Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

101 cose da fare sulle Dolomiti almeno una volta nella vita
101 cose da fare sulle Dolomiti almeno una volta nella vita
101 cose da fare sulle Dolomiti almeno una volta nella vita
E-book334 pagine4 ore

101 cose da fare sulle Dolomiti almeno una volta nella vita

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Quando si pensa alle Dolomiti vengono subito alla mente discese innevate, boschi, natura incontaminata, paesaggi superbi e aria buona. Ma le Dolomiti offrono molto altro: sono un luogo di cultura, storia e leggenda; di tradizione gastronomica, fatta di grappe, strudel e pastin. Questo libro ci mostra 101 percorsi, alcuni usuali, altri inediti, per svelarci tutti i segreti della montagna. Conosceremo l’orso, spieremo i cervi in amore, voleremo velocissimi nei cieli della val Badia, sorseggeremo un bicchiere di vino con le dive degli anni Sessanta a Cortina d’Ampezzo, rivivremo la guerra in trincea dei soldati del ’15-18 e quella dei partigiani che lottavano per la libertà in montagna. E ancora, scenderemo nella pancia della terra con i minatori tedeschi, risaliremo le pareti di un atollo tropicale, ci maschereremo di legno a Carnevale, inseguiremo formaggi in corsa, assaggeremo il gelato più buono di sempre… Un viaggio sorprendente in una delle terre più belle del mondo, divenuta recentemente patrimonio dell’Unesco.

Le Dolomiti come non le avete mai viste!
Ecco alcune delle 101 esperienze:

Ritrovare la fede nella chiesa più bella delle Dolomiti
Fischiettare canzoni degli alpini in una trincea a duemila metri di quota
Fare il bagno sotto la Croda da Lago (brrr!)
Visitare il castello di Tristano e Isotta
Curiosare tra le regole delle Regole
Percorrere la Grande strada delle Dolomiti
Assaggiare il Traminer, lungo la Strada del vino
Dormire nel bivacco più bello delle Dolomiti
Pedalare da Cortina a Dobbiaco
Ascoltare il silenzio in una cattedrale fatta di alberi
Ascoltare i cervi nel bosco storto
Partecipare al Carnevale di Sappada
Vivere sette giorni da orso


Alice Cason
è nata a Belluno, ai piedi delle Dolomiti, nel 1984. È giornalista, traduttrice e doppiatrice.
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854158092
101 cose da fare sulle Dolomiti almeno una volta nella vita

Correlato a 101 cose da fare sulle Dolomiti almeno una volta nella vita

Titoli di questa serie (100)

Visualizza altri

Ebook correlati

Viaggi in Europa per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su 101 cose da fare sulle Dolomiti almeno una volta nella vita

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    101 cose da fare sulle Dolomiti almeno una volta nella vita - Alice Cason

       1.

    CAPIRE COSA SONO, QUESTE DOLOMITI

    Non hanno un confine, come una regione, non sono nominate una a una con cartellini identificativi e, mannaggia a loro, si trovano in mezzo ad altre montagne: potrebbe venirvi il dubbio, a un certo punto. Cosa diavolo sono, queste Dolomiti? O meglio: che cos’è Dolomiti, di quello che sto guardando ora?

    Non c’è una risposta corretta, ce ne sono diverse. Fin dalla (non) definizione le Dolomiti si raccontano per quello che sono: un territorio complesso e frastagliato, ricco di tante realtà diverse, poco incline a farsi etichettare.

    Ci sono le Dolomiti riconosciute Patrimonio dell’umanità dall’UNESCO, nel 2009: nove sistemi sparsi che si estendono per 142.000 ettari, più 89.000 ettari di aree tampone. I monti Pallidi riconosciuti dall’UNESCO sono, da ovest verso est, le Dolomiti di Brenta, il Bletterbach, il gruppo Sciliar-Catinaccio-Latemar, il gruppo Puez-Odle, la Marmolada, le Dolomiti Settentrionali, l’area Pale di San Martino-Pale di San Lucano-Dolomiti bellunesi-Vette feltrine, il gruppo Pelmo-Croda da Lago e le Dolomiti friulane o d’oltre Piave. I nove gruppi non formano un’area compatta e contigua, sono piuttosto un arcipelago di cime. Le isole, anziché da bracci di mare, sono separate da altre montagne, che non sono state inserite nelle lista UNESCO: il gruppo del Sella, ad esempio, che pure – secondo altre visioni – è le Dolomiti, con tutte le valli ladine che gli si diramano attorno.

