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Il Giorno del Male
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Il Giorno del Male
E-book438 pagine6 ore

Il Giorno del Male

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Info su questo ebook

La Repubblica ha dominato i mari per secoli, fino a che l’ombra dell’invasione non l’ha minacciata. Anche i Crociati, che non dovrebbero combattere per fini politici, saranno chiamati a farlo. E mentre le lame cozzeranno contro gli scudi, una setta segreta troverà terreno fertile per ascendere, tra congiure, assassinii e la grande caccia al Male…
LinguaItaliano
Data di uscita15 mag 2014
ISBN9788891141934
Il Giorno del Male

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    Anteprima del libro

    Il Giorno del Male - Lorenzo Fabre

    IL GIORNO DEL MALE

    di Lorenzo Fabre

    Prima Edizione Ebook

    Il Giorno del Male

    Copyright © 2014 Lorenzo Fabre.

    Tutti i diritti riservati. È vietata ogni riproduzione, anche parziale, senza l’esplicito consenso scritto dell’autore.

    Prima edizione Ebook: Aprile 2014.

    ISBN: 9788891141934

    Youcanprint Self-Publishing

    Per richieste, commenti o informazioni, contattare l’autore direttamente dal sito web: http://lorenzofabre.com

    Ai miei cari Amici

    Francesco e Tullio

    per le giornate passate a fantasticare storie da noi create,

    senza le quali questo romanzo e uno o due dei suoi personaggi,

    non sarebbero mai venuti alla luce.

    L’autore vuole inoltre ringraziare inoltre tutti quegli Amici che si sono prestati all’opera di lettura e correzione, con dedizione più che apprezzata.

    Prefazione

    Affacciarsi nel già vasto panorama della narrativa fantastica non è facile. Fin da quando l’uomo ha immaginato e rielaborato la storia di Re Artù e Merlino, la vicenda di Beowulf o quella del Paladino Orlando, le produzioni letterarie e cinematografiche hanno confinato il fantastico in stereotipi ormai così radicati nell’immaginario collettivo da renderlo inevitabilmente prigioniero dei cliché. Le pagine abbondano di castelli incantati, maghi, vampiri, streghe bellissime e creature demoniache.

    Questo romanzo invece mira a raccontare ciò che sarebbe potuto succedere in una città simile a quelle dell’Europa medievale e in particolare in una delle Repubbliche Marinare italiane: Genova.

    Il mondo in questione è quindi pesantemente ispirato a quello storicamente esistito tra l’undicesimo e il quindicesimo secolo, rendendo perciò questo romanzo (in parte) figlio dei libri di storia, più che di quelli fantastici.

    Ma perché questo dovrebbe essere diverso dagli altri libri che trattano di temi fantastici?

    Gli abitanti della città dov’è ambientata la vicenda, vivono in nazioni ben lontane dalla Frontiera, dove abbondano le creature favolose delle più tipiche storie fantasy. Ecco che i draghi e i restanti esseri favolosi sono visti come irraggiungibili e inimmaginabili dai protagonisti di questo racconto, proprio come noi moderni li percepiamo come elementi di pura leggenda.

    E cosa accadrebbe se in questa città tipicamente medievale, accadessero eventi fantastici?

    Questo è stato lo scopo: raccontare un mondo conosciuto sui libri di storia ma contaminato da creature ed elementi magici.

    Il tentativo di chi vi scrive, inoltre, è stato quello di dare un taglio cinematografico alle vicende ed ai dialoghi, dando solo alcuni elementi descrittivi essenziali perché possano essere immaginati facilmente dal lettore senza esagerare con le descrizioni troppo dettagliate tipiche del genere.

    La speranza è di avvicinare i lettori al genere fantastico offrendogli un antipasto ovvero un substrato storico ad essi già noto, per poterli convincere ad assaggiare pietanze più fantasiose, con garbo e a loro piacendo.

    Nel romanzo troverete anche molte citazioni riconducibili a libri, giochi, film o musica che mi hanno ispirato; laddove vi fossero, esse devono intendersi come sinceri tributi di gratitudine al genio di chi le ha partorite e non banali copiature. Ne è un immediato esempio la frase d’apertura del romanzo e celebrante la Liguria, che in versione mitizzata rivive fortemente in queste pagine.

    Dato che mi considero più un raccontastorie che uno scrittore, come tale avrò di sicuro commesso diversi errori che vi prego di segnalarmi contattandomi sul sito ufficiale http://lorenzofabre.com, per le prossime edizioni.

