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Game of love
Game of love
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E-book378 pagine5 ore

Game of love

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Info su questo ebook

Warren Silva è tornato a New York dopo anni in cui la sua carriera stellare di calciatore lo teneva impegnato in Europa. È uno degli uomini più ammirati e desiderati al mondo e non vede l'ora di sbrigare una fastidiosa faccenda familiare per tornare alla sua vita perfetta – fatta di donne e auto di lusso – che lo aspetta oltreoceano. Ma Warren non si aspettava di incontrare qualcuno come Camila. Nel momento in cui i loro occhi si incontrano, capisce che niente sarà mai più come prima.
Camila è una donna forte e indipendente. Lavora come architetto in un'associazione benefica e mette sempre il bene degli altri al primo posto. Nonostante le scintille che volano durante il suo primo incontro con Warren, Camila sa bene che i loro mondi sono troppo distanti per dare retta all'attrazione che prova per lui. Warren, però, è molto più testardo di quanto lei possa immaginare...

Claire Contreras
Inizialmente autopubblicata, è entrata nella classifica dei bestseller del «New York Times» e di «USA Today» con la sua serie Hearts, di cui la Newton Compton ha pubblicato, Life Is Love, l’ebook Love Is Forever e Love for Love. Quando non scrive, ha sempre gli occhi tra le pagine di un libro.
LinguaItaliano
Data di uscita4 giu 2019
ISBN9788822734938
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    Anteprima del libro

    Game of love - Claire Contreras

    Uno

    Camila

    Talvolta, quando chiudevo forte gli occhi, riuscivo ancora a ricordare cosa si provava a vivere nel lusso. Le lenzuola di seta tra le mie dita, l’aria calda nei freddi giorni d’inverno e quella fredda nelle calde sere d’estate. Tutte cose che un tempo avevo avuto, seppure per un breve periodo, e che ora riuscivo a malapena a immaginare. Ero felice, però. Molto più di quanto potessi dire per la maggior parte di noi. Avevo a malapena un tetto sopra la testa. Non grandissimo, né di mia proprietà, ma era il posto che avevo chiamato casa negli ultimi tre anni, finché il proprietario non mi aveva servito una notifica di sfratto che diceva che dovevo sgomberare entro la fine del mese.

    «Entro la fine del mese? Come possono fare una cosa del genere?», chiese mia sorella Vanessa con un filo di voce, prima di alzare il tono, guardando suo marito, e domandando: «Possono farlo? È legale?»

    «Sono proprietari dell’edificio», rispose Adam dall’altro lato della stanza.

    Adam si avvicinò dove eravamo sedute noi, davanti al caminetto in marmo e prese la lettera dalle mani di Vanessa. Entrambe lo osservammo col fiato sospeso mentre i suoi occhi correvano sulla pagina, trepidanti e speranzose che potesse trovare una scappatoia tra la pletora di termini legali. Quando smise di leggere e lanciò un’occhiata rattristata verso di noi, le mie spalle si incurvarono ancora una volta. Mi concessi ancora pochi secondi di autocommiserazione prima di alzarmi dal divano.

    «È tutto a posto. Devo solo cominciare a cercare un altro appartamento».

    «Puoi sempre stare con noi», si offrì Adam. «Abbiamo spazio a sufficienza».

    A differenza del mio monolocale a Washington Heights, loro vivevano in una brownstone a Brooklyn, con tre camere da letto, due bagni più uno di servizio e persino un piccolo giardino con tanto di sedie, tavolo e barbecue. Avrei potuto trasferirmi da loro per un po’, ma non l’avrei fatto. Non ero il tipo da accettare aiuto facilmente, persino quando erano mia sorella e mio cognato a offrirlo. Facevo sufficiente autoanalisi da sapere che i problemi che avevo con mio padre erano la causa.

    «Almeno finché non ti rimetti in sesto», aggiunse Vanessa prendendomi dolcemente la mano.

    Osservai la sua mano che copriva la mia. La pelle pallida in contrasto con la mia carnagione olivastra. La manicure di un rosa delicato in contrasto con la mia rosso sangue. Crescendo, avevo studiato e imitato ogni sua mossa finché non mi resi conto che io e lei non eravamo poi così simili come pensavo, ma simili abbastanza da completare l’una le frasi dell’altra e condividere lo stesso senso dell’umorismo.