    Ci sono le Dolomiti intese come il territorio compreso tra cinque fiumi: a nord la Rienza, a est il Piave, a sud ancora il Piave, un breve tratto di Cismon e il Brenta, a est l’Adige e l’Isarco.

    Ci sono le Dolomiti della pubblicità e della percezione comune (in che regione si trovano?) e ci sono poi quelle reali: in larga misura bellunesi, qualunque definizione si decida di adottare.

    Infine, ci sono le Dolomiti dell’immaginazione, naturalmente, che moltiplica le cime a suo piacimento, e di volta in volta le trasforma: i castelli incantati si fanno mare tropicale, poi campi di battaglia, palcoscenici di eroiche imprese, crode indifferenti o spaventose. «Sono pietre o sono nuvole? Sono vere oppure un sogno?», scriveva Dino Buzzati.

    Ad aumentare lo spaesamento si aggiunge anche la questione del nome. Dolomiti sono le montagne, dolomite è il nome del minerale del quale (anche, e in parte: ma lo vedremo più avanti) sono costituite. Il nome – sia del minerale che, poi, delle montagne – viene dallo scienziato ed esploratore francese che per primo scoprì la dolomite. Déodat de Dolomieu arrivò in Tirolo nell’anno della Rivoluzione francese, 1789. Si incuriosì per quelle strane rocce chiare che sembravano calcare ma a contatto con gli acidi non schiumavano come avrebbero dovuto. Nel 1792 il nuovo minerale – doppio carbonato di calcio e magnesio – venne chiamato dolomite in suo onore. È solo nel 1864, però, con la pubblicazione della guida di due viaggiatori inglesi, che queste diventarono The Dolomite Mountains.

    In questa guida, le Dolomiti sono la regione montuosa compresa tra i cinque fiumi, più le aree UNESCO del Brenta e delle Dolomiti friulane. Qui e là compaiono luoghi che con le Dolomiti non c’entrano nulla, per i quali però vale la pena fare una deviazione – comunque contenuta.

    Che facciamo? Partiamo?

       2.

    ASSAGGIARE TUTTE LE GRAPPE FATTE IN CASA DI UN RIFUGIO

    Venire sulle Dolomiti e non passare almeno una notte in rifugio non avrebbe molto senso. Di rifugi ce n’è per tutti i gusti e per tutte le gambe: in qualche valle, in qualche cima, c’è di sicuro il rifugio della vita per ciascuno di voi. Si tratta solo di mettersi lo zaino in spalla e cominciare a vagabondare. La scelta poi dipende solo dal fiato a disposizione, dalla voglia di fare fatica, dal gusto in fatto di paesaggio, dal mezzo con cui intendete salire (bici? Ciaspe? Gatto delle nevi?), dal tipo di ambiente in cui volete passare la serata.

    Per dire: se scegliete un locale con un centinaio di posti letto è probabile capitiate in un albergone in quota. Niente da dire, spesso hanno stanze meravigliose, piumoni caldissimi e bagni impeccabili. Magari anche la sauna. L’idea di rifugio per come la intendiamo noi è un po’ più spartana, a dire il vero. Tante volte però anche gli albergoni si trovano in posti talmente meravigliosi, che chissenefrega della folla – magari cercate di evitare ferragosto e saliteci in giugno, o in settembre. Se state programmando una notte in un posto direttamente raggiungibile con una funivia, un servizio jeep, un elicottero o uno yak, anche in questo caso non aspettatevi grandi silenzi e solitudini appaganti. In generale, più un posto è fuori mano, più è probabile che vi si respiri aria da vero rifugio: gente che arriva stanca e sorridente, chiacchierate – probabilmente in tedesco – dopo cena, a letto presto e in piedi il prima possibile, per godersi la mattina, o l’alba addirittura.