    Ed ora vi auguro semplicemente buona lettura.

    Lorenzo Fabre

    Prima di cominciare

    La teoria della Impronta.

    Come potreste già aver letto dal sito LorenzoFabre.com, il Mondo di Fabre e il Mondo Reale dove viviamo e agiamo noi, sono collegati. Un evento che accade in uno dei due mondi lascia una Impronta o meglio Impronta Storica sull’altro. Questo significa che ciò che accade nel nostro Mondo potrebbe accadere in maniera simile anche in quello di Fabre (forse potrebbe accadere anche l’opposto). I due Mondi procedono sfasati ovviamente di un periodo di tempo non noto e questo può alterare l’insorgenza degli eventi. Qualcosa successo qui nel 1500 potrebbe accadere precocemente nel Mondo di Fabre, specie se si trattasse di un evento grandioso che quindi lascerebbe un’Impronta decisamente grande.  Grandi eventi, come guerre mondiali o grandi conquiste o scoperte, tendono ad avere una sorta di ansia storica e a verificarsi più presto che possono nel mondo di Fabre.

    Questo non vuol dire che i mondi procedano come copia l’uno dell’altro perché fortunatamente esistono eventi spontanei insorti in ambedue i mondi che non necessariamente si verificano nell’altro mondo.

    La Pronuncia dei nomi

    Nel Continente immaginario dove è ambientata la vicenda, che è simile all’Europa medievale, si parlano numerose lingue. È quindi parso necessario trovare un modo per rendere la pronuncia dei nomi la più facile possibile senza abbandonarsi a grafie estranee all’idioma parlato dal lettore.

    La lingua che la maggioranza dei protagonisti del romanzo parla è il volgare del sud, nella sua variante lenvare, una lingua derivata dalla lingua imperiale sabana: quest’ultima è diventata una lingua dotta e universale che potremmo paragonare al latino (o all’odierno inglese). Nel Continente si utilizza ancora discretamente la lingua imperiale sabana, come fu per il latino medievale, storpiato da quello antico attraverso contaminazioni successive.

    Il volgare lenvare, similmente a quello medievale italiano, è parlato dal popolo e ha sostituito gradualmente il sabano come lingua comune nella Repubblica di Lenvar, dove si svolgono le vicende. Nel romanzo questa lingua è tradotta come l’italiano corrente, mentre le parole in lingua sabana sono riportate come latino per consentire una più adeguata immedesimazione al lettore. Alcuni personaggi provenienti da altre nazioni sporcano occasionalmente con alcune parole prese in prestito da inglese e francese.

    Per verificare come si pronunci il nome proprio di un personaggio o di una famiglia è sufficiente controllare nell’appendice apposita alla fine del libro: non v’è pronuncia dei nomi alla francese o all’inglese (perlomeno in questo romanzo), ma sono tutti da pronunciarsi all’italiana.

    Per alcuni personaggi che non provengono da Lenvar (pron: Lénvar), i nomi saranno scritti con alcune lettere prese in prestito dall’alfabeto inglese (come la y o la w), per sottolineare un’appartenenza etnica più esotica.

    L’enciclopedia online del Mondo di Fabre

    Sul sito LorenzoFabre.com troverete una enciclopedia online che contiene ogni informazione utile riguarda a questo libro e sul mondo dove è ambientato.

    Le appendici in fondo al libro

    In esse troverete una piccola enciclopedia dei nomi dei personaggi con una loro sommaria descrizione (ottima se vi siete dimenticati qualche nome), una piccola descrizione di come è la vita nel Continente (ma se immaginate l’Europa tardomedievale siete già a buon punto), di come funzioni la Repubblica di Lenvar e la religione, per poi passare alla parte più misteriosa. Le appendici non rivelano grossi particolari della trama e quindi potete decidere di leggerle in ogni momento.

    La misurazione del tempo

    Nel Continente è in uso un sistema di misurazione del tempo leggermente diverso dal nostro: il calendario sabano. Troverete una tabella comparativa nelle appendici.

    "E quésta a l'é a mæ stöia,

    e ta-a véuggio contâ

    'n pö prìmma ch'a vegiàia

    a me péste into mortâ"

    "E questa è la mia storia,

    e te la voglio raccontare

    un po’ prima che la vecchiaia

    mi pesti nel mortaio."

    -- Fabrizio De André

    Sinan Capudan Pascià

    Parte I: Gioventù.

    La vita è un'attesa tra un esame e l'altro.

    -- Sergio Leone

    1.