    Vanessa era schietta e gentile, con un tono di voce sognante ma mai odioso. Era il tipo di persona che tutti stavano a sentire, mentre io mi nascondevo dietro i miei silenzi. Mi ero ritrovata ad arrancare nella vita sin dai sedici anni, nel tentativo di trovare la mia strada e fallendo a ogni occasione. Non era cambiato molto da allora. Forse l’unica cosa che era cambiata era il mio atteggiamento di sfida – il bisogno di fare tutto da sola – e per questo dovevo ringraziare il mio quartiere. La sua forza trainante era contagiosa. Guardai mia sorella negli occhi marrone e sorrisi.

    «Non posso», risposi.

    «Camila, ti prego. Avete appena sepolto vostro nonno. La luce della tua vita, come hai detto nell’elogio. L’ultima cosa di cui hai bisogno è preoccuparti di trovare un nuovo appartamento», ribatté Adam.

    Le sue parole furono come un fendente. Il nonno era stato la luce della mia vita. Mi aveva aiutata a rialzarmi così tante volte che ormai avevo perso il conto. Aveva aiutato tutti noi. Se mia madre era il mosaico della nostra famiglia, mio nonno era stato il collante che ci aveva tenuti insieme. Ma ora ci aveva lasciati e sapevo che non avrebbe voluto vedermi in un perenne stato di lutto per lui, perciò avevo messo il dolore da parte.

    «Vi voglio bene, ma no grazie. Devo farcela da sola».

    Uscii da casa loro determinata a mantenere la mia parola, ma quando arrivai al bar di Charlie e gli lessi la frustrazione sul volto, capii che era necessario fare qualcosa. Charlie viveva nel mio stesso palazzo ed era proprietario del bar sul lato opposto della strada. Era un bar a conduzione familiare, passato in eredità di generazione in generazione, ed era stato lì per così tanto tempo che ormai era diventato un luogo storico. Charlie lo aveva ereditato da suo padre quando questi era venuto a mancare l’anno prima e sebbene avesse solo sei anni più di me, sembrava gestire bene lo stress che derivava dal portare avanti un’attività commerciale.

    «Mi dispiace», gli dissi sedendomi su uno degli sgabelli davanti a lui.

    «Ti dispiace?». Scosse la testa ed emise un sospiro profondo. «Hai appena perso tuo nonno, Camila».

    Distolsi lo sguardo da lui e lo fissai sul bicchiere d’acqua che avevo tra le mani. Avrei proprio voluto che tutti la smettessero di ricordarmelo oggi. Il funerale era stato tre giorni fa.

    «Ti serve nulla?», chiese con voce dolce, che mi obbligò a guardarlo di nuovo.

    Detestavo leggere la compassione nei suoi occhi marrone. Se io avevo passato momenti difficili nell’ultimo anno, Charlie ne aveva avuti il doppio. Aveva perso suo padre, sua madre era malata al punto che aveva dovuto spostarla in una struttura attrezzata, la moglie lo aveva lasciato e il fratello soffriva di dipendenza dal gioco d’azzardo tanto da avere debiti con tutta New York, e Charlie stava per essere sfrattato sia dal suo appartamento che dal suo bar, eppure riusciva a provare compassione per me. Non che aver perso mio nonno non fosse importante, semplicemente non volevo accettare la sua perdita. Non ancora. Volevo farlo alle mie condizioni, ma quando la bara fu deposta nella buca capii che non avrei più rivisto i suoi occhi marrone chiaro, né toccato le sue mani soffici e mi resi conto che la morte non aspetta che tu sia pronta. Poggiai i gomiti sul bancone e adagiai la fronte tra palmi delle mie mani.

    «Non voglio parlarne», dissi infine.

    Charlie rimase in silenzio per un attimo prima di schiarirsi la voce. «Possiamo parlare dello sfratto? Questi ricchi del cazzo mi danno la nausea. Non gliene frega niente di noi o di ciò che pensiamo. Solo un mese di preavviso è una stronzata».

    Era una stronzata. Alzai di nuovo lo sguardo su di lui e presi un sorso d’acqua, nell’attesa che Charlie continuasse con la sua invettiva e così fece.

    «Stanno tutti dando di matto, ma la gente che vive su questa strada è messa anche peggio. Possiamo cambiare casa ma come possiamo sopravvivere se ci obbligano a chiudere le nostre attività commerciali?».