    Ciascuno, col tempo, mette insieme un proprio personalissimo elenco; per me il rifugio è: 1) l’aria frizzante delle sei e mezza di mattina, 2) cieli tersi di un azzurro carico che non vedo mai da nessun’altra parte, 3) l’acqua gelida nel rubinetto, 4) la pioggia che ticchetta mentre mi addormento in un bozzolo caldo, 5) le colazioni pantagrueliche, 6) vincere tutti i miei istinti di conservazione e uscire all’aperto, quando fa buio, per vedere le stelle, 7) le schitarrate serali, 8) puzza di piedi e gente che russa in camerata, 9) il piacere di salutare chiunque incontro con un sorriso e 10) la grappa prima di andare a letto.

    Se quello in cui vi trovate è un rifugio che ha schnaps fatte in casa, gioite pure. Dopo una cena più o meno luculliana – polenta, gulash, capriolo, funghi, torta di grano saraceno – è consigliato, per favorire il sonno, un bel grappino alla genziana, per i più tosti, oppure al cumino, al mugo, alla melissa. Fatevi consigliare dai vicini, quelli che hanno il tavolo stracolmo di bicchierini vuoti e parlano a voce alta.

    Ultima annotazione: in giro per monti capita di incontrare un esemplare che chi lavora nei rifugi – e in generale chi ama la montagna – detesta, più o meno cordialmente. È il tipo umano detto cafone. Stategli alla larga. O, se siete voi, attenuate i toni: le cameriere e gli altri camminatori ringrazieranno. Per capirsi. Fa parte di questa specie la turista che ordina una bistecca bene al sangue e poi la dà da mangiare al cagnetto con cappotto che ha con sé. Chi impazzisce perché non c’è connessione Internet e chi sbraita al cellulare. Anzi, chi sbraita in generale. Il «ma come, non ce l’avete la Diet Coke?». Il gruppo che si sbronza e non rispetta gli orari di chiusura, ovvero, gli ultimi che alle dieci e mezza di sera sono ancora alzati e se ne fregano se tre dipendenti sono lì solo per loro (chi lavora in rifugio non ha giorni di riposo, di solito. Per due, tre, quattro mesi. Capirete se sono stanchi, a volte). Chi si lamenta perché non ci sono cestini: non ci sono perché ognuno è tenuto a portare a valle la propria spazzatura. Chi chiede alla cameriera trafelata «ma questi canederli, come si fanno?»: è una cameriera, non il cuoco, e non ha tempo, ora. Continuiamo: il caffè costa più che in città, sì, ma non è una vergogna. È solo che non ci sono torrefazioni in quota. «Il bagno dov’è?», in fondo a destra, «Il timbro del rifugio dov’è?», qui sul bancone, «È tanto dura salire al lago?»: perché non vi avventurate, scopritelo da soli, è una soddisfazione a volte. Infine: chi si fa attaccare dalle mucche comportandosi come un tafano, mentre si crede un Indiana Jones delle montagne.

       3.

    RITROVARE LA FEDE NELLA CHIESA PIÙ BELLA DELLE DOLOMITI

    Se siete fortunati capiterete a San Candido/Innichen in un giorno qualunque, di mattina presto. Vi aggirerete un po’ per il centro – che comincerà ad animarsi di gente frettolosa che si dà il buongiorno – finché non verrete irrimediabilmente attratti dalla chiesona di fianco alla piazza principale. Così circondata di mura, chiara contro il verde a macchie colorate del piccolo cimitero, sembra una cittadella fortificata all’interno del paese. Entrerete nel cortile accompagnati dal cigolio del cancello, gironzolerete tra le croci in ferro battuto, non vi lascerete sfuggire l’affresco affollatissimo della tomba della famiglia Marchetti – subito sulla sinistra rispetto all’ingresso principale. Farete un giro completo attorno alla chiesa, per osservarne i tre portali: prima quello a sud, alleggerito da colonnine, con Cristo giudice del mondo in rilievo sulla lunetta circondato dai simboli degli evangelisti (è lì dal XIII secolo), e, sopra, l’affresco quattrocentesco di Michael Pacher, che ritrae ai lati i patroni della chiesa – san Candido e san Corbiniano – assorti nei loro pensieri. Poi il retro della chiesa, le cui linee architettoniche agitate (rispetto alla facciata) già ne raccontano la struttura interna. Il portale a nord è coperto da un piccolo protiro, la lunetta è affrescata con colori brillanti che spiccano sui blocchi di pietra delle mura. Infine la facciata, semplicissima, quasi spoglia. È il romanico, signore e signori: amatelo pure senza remore. Il meglio, però, deve ancora venire.

