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1915-1918. Notizie dal fronte: La Prima Guerra Mondiale nei comunicati ufficiali tra propaganda e censura
1915-1918. Notizie dal fronte: La Prima Guerra Mondiale nei comunicati ufficiali tra propaganda e censura
1915-1918. Notizie dal fronte: La Prima Guerra Mondiale nei comunicati ufficiali tra propaganda e censura
E-book336 pagine2 ore

1915-1918. Notizie dal fronte: La Prima Guerra Mondiale nei comunicati ufficiali tra propaganda e censura

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Sfogliando la notevole mole di pubblicazioni relative alla Grande Guerra capita spesso di trovare riferimenti al ruolo dei mezzi di informazione descritti come elemento di condizionamento dell'opinione pubblica. Davanti a queste asserzioni rintracciabili, con varie sfumature, nella letteratura di tutti i Paesi che hanno partecipato al conflitto, è nata l'esigenza di capire meglio cosa sia stato raccontato e cosa sia stato taciuto prima, durante e dopo quei terribili anni di guerra. L'analisi, circoscritta al caso italiano, ha l'intento di mettere in luce i fattori che hanno condizionato la libera informazione e come siano stati riferiti i fatti nel momento stesso in cui sono accaduti. Episodi noti e meno noti della Prima Guerra Mondiale sono stati messi a confronto con i Bollettini ufficiali di guerra, giornalmente diffusi dal Comando Supremo, e con le notizie diffuse dall'Agenzia Stampa Stefani comunque vagliate e verificate dalla censura. Senza tacere che già prima che l'Italia dichiarasse guerra all'Austria, la stampa, in parte finanziata da gruppi industriali che si sarebbero poi arricchiti a dismisura con le commesse militari, aveva già mostrato il proprio lato oscuro.
LinguaItaliano
Data di uscita29 ott 2019
ISBN9788832281071
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    1915-1918. Notizie dal fronte - Fulvio Bernacchioni

    071

    Premessa

    Sfogliando la notevole mole di pubblicazioni relative alla Grande Guerra capita spesso di trovare riferimenti al ruolo dei mezzi di informazione descritti come elemento di condizionamento dell'opinione pubblica.

    Davanti a queste asserzioni rintracciabili, con varie sfumature, nella letteratura di tutti i Paesi che hanno partecipato al conflitto, è nata l'esigenza di capire meglio cosa sia stato raccontato e cosa sia stato taciuto prima, durante e dopo quei terribili anni di guerra.

    L'analisi, data la vastità dell'argomento, è stata circoscritta al caso italiano; l'intento è quello di mettere in luce i fattori che hanno condizionato la libera informazione e come siano stati riferiti i fatti nel momento stesso in cui sono accaduti. Episodi noti e meno noti della Prima Guerra Mondiale sono stati messi a confronto con i Bollettini ufficiali di guerra, giornalmente diffusi dal Comando Supremo, e con le notizie diffuse dall'Agenzia Stampa Stefani comunque vagliate e verificate dalla censura.

    Già prima che l'Italia dichiarasse guerra all'Austria, la stampa, in parte finanziata da gruppi industriali che si sarebbero poi arricchiti a dismisura con le commesse militari, aveva già mostrato il proprio lato oscuro, riconducibile al tentativo di orientare le masse con una martellante campagna sulla necessità di partecipare all'impresa bellica.

    A conflitto terminato, non si può ignorare l'uso spregiudicato fatto della memoria della guerra e del suo carico di lutti: una rappresentazione retorica volta ad avallare un nuovo regime, non propriamente democratico, il cui ideale era il compimento del processo intrapreso nel 1915.

    Questa rappresentazione, solamente scalfita dai cambiamenti epocali verificatisi alla fine della Seconda Guerra mondiale, a distanza di un secolo continua ad influenzare l'opinione pubblica sorvolando su aspetti non secondari di una vicenda che ebbe conseguenze devastanti per centinaia di migliaia di famiglie italiane.

    Onorare la memoria dei circa 750 mila italiani, compresi i civili, che in quel conflitto persero la vita, vuol dire consegnare alle nuove generazioni un quadro il più possibile esaustivo di ciò che è stato. Anche degli aspetti più imbarazzanti della storia.