    Prologo

    Stringere bene lo scudo

    Molti secoli fa, esisteva il Continente: un enorme affioramento di pianure, fiumi, monti e alberi, che si estendeva per decine di migliaia di leghe da est a ovest. Varie etnie di uomini lo abitavano a sud, mentre misteriose creature dimoravano a nord. L’Impero di Saba, che un tempo dominava tutto, si era dissolto da secoli, ma le sue vestigia di gloria erano portate avanti da regni, principati, comuni e repubbliche, che attraverso la spada o l’intrigo di corte tentavano di ritagliarsi il loro posto sul podio delle civiltà.

    Affacciata sul Mare del Sud, c’era la Repubblica di Lenvar: nazione di marinai e commercianti che prosperava grazie alle sue colonie d’oltremare e all’ingegno dei suoi mercanti, rivaleggiando con le altre potenze marittime.

    Tra le sue mura e i vicoli stretti sorvolati da gabbiani urlanti, alcuni dei suoi giovani abitanti avrebbero vissuto vicende che mai avrebbero potuto immaginare da uomini, accompagnati da veterani che già avevano assaggiato il potere del male sulla propria pelle.

    Questa è la vicenda di alcuni di questi individui che non ebbero paura di impugnare la spada per difendere i loro ideali e conquistare i loro sogni.

    Si dice che un soldato in guerra sia un eroe oppure il peggiore dei malvagi. È curioso come pochi pensino a qualcuno che combatta in altra maniera rispetto a questi due estremi. Tra il folto schieramento dei Crociati, uno dei ragazzi appena ventenni che vestivano la tunica bianca con il Solecroce sopra l’armatura, non pensava ad altro che alla sua paura.

    Stringere bene lo scudo.

    Valen Galron, questo il suo nome anche se tutti lo chiamavano Val, si mise a ripassare mentalmente tutti i consigli che il Sergente Caviled gli aveva dato. La spada va allentata nel fodero, pronta all'estrazione. Controlla che l’elmo sia allacciato saldamente. Pianta i piedi per terra, esponi il corpo di tre quarti e alza lo scudo all’altezza della spalla. La lancia va impugnata...

    In quel momento Val Galron comprese che quel giorno avrebbe ucciso qualcuno, oppure sarebbe stato ucciso. Forse entrambi.

    Perché sono qui?! pensò. Perché non me ne sono restato a casa con la mia famiglia?! Perché?!

    Era solo un ragazzo, un abitante di Lenvar: quello era il nome della sua città-stato, circa quarantamila anime, senza contare il territorio su cui governava il suo Doge e le numerose colonie d’oltremare.

    Quel giorno Vale se ne stava in mezzo ad un’orda di soldati strepitanti, molto anche più giovani di lui. Osservava il folto schieramento di Gaberne, di fronte a quello lenvare.

    Val allora alzò la testa e guardo il cielo: fissò la croce rossa con i grifoni di Lenvar che sventolava sopra il suo capo. È per questa croce che sono qui, pensò.

    La piana brulicava di decine di migliaia di uomini ammassati come formiche, disposti in blocchi grossolanamente rettangolari, che esponevano numerosi stendardi al vento e portavano tuniche di vari colori. Chiasso e nitriti, urla e tintinnii facevano da accompagnamento alla scena che si presentava davanti ai suoi occhi. Spade, bandiere, elmi luccicanti. Frecce incoccate, lance e scudi: tutto era pronto su quel palcoscenico per la strage che stava per accadere.

    A meno di ottocento passi da loro, l’armata gabernica si stagliava lontana ma minacciosa. C’erano molti cavalieri tra le sue file e questo complicava le cose.

    Sulla pelle Val indossava una sottoveste: sopra portava una cotta di maglia di ferro rinforzata da un corpetto borchiato e due spallacci di metallo battuto. Indossava pantaloni di maglia, bracciali e schinieri, una cuffia di maglia che aveva lasciato ricadere sotto il collo (lo infastidiva parecchio indossarla) e l’elmo a barbuta che proteggeva quasi tutto il viso. Sopra il corpetto era fissata con una cintura la tunica bianca con il simbolo del sole a quattro raggi: il Solecroce di Sant’Isior, simbolo della sua Ecclesia. Sullo scudo, diviso in quarti da una croce rossa, c’erano i simboli del Solecroce e il grifone rosso della Repubblica di Lenvar. Portava poi la spada di acciaio che si era forgiato e gli era stata consegnata all’investitura (una buonissima lama, dato che il Sergente Caviled lo aveva aiutato nella forgiatura). L’armatura pesava ed era imbottita, ma nonostante questo Val aveva freddo e i brividi. Era la paura: la conosceva e la odiava ed essa lo invadeva.