    All’inizio (VIII secolo, cioè) qui c’era un monastero benedettino, voluto dal duca bavarese Tassilone III per contrastare l’espansione degli slavi dell’Est – cristianizzandoli, ovviamente. Nel 1043, dopo che il convento venne trasformato in collegiata, si cominciò a costruire la chiesa romanica che vi trovate di fronte. Ci vollero quasi duecentocinquant’anni (il campanile venne aggiunto qualche tempo dopo): oggi la Collegiata di San Candido è la chiesa più bella delle Dolomiti, però.

    A questo punto entrerete dal portale principale. La chiesa vera e propria è preceduta da un atrio, che dà su una cappella affrescata: finalmente ecco il portale romanico, grandioso, e poi l’interno a tre navate, con il presbiterio rialzato sotto la cupola centrale. Se siete molto fortunati, qualcuno vi avrà preceduto, e starà recitando l’Ave Maria in tedesco. La cantilena dei fedeli riempirà gli spazi ampi della chiesa, illuminati dalla luce che entra soffusa dalle finestre a feritoia e crea fasci polverosi tra le navate. Qui dentro non c’è nulla che possa distrarre il vostro incantamento: niente statue dorate, niente quadri cupi alle pareti, niente fiori né decori da horror vacui. Solo la luce, l’Ave Maria in sottofondo, le linee severe e slanciate del colonnato e lo splendido gruppo ligneo dietro l’altare: un crocifisso del XIII secolo in cui la Madonna e san Giovanni fanno compagnia al Cristo incoronato. Guarderete in alto, alla cupola, e vi farete raccontare la storia della Creazione da un ciclo di affreschi che da più di settecento anni narra della separazione della luce dalle tenebre, della cacciata di Adamo ed Eva dall’Eden, dell’inizio del sole e delle stelle. Seguirete la cantilena dei rosari e scoprirete, nella cripta sotto il coro, cinque vecchiette sedute di fronte all’altare, illuminate dal sole e potenziate da un’ottima acustica. In silenzio – vi preoccuperete di non spezzare l’incantesimo che vi ha catapultati agli inizi della cristianità – osserverete i giochi di luce tra le colonne (forse quelle del primo convento benedettino) e la statua di san Candido, del 1240.

    Quindi tornerete in paese, e per un po’ non avrete parole.

    Di fronte alla collegiata c’è la sua antitesi: la parrocchiale di San Michele è un gioiello barocco, carica ed esagerata come è giusto che sia. Poco lontano, vale anche la pena andare a vedere le sculture in legno dell’Ausserkirchl, una chiesa formata da due cappelle costruite una sull’altra. L’ispirazione venne, sul Golgota, al locandiere di San Candido: il signor Georg, che già aveva fatto costruire una prima cappella nel 1633, tornò dal suo viaggio in Terrasanta con pianta e prospetto della Chiesa del Santo Sepolcro. Nel 1653 la chiesa doppia era pronta.

       4.

    CERCARE LE ABITAZIONI DEI SALVANI, CHE HANNO RESO PALLIDI I MONTI PALLIDI

    A cavallo tra XIX e XX secolo c’è stato un signore, Karl Felix Wolff, che si è appassionato alle leggende delle Dolomiti e ha fatto in modo che arrivassero fino a noi, salvando una parte del patrimonio della tradizione orale ladina. Dal 1903, il buon Carlo Felice se ne è andato a zonzo per le montagne a farsi raccontare da pastori e anziani le storie delle valli e delle vette. «Come un artista che cerca di ricongiungere i pezzi di una statua frantumata», ha raccolto e trascritto quel che restava dei racconti di fate, nani e principesse dei monti Pallidi. Rimaneggiandole e completandole quando le trovava incoerenti e lacunose, sostengono i critici. A noi importa poco, a dire il vero: Carlo Felice rende le camminate tra crode e pianori ancora più ricche, e tanto ci basta. Tra parentesi, le leggende dei monti Pallidi sono un eccezionale carburante per bambini refrattari: purché i genitori abbiano fiato a sufficienza.