    Feci un sospiro. Non mi aveva sorpreso che gli immobiliaristi si fossero spostati nel nostro quartiere visto che avevano già occupato il resto della zona. Eppure mi rattristava il pensiero che tutto ciò che conoscevamo e amavamo stava per essere demolito. Il bar, fortunatamente, era un edificio a sé stante, al contrario dello studio di yoga e del salone di bellezza che gli stavano accanto.

    «Non possono chiudere il tuo bar», dissi io afferrando una manciata di noccioline dal piattino che aveva messo tra di noi. «Non ne sei il proprietario?»

    «Un tempo sì. L’ho venduto al gruppo Belmonte quando ho avuto bisogno di contante per togliere dai casini quell’idiota di mio fratello».

    Le mie dita si bloccarono sul guscio della nocciolina che tentavo di sbucciare. «Merda, Charlie».

    «Ci hanno invitati a una riunione. Non so per quale motivo, visto che hanno già deciso cosa fare», disse Charlie. Alzai di scatto la testa.

    «Quando?»

    «Giovedì mattina, all’edificio Belmonte in centro».

    «Ci lasciano entrare nell’edificio Belmonte?».

    Charlie ridacchiò, evidentemente divertito dalla mia espressione di sorpresa, anche se non avrebbe dovuto esserlo. Non solo Belmonte era il gruppo immobiliare e d’investimento più grande e di successo, ma era anche il primo ad appartenere a una persona che proveniva da una minoranza etnica, di cui Javier Belmonte era il fondatore e uomo di punta. Per non parlare del fatto che era la mecca della New York dei giorni nostri. Era l’edificio che tutti avrebbero indicato dicendo: E in quel momento Brooklyn è diventata Brooklyn. Non era stato Sex and the City. Non erano stati i Nets o Notorious big, né Jay Z. Era stato Belmonte a rendere di moda vivere a Brooklyn donandogli un aspetto più accessibile.

    Erano stati loro a rendere desiderabile vivere lì per chiunque avesse una storia da raccontare (o da pubblicare). Ben presto arrivarono le celebrità che se ne andavano in giro accanto agli hipster, fingendo di essere persone qualunque. E il motivo era proprio la bellezza degli edifici e dei negozi del gruppo Belmonte. Adesso volevano fare la stessa cosa con Harlem, e sebbene io fossi assolutamente a favore dei miglioramenti quando li avevano proposti, ora cominciavo a detestare il fatto che stessero alterando la natura stessa della zona.

    «A che ora è questa riunione?».

    Charlie inarcò un sopracciglio, gli occhi marrone gli brillarono. «Vai a combattere?».

    La sua risposta mi fece sorridere. Avevo buoni motivi per lottare ma l’idea che lo facessi era ridicola. Non parlavo mai a sproposito, non alzavo mai la voce e cercavo di non fare discussioni a meno che non fosse assolutamente necessario. Questa mia aria da damigella in difficoltà mi era valsa il soprannome Pesca. Da bambini Mario Bros. era di gran moda ed essendo la piccola della famiglia ero sempre stata coccolata. Se mi arrampicavo su un albero, mio fratello si arrampicava dietro di me. Se mi sbucciavo il ginocchio, Vanessa subito accorreva per aiutarmi a rialzarmi. Forse era per questo che quando la mia famiglia aveva perso tutto, io era stata quella che ne aveva risentito di più. Non c’era più chi faceva il bucato per me o mi preparava da mangiare. Non avevo più il conforto di frequentare una piccola scuola privata. Ero stata data in pasto al mondo. Il mondo vero, in cui dovevo cavarmela da sola e sperare di essere ancora tutta intera alla fine della giornata. Quel pensiero mi aiutò a prendere una decisione. Non potevo stare a guardare senza combattere. Soprattutto perché era coinvolta la Belmonte Investments.

    Due

    Warren

    Ero in piedi, nel mezzo del campo da calcio, quando arrivò la chiamata di mio fratello che mi chiedeva di tornare a casa. Casa, aveva detto lui. Gli risi in faccia. New York non era stata la mia casa da quando me ne ero andato all’età di quattordici anni.

    «Se non vieni lo rimpiangerai, War», mi aveva detto. «Potrai dare un’occhiata ai tuoi investimenti mentre sei qui».