    I chierici passavano rapidamente per lo schieramento con i loro incensatori:

    Ego vos absolvo ab omnibus peccatis vestris. Aeternus Rector dona eis vim. Ad tuum Paradisum, filios tuos defunctos recipe.

    Lo dicevano cercando di fare presto: tante anime sarebbero ascese al cielo e non c’era tempo da perdere.

    Gli uomini erano spaventati: dietro alle file dei contadini, i Motivatori gridavano come cani furibondi, le loro voci amplificate all’interno di grossi coni di rame. Essi erano uomini appartenenti alla ricca borghesia o alla nobiltà della Repubblica, con amicizie in genere influenti che gli garantivano un posto lontano dalle prime linee. Erano anche chiamati Asce d’Oro, perché il loro equipaggiamento, pari a quello dei Crociati per qualità, li dotava di una grossa ascia dalla testa dorata. Il loro compito era di coordinare ed incitare i coscritti delle campagne, poco addestrati e spesso indisciplinati e impedirne la ritirata: a questo servivano le asce che portavano sulla schiena. Erano odiati da tutti i soldati Lenvari (che li chiamavano mastini o bavosi) e appartenere a questo corpo non era certo motivo di vanto o pregio, ma segno di codardia. La stessa codardia che essi dovevano impedire.

    Val guardò l’erba alta. Adesso che aveva paura gli sembrava così bella e florida mentre il vento la muoveva appena. Mista ai cardi, alle ginestre, alle eriche, ai denti di leone. Si ricordò dei crochi d’inverno quando l’erbetta è bassa che quasi finge di essere incollata alla terra. Gli alberi erano belli e verdeggianti, da soli o a gruppetti sulla piana che estendeva fino al Mare del Sud, così blu da sembrare di zaffiro. Qualche muretto a secco giaceva abbandonato, costeggiando piccole stradine battute che dividevano i poderi.

    Fu l’urlo del Sergente Caviled a riportare il giovane alla nuda realtà della guerra.

    «Avanzano! Issate gli stendardi! Muro di lance frontale! Gli elmi ben allacciati: la prima linea prenderà parecchie sberle, specie sul capo. Tenete gli scudi alti e occhio ai fendenti. State saldi, non cedete alla paura! Ogni fratello è responsabile di chi gli sta accanto oltre che di se stesso! Per la Repubblica, San Vardem e Sant’Isior!»

    Val si dispose piantando i piedi a terra, lo scudo alto e la lancia tenuta saldamente. Alzò gli occhi al cielo, come per chiedere forza: a Sant’Isior e a suo padre, al nonno, a tutti coloro che gli avevano voluto bene e non c’erano più. Il tamburo batteva sordo a intervalli regolari a segnalare di mantenere la posizione, i corni squillarono il medesimo comando.

    La paura e la frenesia si mescolavano nell’aria, le armature cozzavano l’una con l’altra, qualcuno intonava canti e frasi per darsi coraggio. Le bandiere azzurre dei gabernici si avvicinarono. I balestrieri avevano teso le loro corde ed erano pronti a trucidarli. Ser Ianos, sul suo splendido cavallo nero poco bardato, cavalcò davanti allo schieramento dei Crociati, incitandoli.

    «Pronti! Impartite le vostre benedizioni! Proteggete con le preghiere le prime file! È l’ora dei Miracoli!»

    Val prese il suo Cerìse e intonò le parole rituali in antico sabano:

    Sancte: in nomine tuo credo; cum tua vi, resisto!

    Ne permìttas ab te separàri. Anima Isioris, sanctìfica me!

    Di fronte ai crociati un polverone come un enorme sciame di vespe, avanzava inesorabile: una massa di cavalli mandati al galoppo selvaggiamente, le lance dei cavalieri gabernici ormai basse.

    Val osservò i cavalieri guadagnare mero su metro, diventando sempre più grandi, mano a mano che si avvicinavano. Il rombo delle centinaia di zoccoli ammutolì tutti.

    È la fine, pensò il ragazzo. Qui finisce la mia vita. Ti chiedo perdono per tutto ciò che di male ho commesso, Eterno.