    Non si può ripristinare la vita, sosteneva lo scrittore francese Henri Barbusse che l'orrore di quella guerra l'aveva sperimentato in prima persona, ma si possono evitare i morti in futuro, per gli stessi motivi.

    A distanza di cento anni le guerre continuano a mietere vittime. L'affermazione di una vera cultura di pace è costellata di ostacoli, tra questi la conoscenza approssimativa delle vicende passate e l'occultamento, più o meno voluto o consapevole, di episodi storici e di cronaca recente.

    Incrociando le fonti, note e meno note, con questo volume si è voluto aggiungere un tassello, quanto importante giudichino i lettori, alla ricostruzione critica di una fase cruciale della storia d'Italia. Guardando avanti abbiamo voluto portare la riflessione sugli effetti del condizionamento dei mezzi d'informazione da parte del potere politico ed economico.

    L’Agenzia Stefani

    Tutti i comunicati (Bollettini di Guerra e discorsi politici) citati nel testo, se non diversamente specificato, sono stati consultati nella raccolta di dispacci originali dell'Agenzia Stefani in possesso dell'autore.

    Sarà utile al lettore un breve profilo storico dell'agenzia stessa.

    Verso la metà dell'Ottocento, in Francia, nascono le prime agenzie giornalistiche. In un breve lasso di tempo strutture analoghe iniziano ad operare in Germania ed in Inghilterra. In Italia, nel 1853 su sollecitazione di Camillo Benso conte di Cavour, viene fondata l'Agenzia Stefani. Con la proliferazione dei giornali le agenzie stampa acquisiscono un ruolo sempre più importante.

    Si può dire in complesso che fra il 1850 ed il 1860 si organizzarono le grandi agenzie d'informazione d'Europa, estendendo la loro attività in tutti i paesi ed iniziando una collaborazione nel campo internazionale per quanto concerne lo scambio di informazioni.¹

    L'Agenzia Stefani nacque su iniziativa di Guglielmo Stefani, giornalista veneziano che nel 1848 aveva difeso l'ultima repubblica di Venezia dalla reazione austriaca. Riparato a Torino dopo la restaurazione, lo Stefani assunse la direzione della Gazzetta Piemontese e fondò, come abbiamo visto, l'Agenzia telegrafica Stefani. Accanto alle notizie provenienti d'Oltralpe, l'agenzia cominciò a raccogliere notizie su quanto accadeva nei vari stati italiani, a selezionarle e a diffonderle con regolarità.²

    Dopo la morte del fondatore (1861) l'Agenzia fu diretta dal figlio Gerolamo. A lui successe il triestino Ettore Friedländer che rimase alla guida della struttura fino al 1918.

    A partire dalla fine degli anni Ottanta dell'Ottocento, il capo del Governo Francesco Crispi fece pressioni sull'Agenzia Stefani, che nel frattempo aveva ceduto quote azionarie all'agenzia francese Havas, affinché si svincolasse dal controllo transalpino e si avvicinasse ad analoghe strutture tedesche ed austriache. L'intento di Crispi era quello di togliere il controllo delle notizie alle agenzie francesi ed inglesi che, in virtù della loro forza economica, avevano un dominio quasi monopolistico dell'informazione.

    Le trattative diplomatico-commerciali del Governo italiano andarono a buon fine nel corso del 1889, quando si instaurarono nuovi scenari di collaborazione tra le agenzie stampa europee più confacenti alla politica italiana ed all'Agenzia Stefani, che si trovava però sempre più legata al potere governativo.

    Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, il Primo ministro Salandra non fece mistero della volontà di utilizzare i mezzi d'informazione, e di conseguenza anche l'agenzia stampa, per veicolare notizie atte a condizionare l'opinione pubblica.

    L'Agenzia Stefani divenne il mezzo ufficiale per la diffusione alle testate giornalistiche delle notizie di fonte governativa e dei bollettini dello Stato Maggiore dell'esercito. Considerata la limitazione imposta alla libertà di stampa, ai giornalisti italiani non rimaneva che seguire la traccia giornalmente dettata dai dispacci ufficiali.