    Grazie a Carlo Felice, scopriamo perché le montagne che ci circondano si chiamano anche monti Pallidi.

    C’era una volta, nelle Alpi Orientali, un regno meraviglioso fatto di pascoli, boschi e montagne rocciose. Tutti ci vivevano felicemente, tranne il figlio del re, che era tormentato da un desiderio folle e ossessivo, andare sulla Luna. Nelle notti di luna piena perdeva completamente la testa e se ne andava in giro per le montagne, trasognato. Un giorno si perse in un bosco. Stanco morto, si addormentò in mezzo a un altopiano di rododendri, e fece uno strano sogno, tutto bianco, in cui incontrava la principessa della Luna. Immaginate la delusione del principe quando si risvegliò, in mezzo ai rododendri. Non riusciva più ad addormentarsi, quindi si arrampicò su una rupe altissima, incuriosito dal vociare di più persone. Dietro una porticina trovò due uomini vecchissimi, due abitanti della Luna in viaggio sulla Terra. Al principe venne un colpo, poi riuscì a convincerli a portarlo con loro sulla Luna. I vecchioni però lo avvertirono che i terrestri non potevano vivere nel loro pianeta, perché il bagliore bianco faceva perdere la vista a chi non vi era abituato. Allo stesso modo, un abitante della Luna certo non sarebbe sopravvissuto sulla Terra, per la nostalgia. Il principe finalmente realizzò il suo desiderio. Venne presentato al re e a sua figlia, proprio la stessa bellissima ragazza del sogno. Il principe se ne innamorò, e lei di lui. Erano felici, ma al principe cominciarono a bruciare gli occhi: se restava sulla Luna, dove tutto era bianco e luminoso, sarebbe diventato cieco. Quindi tornò sulla Terra insieme alla sua sposa, che portò con sé un mazzetto di fiori lunari: le stelle alpine che da allora avrebbero impreziosito i pascoli alti delle Alpi. Il problema, a questo punto, fu che la principessa si ammalò di nostalgia. Il re suo padre, preoccupato, venne a riprendersela. Lei non poteva vivere sulla Terra, lui sulla Luna: dramma! Di nuovo il principe perse la testa, e riprese a vagabondare. Un giorno in una caverna incontrò un piccolissimo omino barbuto, con una corona in testa e un viso triste. Era il re dei salvani, cacciati dal loro regno da un popolo guerriero e da allora senza patria, sparsi ed erranti per monti e boschi. Il principe raccontò le sue sventure al salvano, che prese a saltellare di gioia. Non era impazzito: poteva risolvere il dilemma del principe, a patto che il re suo padre ospitasse i salvani nelle montagne del suo regno. Il re accettò l’accordo. Quella notte su ogni cima si riunirono gruppi di salvani, che con movimenti misteriosi filarono la luce della Luna, facendone gomitoli luminosi. Quindi svolsero i gomitoloni lungo i pendii delle montagne, fino a ricoprirle di un manto luminoso. «I monti sembravano impalliditi». La principessa poté tornare dal suo principe, e naturalmente i due vissero felici e contenti. Il regno delle Alpi Orientali ormai è finito da tempo, conclude Wolff, ma «i salvani abitano tuttora nelle macchie, nelle caverne, nelle foreste».

    Nel vostro vagabondare per le Dolomiti, guardatevi attorno: in questa tana di marmotta, tra i mughi, in quel buco nero delle crode potreste incontrare uno dei salvani, gli omini che hanno reso pallidi i monti Pallidi.

       5.

    VISITARE UN CANYON, UN MARE E UNA MONTAGNA E SCOPRIRE CHE SONO LA STESSA COSA

    C’era una volta un grande mare tropicale. Aprite gli occhi: ecco cosa c’è oggi. Vi trovate nella gola del Bletterbach, con le sue pareti a strati e la cima chiara del Corno Bianco che spicca in alto contro il cielo – unica macchia uniforme in questa sbornia di colori.