     L’urto quasi spezzò un braccio a Val, che fu travolto e finì a terra. La sua lancia si conficcò ciecamente nel corpo d’un animale: si vide arrivare i denti del cavallo a pochi centimetri dalla faccia, la bocca spalancata dal morso tirato selvaggiamente dal cavaliere. Fu schizzato di sangue. Sperava non fosse suo, ma non ne era certo: era come se avesse perso ogni sensibilità. Attorno a lui, mentre la sua lancia si spezzava, corpi si ammassavano gli uni sugli altri. Il clangore del metallo su metallo era assordante, ma la linea aveva tenuto. I gabernici rimasti in sella menavano fendenti sulle teste dei Crociati, ma erano disarcionati e uccisi senza pietà.

    Dopo una prima esitazione, Caviled gridò di ingaggiare liberamente il nemico: «All’attacco! All’attacco!». I corni e i tamburi ribadirono l’ordine. Val sguainò la spada e corse contro il suo destino, urlando.

    2.

    Amici di vecchia data

    Aveva solo tredici anni il nostro Val, quando era entrato al Grande Tempio di Sant’Isior. Sua madre, Milesia, era contraria a vedere il figlio brandire una spada e rischiare la morte contro chissà quali creature mostruose, come si confaceva ad un vero Crociato di Sant’Isior. Ma di creature non ne erano rimaste molte in quei tempi civilizzati: gli esseri crudeli e malvagi delle fiabe erano spariti dal Sud del Continente e la razza Umana aveva proliferato senza sosta fondando numerosi regni, ducati e repubbliche. Niente draghi, niente mostri: solo la politica, le guerre di confine, carestie, matrimoni reali, epidemie e i litigi tra i nobili.

    La sua terra, Lenvar, era una Repubblica da qualche secolo: da quando aveva cacciato il Re, colpevole di avere ostacolato (si disse) il suo sviluppo. Le grandi famiglie feudali avevano preso il controllo di tutto e con l’avvento delle Grandi Guerre e delle Crociate, avevano esteso il controllo su numerosi porti e isole in tutto il Mare del Sud. Si erano quindi creati nuovi ricchi: i mercanti. Lenvar disponeva di una delle più grandi flotte militari e commerciali del Continente ed era sempre in lotta contro chiunque si affacciasse sul mare e osasse ostacolarne i commerci. Le famiglie mercantili diventarono sempre più ricche e iniziarono a litigare tra loro e contro le casate nobili per il governo della città e del territorio. Lenvar era una città che profumava di sapori e mestieri, la sera; l’aria di mare, densa e salata, pervadeva i suoi stretti vicoli fatti di case alte che toglievano la luce alle strade. Val amava la sua terra e non avrebbe voluto lasciarla per nulla al mondo. La storia si dimostrò piuttosto diversa.

    Si mise di buona lena a percorrere la lunga rampa ad arcate di pietra che scavalcava le case di Via della Grande Madre e saliva verso la Collina del Tempio Rosso. Mentre camminava, Val osservava il caotico vivere della capitale della Repubblica: i pescatori gridavano spingendo logori carretti di legno esaltando il gusto dei frutti del mare ed offrendoli a quello che per loro era un ottimo prezzo. La segatura veniva spazzata fuori dalla bottega di un carpentiere mentre due garzoni trasportavano verso il porto un gigantesco remo, destinato ad una potente galea da guerra. Un corpulento caporale degli Alabardieri tentava di allacciare maldestramente la sua cintura, mentre il fodero della spada ballonzolava da tutte le parti. Il cielo era nuvoloso e c’era tanta umidità in quell’inizio d’autunno. I vicoli erano densi dell’andirivieni di mercanti, artigiani, mendicanti, prelati e soldati che li percorrevano.

    Val si fermò e si appoggiò al parapetto in pietra: osservò la Cattedrale Matriana che si ergeva in lontananza. I suoi campanili si stagliavano proprio al centro della città vecchia. Ai bordi della rampa v’erano statue fatte con diverse qualità di pietra che illustravano le gesta dei grandi uomini dell’Ecclesia, Crociati e Paladini, che avevano reso ai Santi, all’Eterno Reggente o alla Repubblica grandi servigi e compiuto leggendarie imprese.

    Io non voglio diventare un vecchio curvo che ha visto il mondo soltanto sui libri: io voglio fare la storia, non assistervi, ripensò tra sé. Come aveva detto alla madre Milesia, quando lei amorevolmente tentò di opporsi al suo voler tentare la carriera militare.

