’umanità aveva vissuto di caccia, di pesca e di agricoltura, isolata nei propri piccoli paesi, ignara del mondo oltre l’orizzonte del proprio villaggio, e che ora cominciava a vivere in città, nelle città delle industrie, dei trasferimenti rapidi e delle rapide comunicazioni. Il nuovo mondo, nato dall’evoluzione dell’Ottocento, aspirava a trionfare perfino sulla morte. Se la popolazione mondiale cresceva in maniera vertiginosa non era soltanto perché si nasceva di più, ma perché si moriva di meno, e questo perché le scoperte scientifiche, la medicina e l’igiene erano diventate le nuove religioni che sconfiggevano il demonio.

    L’uomo moderno sottometteva la natura col treno, con la macchina col motore a scoppio, con la nave a vapore. Erano abolite le distanze e il pianeta era finalmente unificato. E tutti ne erano convinti: il Novecento sarà il secolo dell’unificazione dell’umanità e le guerre saranno soltanto un lontano ricordo.

    Il caso del Titanic

    Il grande transatlantico della White Star Line partì da una Southampton in festa per la sua traversata inaugurale il 10 aprile 1912. Il Titanic era allora, con le sue cinquantamila tonnellate di stazza, l’ultima parola della tecnica navale britannica. La sua costruzione era stata decisa dalla banca inglese e il suo allestimento era stato un trionfo dei cantieri della Clyde. Mai si era visto uno scafo di acciaio così enorme fiorire tanto rapidamente tra i capannoni e le gru infaticabili. Il Titanic era destinato alla linea di New York, al trasporto dei milionari americani ed europei e per loro la White Star aveva allestito il transatlantico più lussuoso al mondo. Cabine decorate di damaschi veri, fumoir stile egizio, il Gymnasium, il lido sopra coperta e ascensori tra un ponte e l’altro; tutti i ritrovati escogitati dalla tecnica navale associata all’industria alberghiera. Il massimo confort e la massima sicurezza.

    I compartimenti stagni del Titanic erano stati celebrati come una meraviglia. Possedevano saracinesche automatiche, che potevano essere manovrate e chiuse tutte insieme dal ponte di comando, premendo un solo bottone, e ognuna di esse era provvista di galleggianti che, allagandosi il suo compartimento, la facevano chiudere. I cartelloni e i giornali lo annunciavano a gran voce: Il Titanic era una nave inaffondabile. Tutti ammiravano compiaciuti quell’enorme costruzione di acciaio laccato e lucente.

    Il viaggio inaugurale si annunciava un trionfo. Duemilatrecentoquaranta passeggeri a bordo, dozzine di milionari e il comandante Smith che era salito a bordo della nave con in tasca un messaggio dei capi della White Star: "Presto, fare presto. Fare assolutamente presto, in modo da battere fin le speranze dei concorrenti tedeschi del Norddeutscher Lloyd". I primi tre giorni e mezzo di viaggio furono regolarissimi.

    L’inaffondabile procedeva la sua corsa quando, alle ore undici della notte tra il 15 e il 16 aprile, mentre nelle sale si ballava, un lieve sobbalzo dello scafo fece uscire qualche passeggero sulla passeggiata per vedere cosa fosse successo. Ai loro occhi appariva un grande iceberg, scuro e basso, che rapidamente passava lungo il bordo. Siccome faceva freddo, quelli che erano usciti rientrarono e la festa continuò. Dopo qualche minuto, quelli che non ballavano notarono che il pavimento della sala era inclinato.

    Presto le preoccupazioni lasciarono il posto alla fiducia sull’inaffondabile. Le paratie stagne, le saracinesche e tutti gli altri congegni, ultimi ritrovati della tecnologia, facevano del Titanic una nave inaffondabile. Tuttavia, le coppie si fermarono. I ballerini smisero di dare retta all’orchestra che continuava a suonare canzonette allegre. Nel frattempo lo sbandamento si accentuava. Poi, d’un tratto, dal corridoio che dava sul salone da ballo, una voce gridava: Soccorso! Soccorso! Affondiamo da prua!. In tre ore circa era tutto finito. Su duemilatrecentoquaranta passeggeri se ne salvarono soltanto settecento, ripescati mezzo assiderati dalle piccole navi accorse alle chiamate disperate degli S.O.S.

    Nel 1899 si riunì la Prima conferenza dell’Aia per discutere la possibilità di una pace universale. E colui che prese l’iniziativa fu Nicola II, Zar di tutte le Russie, terrorizzato per aver letto i sei enormi volumi del finanziere Ivan Bloch, intitolati La guerra del futuro. Si discusse sulla probabilità che una guerra futura potesse essere di grandi dimensioni e di grandi orrori, che non avrebbe avuto né vincitori né vinti, ma che sarebbe stata un disastro universale.

    La conferenza durò più di due mesi, dal maggio al luglio del 1899, e i rappresentanti dei ventisei Stati che vi parteciparono avevano appreso che con la nuova tecnologia, con le nuove terribili armi, un’altra guerra europea sarebbe stata lunga, logorante, combattuta in trincee, con milioni di morti, senza nessun risultato positivo per l’umanità. E dunque, poiché una nuova guerra tra le grandi potenze sarebbe stata così mostruosa, nessuno avrebbe avuto il coraggio di scatenarla, di svegliare quel mostro che avrebbe portato sulla terra quell’Apocalisse che descrisse l’apostolo Giovanni milleottocento anni prima.

    L’Europa sembrava davvero unita e il primo giugno del 1900 le sue navi, insieme a quelle degli Stati Uniti e del Giappone, si dirigevano al largo di Taku, in Cina, per raggiungere Pechino. I soldati occidentali erano convinti di portare nei loro zaini quel fardello dell’uomo bianco che Rudyard Kipling aveva inciso nella sua poesia, di partire per il continente asiatico con l’obiettivo di civilizzare le popolazioni arretrate, di colonizzare i popoli poveri e barbari. L’occasione avvenne con la crisi del grande Impero cinese, il più antico Impero del mondo coi suoi tremila anni di storia. Il Giappone, al termine dell’Ottocento, si affacciava prepotente e armato sul continente asiatico e nel 1894 sconfisse la Cina, dimostrando una straordinaria potenza bellica. L’immenso Paese del decimo imperatore della dinastia Qing, Guangxu, uscì devastato dalla guerra e le grandi potenze occidentali si avventarono sul gigante ferito per conquistare nuove zone di influenza economica.

    Un gruppo politico conservatore e nazionalista, che proveniva per la maggior parte dalle antiche scuole ginniche e di kung fu denominate Pugni della giustizia e dell’armonia, cominciarono a compiere violenze contro i simboli e i rappresentanti della presenza straniera in Cina. Era cominciata la rivolta dei boxer e il loro obiettivo era quello di restaurare le antiche tradizioni imperiali. L’imperatore di Germania Guglielmo II parlò di pericolo giallo e le potenze occidentali organizzarono un intervento militare congiunto.

    In due settimane la rivolta fu sedata e Pechino occupata. Il giornalista Luigi Barzini, inviato del «Corriere della Sera», raccontò i fatti col classico esasperato eurocentrismo di quel tempo: "I Boxers non davano nessun pensiero. Essi erano dei fanatici che s’imponevano di usare soltanto delle armi bianche, e le usavano nel modo migliore per farsi ammazzare. Immaginate degli uomini vestiti di giallo e di rosso - i colori sacri e invulnerabili – che

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