    Purtroppo quest’ultima frase attirò la mia attenzione. Il consulente finanziario che amministrava i miei investimenti si era preso anche troppe libertà con i miei soldi finché non avevo deciso di liberarmene qualche mese prima. Avevo qualche settimana di vacanza prima dell’inizio della stagione, e avevo comunque deciso di trascorrerle per allenarmi e mettermi in pari con gli investimenti locali. Avrei fatto qualche comparsa come promesso ai miei sponsor e un servizio fotografico che avevo rimandato, ma sapevo che se non fossi tornato a New York adesso, avrei dovuto aspettare mesi prima di avere l’opportunità di farlo – tra la storia degli investimenti, e una vocina dentro di me che mi diceva di andare a trovare la mia famiglia, decisi di prenotare il biglietto aereo.

    Le ultime volte che ero andato negli Stati Uniti, lo avevo fatto per via delle partite di calcio e in nessuna di queste occasioni ero potuto andare a New York. Ero stato a Los Angeles, Portland, Orlando, Miami, ma avevo evitato New York. Persino quella volta in cui avrei potuto fare un salto a New York tra una partita e l’altra, non lo feci. I miei compagni di squadra dicevano sempre che se vai negli Stati Uniti ma non visiti New York, tanto vale non dire che sei stato negli Stati Uniti. Potrei essere d’accordo con quel pensiero se i ricordi di questa città non mi perseguitassero, ma essere a New York mi rammentava chi ero e da dove venivo. E sebbene alcuni la giudicherebbero un’esperienza che richiama all’umiltà, per me non lo era affatto. Eppure eccomi di nuovo qua, dove tutto era cominciato, e ne detestavo ogni minuto.

    Mio fratello mi aveva preso in giro per questo. Mi aveva definito un finto newyorkese e poiché era l’unica cosa su cui aveva ragione, lo lasciavo punzecchiarmi. Avevo quattordici anni quando mi trasferii in Spagna e come ogni rampollo di famiglia benestante, sarei potuto tornare a New York ogni volta che lo desideravo, ma scelsi di non farlo. A volte arrivai persino a prenotare il biglietto aereo, ma con grande sgomento di mio padre, non salivo mai sul volo. In mia difesa posso dire che ero un adolescente la cui vita ruotava attorno a un pallone e a portarsi a letto le ragazze a ogni opportunità.

    Negli ultimi dieci anni avevo scelto di trascorrere le vacanze ad allenarmi per diverse squadre di calcio, a fare servizi fotografici e apparizioni per diversi sponsor, e a capire in cos’altro potessi investire. Al mio primo giorno a New York decisi che sarei rimasto soltanto per una settimana, ma quando Thomas Belmonte mi chiamò per dirmi che c’era da occuparsi di alcune cose mentre Javier Belmonte non era in ufficio, sapevo che era nel mio interesse essere presente.

    Il mio secondo giorno in ufficio fu tutto un firma qui, firma qua e abbiamo bisogno di te in questa riunione. Al terzo giorno ero già stufo di tutto. Avevo una mezza idea di vendere le mie azioni all’azionista di maggioranza e farla finita, ma quando sentii parlare di un nuovo progetto di costruzione, mi sentii spinto a rimanere. Avevo una squadra che stava lavorando su una nuova proprietà a Barcellona e pensai che partecipare a questa riunione avrebbe potuto aiutarmi a preparami su un paio di cosette.

    Ero in ufficio, a scorrere i file sul computer, quando cliccai sulla app delle videocamere di sicurezza. Stavo cercando di capire come uscire dal programma quando la vidi. Una donna tutta gambe, con un’incredibile carnagione olivastra e scuri capelli corti e ondulati. Di solito erano i capelli lunghi a catturare la mia attenzione. Più lunghi erano, meglio era, così potevo infilarci le dita e tirarli. Le gambe scolpite, quei dolci seni e il girovita minuto avevano attirato la mia attenzione, ma fu l’espressione imbronciata del viso che mi inchiodò. Sembrava pronta a salire sul ring e mandare qualcuno al tappeto, e quando diresse quello sguardo gelido verso la telecamera, guardandomi praticamente dritto negli occhi, mi mancò il respiro.

    Dovevo assolutamente vedere a quale piano sarebbe uscita, così da poterla seguire e darle un’occhiata più da vicino. Quando l’ascensore si fermò, lei fece scivolare il cellulare nella borsa e si voltò a guardare l’uomo che le stava accanto, il che mi offrì un’ottima visuale. Sembrava essere alta circa un metro e settanta, con dei fianchi e un fondoschiena che avrebbero fatto venire l’acquolina in bocca a chiunque. Guardai le porte dell’ascensore e quando si aprirono, il mio cuore accelerò. Lei era proprio al mio piano. Mi alzai, afferrai la giacca e uscii dal mio ufficio.