    In cima alla rampa eccolo infine: il Grande Tempio di Sant’Isior, o Tempio Rosso, l’edificio di culto più grande dopo la Cattedrale. Era quadrato, costruito con pietra dipinta di rosso ed ornata da splendidi marmi, nicchie, colonne e statue di stupenda fattura. Era sormontato da grossa cupola rotonda, come imponeva la moda architettonica sabana e due giganteschi campanili laterali color crema torreggiavano sulla struttura. Si affacciò all’interno: grandi finestroni colorati sulle pareti laterali trasmettevano sul pavimento decorato un tripudio di luci gioiose. Dietro l’altare sorgeva un grosso monolite di porfido, interamente scolpito di scene sacre e sormontato dal simbolo del Solecroce, il sole a quattro raggi che il culto di Sant’Isior aveva come simbolo. Sopra di esso, la Clessidra Spaccata, il simbolo dell’Eterno Reggente, la divinità che poteva tutto e centro della religione dell’Ecclesia Matriana. Annesso al Tempio vero e proprio, vi era il Convento, con un bellissimo chiostro e un altro piazzale interno, dove gli accoliti o i fedeli si riunivano per addestrarsi o pregare e dove i Chierici e i Crociati vivevano.

    Valen si addestrava al Tempio Rosso da qualche mese ormai. Mentre cresceva era inquieto: nonostante dovesse, come tutti gli altri ragazzi, apprendere le lezioni così come gli erano proposte (mangiare la sbobba: così lui stesso definiva il metodo di insegnamento datogli dai prelati), la sua mente diveniva sempre più critica. Alcuni dogmi gli apparivano stupidi e arcaici ed egli era sempre più avido di sapere. Era simile a suo padre in questo: si documentava da solo e ascoltava ciò che gli veniva detto anche dai prelati minori che avevano meno voce in capitolo, o dai Conversi (la fanteria laica dei Crociati). Tuttavia, Quando provava a parlare dei suoi dubbi teologici ai Chierici, essi sviavano il discorso, non gli davano spiegazioni soddisfacenti o peggio gli intimavano di non fare domande e questo lo frustrava ancora di più. E le volte che Val discuteva le sue visioni filosofiche con gli amici, essi non davano molta importanza alla cosa.

    L’unico dei maestri che andava a genio a Val era il Sergente Caviled.

    Un giorno particolarmente caldo aveva sete; perciò si era avvicinato al pozzo nel chiostro e aveva visto un Crociato in uniforme da Ufficiale che vi stava armeggiando. Era un uomo sulla trentina, di bell’aspetto: alto e slanciato, con i capelli castani e il viso rassicurante.

    «Ragazzo, aiutami, prendi un attimo la corda mentre io tiro su. Si è rotta la maniglia» rispose l’uomo.

    Val prese la corda con una sola mano: pensava vi fosse appeso un normale secchio e non un intero bacile. Non riuscì nemmeno a tenere la fune per un istante e il contenitore ricadde fragorosamente in fondo al pozzo.

    «Diamine! Non hai molta forza, vero?» gli disse l’uomo, senza alcun sarcasmo nella sua voce, preoccupazione piuttosto. «Beh, un Crociato di Sant’Isior deve essere forte di braccio, certo, ma soprattutto di mente. Questa prova non vuole dire nulla. Come ti chiami?»

    «Valen Galron.»

    «Io sono il tuo Sergente, mi chiamo Caviled. Adesso però devi aiutarmi meglio di prima: impugna con due mani la corda e tira con tutta la forza.»

    Val obbedì ed infine il bacile emerse.

    «Ogni sfida è proporzionata a ciò che sei, finché ti addestri: ma quando sarai fuori, le sfide semplicemente ti saranno poste innanzi con ben poca facoltà di scelta e sarai tu a decidere quali potrai affrontare. Per questo devi essere sempre preparato all’imprevisto. Hai capito?»

    «Sissignore!»

    «Sii gentile: porta l’acqua al confratello furiere. Mi raccomando, nei prossimi mesi fa’ tanto esercizio, come spaccare la legna o portare questi secchi pieni nel refettorio. O aiuta i Conversi con i sacchi di farina. Sembra una sciocchezza, ma se lo farai a lungo ti irrobustirai. Io l’ho fatto e non sono poi da buttare, no?»

    «Oh no, affatto!» disse Val. Trovava così simpatico quest’uomo. «Devo andare ora, Sergente: ho lezione di teologia!»

    Tutti gli accoliti parlavano di Caviled: «Il Sergente è sempre così gentile» disse Dagovir.

    «Pensavo fosse più giovane ora che lo vedo bene» disse Val.