    Qualche anno dopo l'avvento del regime fascista, la gestione dell'Agenzia Stefani passò a Manlio Morgagni, fedelissimo di Benito Mussolini. La libertà di stampa, per la verità poco tollerata anche dai governi precedenti, era stata semplicemente rimossa dal lessico del nuovo regime. A chiarirlo fu lo stesso Mussolini in un discorso dell'ottobre 1928 indirizzato ai direttori dei giornali: ... tutta la stampa italiana è fascista e deve sentirsi fiera di militare compatta sotto le insegne del littorio. Partendo da questo incontrovertibile dato di fatto si ha immediatamente una bussola di orientamento per quanto concerne l'attività pratica del giornalismo fascista. Ciò che è nocivo si evita e ciò che è utile al regime si fa...³

    In una situazione del genere l'Agenzia Stefani finì per diventare la voce del Duce.

    Travolta dagli eventi del secondo conflitto mondiale la storica agenzia di stampa italiana cessò l'attività alla caduta del fascismo.

    Nel gennaio del 1945, quando l'Italia era ancora divisa in due, al Sud gli alleati, al nord la Repubblica Sociale Italiana, nelle zone liberate fu fondata l'Agenzia Nazionale Stampa Associata (ANSA).

    Nota per la consultazione. I testi dei discorsi sono trascritti fedelmente dai dispacci. Si è scelto di non modificarne la punteggiatura.

    1. PAROLE DI GUERRA

    L'ingresso dell'Italia in guerra era ormai un dato di fatto. Dopo la ratifica parlamentare del Patto di Londra, voluto dal Re e dal capo del governo Salandra, erano iniziate le procedure per la mobilitazione generale che il 24 maggio, giorno dell'attacco all'Austria, avrebbero dovuto garantire un esercito in piena efficienza. Peccato che il generale Cadorna, all'indomani della firma del Patto di Londra del 26 aprile 1915, fosse stato tenuto all'oscuro dei termini militari del documento. Un fatto di non secondaria importanza visto che l'accordo ratificato prevedeva che l'Italia dichiarasse guerra all'Austria entro trenta giorni dalla stipula. Il responsabile delle forze armate italiane avrebbe infatti appreso della imminente entrata in guerra solo il 5 maggio, in occasione del comizio tenuto da Gabriele D'Annunzio a Quarto.

    Per i governanti italiani non si trattava solo di proiettare un esercito, male equipaggiato e per lo più poco motivato, in una avventura dall'esito incerto e dalle tante incognite. Il problema dei politici dell'epoca era quello di convincere, o meglio di condizionare, l'opinione pubblica sull'utilità e sulla ineluttabilità di una guerra.

    Non è un mistero che l'ingresso dell'Italia nel conflitto fosse sostenuto da una minoranza composta da lobbies decisamente influenti e con buona capacità di mobilitare le folle. Tra queste ricordiamo la classe politica liberale di Salandra che aspirava a far promuovere la nazione a ruolo di grande potenza; gli industriali, che nella guerra vedevano grandi opportunità economiche ed un modo sbrigativo per frenare le spinte rivoluzionarie o radicalmente riformatrici del partito socialista; i giornalisti, per lo più operativi in testate finanziate dagli stessi industriali, e un vasto movimento di intellettuali che vedevano nella guerra all'Austria il mezzo più diretto per completare l'Unità d'Italia.

    La maggioranza silenziosa e poco influente dal punto di vista politico, anche se probabilmente maggioritaria nel Paese, rimaneva indifferente o intimamente contraria alla guerra. Gli atteggiamenti più riluttanti nei confronti del conflitto arrivavano da una parte dei cattolici e dai socialisti. Questi ultimi però erano divisi al loro interno e disorientati dall'atteggiamento dei partiti proletari degli altri Paesi belligeranti che, pur aderendo all'Internazionale socialista, avevano accantonato le idee di lotta all'imperialismo ed al capitalismo e si erano appiattiti sul principio della guerra giusta a difesa della patria. Il concetto ovviamente cambiava a seconda dei punti di vista.

    Anche se le opposizioni erano divise e poco organizzate, la classe politica interventista non poteva non percepire la diffidenza, mista ad ostilità, di vasti strati dell'opinione pubblica, soprattutto dei ceti meno abbienti: occorreva convincere la gente che la guerra era giusta e che avrebbe portato grandi benefici al popolo italiano.