    Tre

    Camila

    «Detesto indossare la cravatta», disse Charlie accanto a me.

    «Stai benissimo».

    «Non dovremmo metterci molto, giusto?».

    Mi voltai a guardarlo. «Non ne ho idea».

    «Sei sicura che te la senti?», mi domandò lui con lo sguardo preoccupato.

    «Sono venuta fin qui, no?».

    Charlie annuì e emise un sospiro. «Ho l’acconciatura ancora intatta?»

    «Credo che la tua acconciatura sia rimasta intatta per i primi cinque minuti. Non dovresti giocherellarci se vuoi che si mantenga».

    Non avevo mai visto Charlie indossare un completo, né con i capelli pettinati all’indietro. La sua tenuta quotidiana consisteva in indumenti in pelle e flanella, che lo facevano sembrare un misto tra un motociclista che era stato sbattuto fuori dal gruppo e un agricoltore del Wisconsin. Poiché i capelli scuri erano troppo corti da raccogliere a coda di cavallo, ma troppo lunghi e mossi da domare senza l’uso di prodotti appositi, solitamente li lasciava sciolti.

    «Tu hai già avuto a che fare con gente del genere», disse lui agitando la mano verso un’area ampia. «Giusto?».

    Distolsi lo sguardo dal suo e mi alzai per sfuggire a queste sue vibrazioni nervose. Mi diressi verso le ampie finestre che erano su un lato della sala. Era una soleggiata giornata d’estate. Un caldo infernale, avevo rimarcato durante il tragitto per venire qui. Ma nella sala conferenze, con una bellissima vista sulla città, non sembrava insopportabile. Mi domandai cosa ne pensassero le persone che lavoravano ai piani così alti. Con un po’ di sforzo sarei probabilmente riuscita a individuare l’edificio in cui ero cresciuta. Se chiudevo gli occhi per un po’, riuscivo a ricordare cosa si provava a passeggiare in quel quartiere. Spesso la sera mi domandavo come sarebbe stato tornare a vivere lì.

    Soprattutto in serate come quelle recenti, in cui l’aria condizionata non funzionava e il vento che passava dalle finestre aperte non era sufficiente. Non dovevo fare altro che chiudere forte gli occhi e ripensare all’odore del cibo che la nostra governante ci preparava e al suono delle chiavi di casa di mio padre che tintinnavano quando rientrava da una lunga giornata di lavoro. Riuscivo praticamente a sentire i miei genitori che ridevano nella stanza accanto, perché era una cosa normale quando tutto filava liscio. Quando arrivarono i tempi duri spesso mi domandavo come sarebbe stata la nostra vita se la situazione non fosse precipitata, se la mia famiglia avesse fatto scelte migliori, avuto più giudizio.

    Vanessa diceva che era una cosa stupida. Johnny mi diceva di smetterla di vivere nel passato e di concentrarmi sul futuro. Ma per me era dura. Loro erano più grandi e non vivevano più a casa. Vanessa era al college, mentre Johnny era fuori a fare Dio solo sa cosa. Non riuscivo a relazionarmi con loro, né con Charlie, che aveva lavorato dall’età di sedici anni. Io ero arrivata tardi a scoprire quell’aspetto della vita.

    La porta che si aprì e si richiuse dietro di noi mi destò dai miei pensieri. Erano persone del quartiere. Stavolta si trattava dell’anziana che viveva al primo piano e che veniva sempre al bar di Charlie il venerdì sera con cibo fatto in casa, perché non riusciva ad accettare il fatto che Charlie non ne vendesse. Sorrisi e tornai al mio posto non appena lei andò a sedersi dietro di noi.

    «Sono già venuti a offrire il caffè?», domandò.

    «La centralinista è passata», rispose Charlie. «Non credo che tornerà».

    «C’era da immaginarselo. Ecco perché il mondo va come va», rispose lei.

    «A causa della mancanza di caffè?», chiesi io. L’occhiata che mi lanciò mi tolse il sorriso dalla faccia e mi misi a sedere composta.

    «A causa della mancanza di decenza», rispose lei alzando la voce. «La gente non sa più come trattare gli ospiti».

    «Non siamo qui per una festa di benvenuto, Doris», puntualizzò Charlie.