    «Oh, non farti ingannare: io l’ho visto usare la spada, prima che tu arrivassi al Tempio» disse Dagovir. «È rapido e lascia stancare l’avversario finché non gli bastano uno o due colpi per metterlo al tappeto.»

    Dagovir, o semplicemente Dago, era diventato uno degli amici di Val. Robusto, mento squadrato e uno sguardo rassicurante, portava i capelli in un caschetto biondo paglia. A Valen piaceva il modo di fare di Dago: era gentile quando era necessario ma mai fastidioso. Spesso Val cominciava a parlare di storia, di battaglie e draghi; Dago si metteva lì ad ascoltarlo, quasi sognante e alla fine di ogni racconto diceva: «Demoni degli Inferi, Val, quante cose che sai!» E a Valen piaceva che glielo dicessero.

    «Però, tutti dicono che Caviled dovrebbe essere già cavaliere e invece è ancora Sergente» disse Val. «Mi chiedo perché non abbia deciso di far carriera.»

    «Perché non può» disse una voce boriosa. «Ha combinato qualche guaio in passato» aggiunse Marsten irrompendo con arroganza nella scena. «Non si sa esattamente cosa, ma mio padre me l’ha detto. Non c’è da fidarsi di lui.»

    «È impossibile» ribatté Val.

    «Sei un ingenuo, Valen. Lo sanno tutti che ha un passato pieno di ombre. Stagli vicino e un giorno ti troverai nel pozzo a faccia in giù!» rispose il nobile.

    Galco Marsten III era il classico prototipo del nobile viziato e tiranno di cui sono piene le favole: quello che alla fine della storia viene sempre sconfitto dal povero. Ma nella realtà, Galco faceva il bello e il cattivo tempo come voleva: non aveva potuto aspirare ad un titolo nobiliare valido, non essendo il primogenito e così aveva tentato anch’egli la carriera militare-religiosa, come Valen e Dago. La famiglia di Val era di estrazione patriziale e quella di Dago era mercantile, mentre i Marsten erano una delle casate più antiche ma non molto benvolute. Marsten era castano con il naso un po’ a patata e freddi occhi azzurri, il sorriso beffardo e una faccia letteralmente da schiaffi, da so tutto io. Non dormiva nelle celle con gli altri accoliti, ma grazie ad una donazione fatta dal padre al Tempio, aveva una stanza propria, come gli Ufficiali o i Cavalieri. A Val non importava molto l’opinione di Marsten: anzi sapere che il ragazzo non stimava il Sergente lo rendeva ancora più simpatico.

    Oltre a Dagovir, l’altro amico di Valen era Salaran Mornei, soprannominato Ran: un ragazzo muscoloso, dai capelli castani raccolti in una coda e profondi occhi scuri. Salaran aveva solo tredici anni come Val, eppure parlava già come un uomo e gli sembrava più grande. Una cosa strana dato che Val stesso si sentiva più vecchio quando stava con ragazzi della sua età. Avrebbe imparato conoscendolo che Salaran era un po’ tronfio eppure c’era sempre del vero in ciò che diceva, per quanto venato da screziature di cinismo e senso pratico. Val era in fondo un illuso idealista: per lo meno all’inizio della sua carriera.

    Quando Val l’aveva conosciuto, Ran stava litigando con Padre Adis.

    «Per l’ultima volta, Mornei: non puoi saltare le lezioni di teologia per andare nel ginnasio ad addestrarti!» gli aveva detto il chierico.

    «Quando ci manderanno a combattere, cosa racconteremo ai nemici? Di come San Matri ha trasformato in oro un ago di ferro? O sarà più utile sapere come mulinare una spada?» era stata la risposta sfrontata di Ran.

    «Blasfemo! Io ti… ti…» aveva bofonchiato Padre Adis.

    Val era divertito: Padre Adis era un buffo personaggio, austero e conservatore. Era di indole buona: diceva sempre di sì e tutti sapevano che non avrebbe mai punito neppure un’offesa del genere. Nessuno lo rispettava proprio per questo.

    «D’accordo Padre, non fatevi venire un infarto. Vado a leggere un po’ delle vostre… leggende.»

    «Chi è quel chierico?» aveva chiesto Val sorridendo mentre Adis se ne andava ostentando soddisfazione. «Forse potremmo usare i libri più pesanti per lanciarli con le catapulte!» aggiunse Val. Salaran gli sorrise: era stato proprio quel sorriso reciproco ad avvicinare i due ragazzi.