    Siete nel Bletterbach, ma potreste essere ovunque, sulle Dolomiti: dalle Odle al Civetta (che non esistevano ancora, ovviamente) tutto, qui, era un mare caldo disseminato di isolotti, spiagge e scogliere coralline. Si parla di centinaia di milioni di anni fa: periodo turbolento, segnato da terremoti, maremoti, esplosioni vulcaniche. Il fondo del mare sprofondava, mentre alghe e coralli costruivano lentissimamente enormi scogliere calcaree, che venivano sepolte da immensi depositi sedimentari e/o distrutte da fenomeni sismici, chimici, vulcanici. Andò avanti così per delle ere geologiche, finché a un certo punto, ottanta milioni di anni fa, il continente africano cominciò a spostarsi verso nord. Così facendo, iniziò a premere sul fondo del mare, e lo compresse fino a sollevarlo, milione di anni dopo milione di anni: nacquero le Alpi, quindi le Dolomiti, che cominciarono a emergere oltre il livello del mare venticinque milioni di anni fa. La forma attuale della montagna che state osservando in questo momento – e di tutte le altre – è poi anche il risultato dell’erosione delle acque e del vento, della gravità e dell’opera paziente dei ghiacci, che almeno per cinque volte negli ultimi due milioni di anni hanno ricoperto le regioni alpine.

    Le Dolomiti sono state scoperte dai geologi (lo vedremo meglio più avanti), e tuttora continuano a costituire per loro un immenso parco giochi, perché le rocce che le compongono raccontano storie antichissime. Sono come una spettacolare enciclopedia di pietra, per chi sa leggerla. Diversamente da altre montagne, meno esplicite per i profani, la stratificazione colorata di bianchi, rosa e grigi del canyon del Bletterbach è un’immagine che rende intuitiva la complessità della storia geologica dolomitica: intuitiva è una parola grossa, forse, ma proprio per questo il Bletterbach è diventato un geoparco, con percorso geologico, museo e visite guidate. Da dodicimila anni, dall’ultima era glaciale, il rio delle Foglie ha scavato tra le rocce alle pendici del Corno Bianco fino a formare questa lunga gola profonda, che incide la croda come fosse una torta di centinaia di metri, rivelandone gli strati. Sotto, il porfido quarzifero, dal rosso grigio al grigio scuro, formatosi in seguito a grandi eruzioni vulcaniche avvenute quasi trecento milioni di anni fa. Quindi la pietra arenaria, frutto di progressive sedimentazioni di sabbie antichissime, compattate e trasformate in roccia. Infine gli strati di rocce carbonatiche (dolomie comprese), distinte in varie formazioni, ognuna delle quali racconta una storia diversa che va a completare il racconto di quest’area.

    Il rio delle Foglie continua a scorrere, e a scavare. Pioggia e neve continuano a cadere, i suoli a ghiacciare, il vento a soffiare: nonostante nei giorni estivi, col sole alto e l’aria immobile, possa sembrare il contrario, il canyon del Bletterbach, il Corno Bianco e le Dolomiti continuano a trasformarsi, a crescere (un millimetro all’anno!) e a essere mangiucchiate, sbilanciate, erose (più di un millimetro all’anno). L’anno prossimo saranno già differenti, tra milioni di anni probabilmente non ci saranno più: conviene approfittarne, quindi.

    Gli strati di colore della montagna, sul Bletterbach

       6.

    FISCHIETTARE CANZONI DEGLI ALPINI IN UNA TRINCEA A DUEMILA METRI DI QUOTA

    Per due anni e mezzo, dall’entrata in guerra dell’Italia fino alla disfatta di Caporetto – quando le truppe italiane ripiegarono al di là del Piave, sul Grappa – le Dolomiti vennero scippate dei loro silenzi e furono trasformate in uno strano fronte di guerra, sanguinoso e faticosissimo. La guerra divenne una faccenda verticale, combattuta sul filo dei tremila metri, in condizioni climatiche spesso estreme (gli inverni del 1915-17 furono freddi come non ne capitavano da tempo). I soldati morivano sotto i colpi dei nemici, ovviamente, ma tanti persero la vita travolti da valanghe, per congelamento, scivolando durante le arrampicate.

    Dal passo di monte Croce, in Comelico, giù fino a Rovereto – e da qui di nuovo a nord, fino al passo dello Stelvio, attraverso il Brenta – le Dolomiti furono lo scenario nel quale si confrontarono per anni infiniti italiani e austriaci, da lontano a colpi di artiglieria o vicinissimi, in trincee quasi affiancate. Sul monte Piana, un

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1