    «Immagino di no», rispose lei contorcendo i tratti del viso al solo pensiero, prima di cominciare a guardarsi intorno. «Che tipo di posate credete usino a casa loro?».

    Chiusi gli occhi. Questo incontro si preannunciava un disastro. Per l’ennesima volta da quando avevo accettato di venire, le parole di mia sorella mi risuonarono in testa, ma fintanto che avessi trovato il coraggio di parlare a voce alta per far arrivare il suono sin dall’altro lato della stanza, sarebbe andato tutto bene. Una volta terminata la riunione sarei potuta tornare a essere la timida Camila, che non alzava la voce con nessuno. Fino ad allora avrei dovuto imitare la personalità estroversa di mia sorella. Avevo indosso i suoi vestiti dunque non sarebbe stato difficile.

    Quando la porta dietro di noi si aprì di nuovo, tutti e tre ci voltammo e il mio cuore sobbalzò quando vidi entrare due uomini in giacca e cravatta. Erano entrambi di una certa età, di certo più grandi di me, probabilmente più vicini ai quaranta. Mi girai sulla sedia seguendoli con lo sguardo mentre si dirigevano davanti alla platea. L’uomo che entrò dopo di loro mi fece sgranare gli occhi, soprattutto perché era così… insolito. Così diverso dagli altri due.

    Questo tizio era più giovane e si muoveva come se sapesse che avrebbe avuto tutti gli occhi puntati contro. Aveva un portamento sciolto, era difficile immaginare che avesse alcun tipo di problema e aveva quel tipo di fascino che ti faceva interrompere una frase a metà perché non ricordavi più cosa stavi dicendo. Aveva compostezza, la mascella squadrata e un’abbronzatura tale che mi faceva venire voglia di nascondere le braccia pallide sotto il cardigan che avevo ficcato in borsa stamattina per ogni evenienza.

    Non era affatto il tipo di uomo che normalmente avrei trovato attraente ma qualcosa nel suo aspetto attirava la mia attenzione. Forse era l’espressione cupa del viso che dava a intendere con me non si scherza. Oppure il modo in cui le spalle larghe si muovevano a ogni passo, come se fossero pesanti e fosse necessaria quella marcia in più per fare il passo successivo. Il suo sguardo si spostò per tutta la sala, soffermandosi su ciascuno di noi, come se volesse sincerarsi che lo stessimo guardando. Quando fu il mio turno, i suoi occhi indugiarono, ma io distolsi velocemente lo sguardo e fissai di nuovo la mia attenzione verso la parte anteriore della sala.

    I tre uomini presero posto dietro a una scrivania davanti al podio. Mi fece tornare in mente quell’anno in cui ero andata al Comic Con di New York con mio fratello e ci eravamo fermati allo stand dell’Uomo ragno. Il cast era seduto dietro un tavolo con un copritavola proprio come questo. Davanti a ogni attore si trovava una targhetta col nome. Era l’unica cosa che mancava qui: il cartellino col nome. Si presentarono come Thomas Belmonte, direttore operativo della società, Carson Bradley, direttore finanziario, e Warren Silva, azionista di maggioranza di questo progetto. Warren Silva.

    «Mi pare di capire, avendo parlato con la gente del quartiere, che i residenti si sentono estromessi da questo progetto», disse Thomas.

    Deglutii e attesi che qualcuno seduto dietro di me scattasse in piedi, ma quando nessuno parlò e Charlie si limitò a schiarirsi la voce, feci un respiro profondo e presi la parola tenendo lo sguardo fisso su Thomas.

    «Ci sembra di capire che volete demolire la zona per costruire una nuova area commerciale e degli appartamenti».

    «È esattamente ciò che proponiamo», rispose lui.

    «Ma questo significa che dovremo chiudere le nostre attività commerciali e alcuni di noi dovranno anche cambiare casa». Feci una pausa. «Dove dovremmo andare?»

    «Il quartiere ha subìto molti cambiamenti negli ultimi cinque anni. Sono certo che comprendiate perché dobbiamo muoverci ora».

    «Per avere la meglio sulle altre imprese di costruzione», risposi. La sua espressione rimase vacua, così continuai. «E dove dovremmo andare? Non vi interessa che molti di noi si troveranno in mezzo alla strada, senza indennizzo né un’idea della durata dei lavori. Inoltre non ci promettete che potremmo tornare nei nostri appartamenti se decidessimo di rimanere in questo quartiere».