    Interi anni erano trascorsi scanditi da preghiere e campane. I ragazzi crebbero e i loro caratteri maturarono. Marsten era sempre più insopportabile.

    Era prassi dei maestri di combattimento dividere i ragazzi in gruppetti: uno era composto da Val, Ran, Dago, Marsten e altri due ragazzi, Fagril e Patri. Quest’ultimo rovinava spesso tutto nelle esercitazioni fisiche: era troppo ansioso. Salaran che era di certo il migliore del gruppo, si arrabbiava spesso e litigava con Patri. Marsten non era particolarmente dotato ma era visibilmente contento che ci fosse qualcuno peggiore di lui e non mancava di schernirlo. D’altra parte Marsten non veniva mai sgridato da nessuno dei Chierici e la cosa non stupiva: quando il padre visitava il Tempio, era accolto in pompa magna e quasi sempre elargiva un obolo consistente, ufficialmente per motivi religiosi, praticamente per comprare il silenzio sulle mancanze del figlio.

    Fu per Caviled che Val e Marsten, il cui rapporto era ormai logoro, arrivarono alle mani dopo l’ennesima battuta di Marsten sul passato del Sergente. Questa volta il nobile andò a dire che il Sergente era un sodomita, costretto a fare il combattente perché eunuco.

    I due ragazzi si picchiarono selvaggiamente lontani dagli occhi dei prelati e fu Salaran a dividerli. Disse a Val che non ne valeva la pena, che Marsten era protetto, intoccabile. Andava così in quel mondo: Ran era sempre pragmatico. Disse a Val che semmai avrebbe dovuto lavorare per acquisire potere e un giorno restituire a Marsten il suo disprezzo con gli interessi. O più probabilmente lasciare perdere.

    Quella fu la notte di uno di quegli incontri che cambiano la vita ed accadde  proprio questo ai due accoliti. Il sole era tramontato da un pezzo mentre Ran accompagnava Val a casa: i due ragazzi discussero a lungo mentre percorrevano i vicoli tra gli odori ora di cibo, ora di spezie, ora di escrementi e urina.

    «Non reggo più Marsten. Guarda: ho anche la tunica nuova strappata, adesso.»

    «Che t’importa di quella! E poi tu non hai fatto mai molto per andare d’accordo con lui» lo rimproverò Salaran.

    «Potrei dire lo stesso di te» ribatté Val.

    «Non mi curo di lui: lui ha visto in te un’opportunità di scontro e non vede l’ora di sfruttarla. Io non gli ho dato motivo di attaccarmi come fai tu.»

    «Con oggi direi che gli darò ulteriori motivi, allora.»

    «Non ci guadagneresti nulla e poi…» Mentre Ran diceva questa parole, Val urtò una persona che correva trafelata.

    «Scusi, signore» disse Val.

    «Sono mie le scuse...» rispose il tizio che era stato urtato. Era poco più basso di Val e portava una zazzera di capelli castano chiaro, tutti arruffati. Doveva essere un poeta o un bardo poiché era ben vestito di colori sgargianti ed aveva un certo portamento teatrale. I suoi occhi azzurri guizzarono in direzione del Crociato.

    «Hai fretta di romperti il collo? Ti puzza forse la vita?» commentò Ran che era decisamente meno incline al perdono di Val.

    «Non proprio» rispose frettoloso il ragazzo urtato.

    «La aiuto a raccogliere la borsa» disse Val.

    «Grazie, ma è poca cosa» disse il giovane. Fu fulmineo, si chinò e raccolse il fagotto, che tintinnò quando fu alzato.

    «Oh, non intendevamo rubarvelo, siamo Crociati» disse Val. «O meglio accoliti, veramente.»

    Dietro di loro, udirono un forte vociare.

    «Bene allora parlatemi del vostro mestiere» disse il giovane tirando Val per un braccio nella direzione opposta a quella del vocio.

    «A che pro?» disse Ran incuriosito da tanto sospetto interesse.

    «Beh» disse Val colto alla sprovvista, «non credo sia il luogo…»

    «Oh sì, interessante» disse il giovane facendosi sempre frettoloso. Non aveva ascoltato mezza sillaba e continuava a tirare Val.

    «Ehm, come vi chiamate, Signore? Io sono Galron, Valen Galron ma potete chiamarmi Val» rispose l’adepto tirando via il braccio dalla presa del giovane.

    «Corvin» rispose il giovane. «Corvin... Siblei» disse dopo una certa esitazione.

    «Siblei? Dunque siete...» disse Ran.

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