    Una volta consegnata la dichiarazione di guerra al governo austriaco, sul palcoscenico della politica nazionale iniziarono a scorrere fiumi di parole che ondeggiavano tra la demagogia e la retorica, sfociando, nei casi limite, nella malafede. Tutti questi indistintamente trovarono ampio spazio nelle pagine dei giornali.

    Per avere degli esempi tangibili non possiamo non iniziare dal proclama del re Vittorio Emanuele, diretto alle truppe e reso pubblico poche ore dopo l'inizio delle ostilità.

    "Soldati di terra e di mare! L'ora solenne delle rivendicazioni nazionali è suonata. Seguendo l'esempio del mio grande avo assumo oggi il comando delle forze di terra e di mare con sicura fede nella vittoria, che il vostro valore, la vostra abnegazione, la vostra disciplina sapranno conseguire. Il nemico che vi accingete a combattere è agguerrito e degno di voi. Favorito dal terreno e dai sapienti apprestamenti dell'arte, egli vi opporrà tenace resistenza, ma il vostro indomito slancio saprà di certo superarla. Soldati, a voi la gloria di piantare il tricolore d'Italia sui termini sacri che Natura pose a confine della patria nostra, a voi la gloria di compiere, finalmente, l'opera con tanto eroismo iniziata dai nostri padri. Gran quartiere generale 26 maggio 1915. Vittorio Emanuele".

    Retoriche e forse venate da un eccesso di ottimismo, le parole del sovrano non nominano in modo esplicito le terre irredente e neanche il nemico da combattere. Un discorso abbastanza vago di quelli che non fanno infiammare gli animi.

    Più temerarie risuonano le dichiarazioni del presidente del Consiglio Salandra, contenute in una lettera aperta del 29 maggio indirizzata ai senatori ed ai deputati, in risposta a richieste di arruolamento inoltrate dai parlamentari del Regno d'Italia.

    L'uomo politico si dice commosso di tanta patriottica abnegazione ed aggiunge:

    "In verità l'Italia non ha bisogno in questo momento e ho fede non avrà bisogno neppure in avvenire di leve supplementari oltre quelle di legge. Il suo grande esercito bene costituito e bene munito è sufficiente a tutte le difese".

    In un discorso pronunciato in Campidoglio il 2 giugno 1915, il presidente del Consiglio arriva a definire santa la guerra contro l'impero austroungarico.

    "... Noi siamo entrati a tutela delle più antiche e più alte aspirazioni dei più vitali interessi della patria nostra in una guerra più grande di qualunque altra la storia ricordi la quale investe e trasporta nel suo turbine non soltanto i combattenti ma tutti coloro che restano. Nessuno se ne può sottrarre... fidenti nella vittoria finale perché giusta è la causa che ci ha mossi e la nostra guerra è una guerra santa."

    Dopo la frase ad effetto, il capo del governo si dilunga sulle motivazioni che hanno spinto l'Italia ad entrare in guerra, attaccando gli Asburgo Lorena ed accusandoli di aver incendiato l'Europa con temeraria leggerezza. Sempre riferendosi ai regnanti austroungarici Salandra aggiunge: "La tesi fondamentale degli uomini di stato dell'Europa centrale si racchiude nelle due parole tradimento e sorpresa rivolte all'Italia... Note da gran tempo erano le nostre aspirazioni e noto il nostro giudizio sopra l'atto di follia criminale pel quale essi scompigliarono il mondo e tolsero all'alleanza stessa la sua intima ragione d'essere... Il governo Italiano giudicò severamente al momento stesso che ne ebbe conoscenza l'aggressione dell'Austria alla Serbia e ne previde le conseguenze..."

    A questo punto Salandra illustra i passi diplomatici che furono fatti nel luglio 1914 per spiegare all'Austria che l'aggressione alla Serbia non rientrava negli ambiti del trattato difensivo della triplice alleanza che a quel momento legava l'Italia, l'Austria e la Germania e che quindi l'Italia non aveva l'obbligo di andare in aiuto all'Austria.

    "Il 27 e 28 luglio (1914, n.d.a.) noi ponemmo a chiare note a Berlino ed a Vienna la questione della cessione delle province italiane

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