    «Come probabilmente saprà, la maggior parte della gente a cui lei si riferisce non vorrà rimanere nel quartiere che si sta riempiendo di giovani famiglie e professionisti», ribatté lui.

    Rimasi di sasso. «E lei probabilmente saprà che la maggior parte di questa gente ha vissuto nel quartiere da prima che Cameron Giles diventasse Cam’ron¹».

    La profonda risatina di Warren attirò la nostra attenzione.

    «Lei cosa suggerirebbe, signorina…?», domandò Warren con lo sguardo fisso su di me.

    Aveva un leggero accento britannico che mi prese alla sprovvista e così rimasi in silenzio a fissarlo per un attimo, finché non riuscii a riprendermi e a scrollarmi di dosso il mio imbarazzo.

    «Avila», risposi. «Camila Avila».

    «Camila», ripeté lui.

    Ebbi un brivido per come pronunciò il mio nome, con una leggera ruvidità nel tono di voce. Cercai di reprimerlo, ignorarlo e andare avanti. Il mio corpo aveva scelto il momento meno opportuno per risvegliarsi e notare il sesso opposto. Gli occhi verdi di Warren brillarono come se ne avessero preso nota. Io sbattei le palpebre e proseguii il mio ragionamento.

    «Dateci più tempo e offrite un indennizzo a coloro che dovranno trovare un altro posto in cui vivere».

    «Lei risiede nell’edificio, signorina Avila?», domandò lui.

    «Sì».

    «Capisco. Vorrei anche sottolineare che i nuovi residenti che verranno a vivere nel quartiere di certo porteranno lavoro al bar del signor Ferguson, che potrà riaprire in breve tempo».

    «I suoi documenti fanno menzione dell’appartamento di due camere di Charlie che verrà demolito a causa dei lavori di ristrutturazione? Dove dovrebbe andare quando non solo perderà la sua attività commerciale, ma anche la casa?»

    «La nostra società mira a far rifiorire le aree. Buttiamo giù edifici di dubbio gusto per costruirne altri esteticamente belli. Sappiamo di poter migliorare la zona. Non possiamo offrire agli abitanti del quartiere un’alternativa, ma vi diamo un preavviso sufficiente per organizzarvi», spiegò Thomas unendo le mani davanti a sé sul tavolo.

    «Senza indennizzo», insistetti io, chiudendo le mie a formare un pugno per farle smettere di tremare. Charlie poggiò una mano sulla mia e strinse in segno di sostegno.

    «Vogliamo solo essere certi di ricevere un minimo di assistenza prima che ci sfrattiate», spiegò Charlie.

    «Quanti appartamenti conta l’edificio?», domandò Warren rivolto a Thomas, che con lo sguardo cercava di inviargli un monito.

    Thomas scribacchiò qualcosa e fece scivolare il foglio di carta verso Warren, il quale sgranò gli occhi non appena lesse cos’era scritto sul foglio.

    «E non gli offriamo nulla? Li sbattiamo sul marciapiede così?». Il tono di voce fermo mi prese in contropiede e quando Warren posò gli occhi su di me e i nostri sguardi si incontrarono di nuovo, la ferocia che lessi nei suoi mi fece sussultare.

    «Siamo proprietari dell’edificio, War», lo ammonì Thomas.

    «Ma non siete proprietari della nostra vita», ribattei io. «Volete toglierci ciò per cui abbiamo lavorato sodo. La maggior parte di questa gente sgobba per potersi permettere di vivere lì e voi non volete nemmeno dare loro la possibilità di tornare a vivere nelle loro case, perché il vostro progetto ha una visione differente», continuai facendo il segno delle virgolette con le mani. Feci un respiro per riprendere il controllo del mio tono di voce tremante. Potevo immaginare che aspetto avessero il mio viso e il collo, tutte chiazze rosse che comparivano quando le mie emozioni prendevano il sopravvento. Abbassai il tono di voce quando ripresi a parlare. «Non è compito suo decidere se questa gente sia o meno degna di vivere nel quartiere che lei intende costruire».

    La sala fu avvolta dal silenzio mentre i tre uomini mi osservavano. Thomas mi fissava e basta, Carson aveva un’espressione contrita, mentre Warren era leggermente poggiato all’indietro, con le braccia incrociate sul petto, e mi osservava serio.

    «Se questo fosse vero, Donald Trump vivrebbe in un fossato», disse infine Thomas.

    «Dubito fortemente che una

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