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Il giallo di Palazzo Corsetti
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E-book237 pagine2 ore

Il giallo di Palazzo Corsetti

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Un'indagine del commissario Adalgisa Calligaris

Dalla geniale autrice del bestseller Uno strano caso per il commissario Calligaris

La cittadina umbra di Rivorosso è da qualche settimana in grande fermento: Canale 16, neonata rete televisiva, ha scelto il castello della contessa Corsetti Billi come location per un reality show musicale, Sing Sing.
I sei concorrenti scelti dalla produzione dovranno cantare, vivere e raccontare al pubblico di sé rimanendo dentro il castello, senza poter mai uscire. Tutto procede a meraviglia fino alla serata finale, che decreterà il vincitore in diretta nazionale. Mezza Italia, con l’intera Rivorosso in prima fila, è davanti alla TV, in attesa del verdetto, quando un terribile incidente trasforma in tragedia il clima festoso della proclamazione e dà inizio a una serie di omicidi misteriosi. Tutti gli ex concorrenti sono spaventati e in pericolo. Chi vuole la loro morte? Il commissario Calligaris, affiancato dal fedele ispettore Matteo Corvo, e da qualche cittadino di Rivorosso improvvisatosi detective, si troverà a indagare nel mondo patinato dello show business e nelle vite private degli artisti. Che sono luminose solo all’apparenza…

Un giallo intricato, ambientato in un antico castello, in perfetto stile Agatha Christie

Hanno scritto dei suoi romanzi:

«Una poliziotta dura e intelligente e una narrazione ironica.»
La Lettura

«Un giallo degno dei romanzi di Agatha Christie.»
Gli Amanti Dei Libri

«Un’avventura noir che dipinge la realtà fra immagini ed emozioni.»
La Settimana
Alessandra Carnevali
È nata a Orvieto ed è laureata in Lingue. Ha partecipato, in veste di autrice, al Festival di Sanremo 2002 con il brano All’infinito eseguito da Andrea Febo. Nel 2007 è stata la prima blogger accreditata al Festival di Sanremo. Ha curato il blog Festival, sulla musica italiana e Sanremo, per il network Blogosfere. Si occupa di promozione web per eventi e artisti emergenti. La Newton Compton ha pubblicato Uno strano caso per il commissario Calligaris, libro vincitore del Premio ilmioesordio nel 2016, Il giallo di Villa Ravelli e Il giallo di Palazzo Corsetti.
LinguaItaliano
Data di uscita15 mag 2018
ISBN9788822719171
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    Anteprima del libro

    Il giallo di Palazzo Corsetti - Alessandra Carnevali

    Capitolo 1

    Adalgisa si era alzata dal letto con il piede sbagliato. Il ritorno del sogno ricorrente l’aveva colta di sorpresa e messa di cattivo umore. L’incubo dell’involtino primavera lo chiamava lei, anche se non ne aveva mai fatto parola con nessuno.

    Aprì la finestra per far entrare l’aria fresca del mattino. Oltre i tetti delle palazzine di fronte, già accarezzati dal sole, la cappa plumbea e umida del giorno prima aveva lasciato il posto a un azzurro limpido e sgombro da nuvole.

    Un fine settembre dolce, dal clima mite, con rari sbalzi d’umore. Bello e monotono, come la vita al commissariato di Rivorosso in quell’inizio d’autunno, trascorso a rimettere a posto documenti, sistemare vecchi infissi e pareti screpolate e macchiate dall’umidità, a spolverare anfratti che nessuno lì dentro ricordava fossero stati mai raggiunti da mani umane con velleità di pulizia.

    Non accadeva spesso, ma nelle giornate più tranquille, quando non capitava nulla di particolarmente rilevante, il commissario Calligaris si improvvisava capomastro e faceva eseguire alla sua fedele combriccola di poliziotti manutenzioni di ogni tipo.

    Adalgisa pregò in cuor suo che non fosse una giornata di quelle. Le serviva qualcosa che la tenesse impegnata per non ritrovarsi a covare fino a sera il malumore che quell’incubo notturno le aveva provocato.

    Si vestì controvoglia, senza nemmeno badare all’accostamento dei colori e guardandosi di sfuggita nello specchio dell’armadio, temette di essere stata contagiata dalla sindrome di Celestino.

    Ma per quel giorno se ne fregò e la camicia blu avio restò sulla gonna marrone e sotto la giacca di cotone grigio, nonostante lo sguardo interrogativo della madre che, vedendosela passare davanti, le chiese: «Sei diventata daltonica?»

    «Zitta, ma… nun te ce mette anche te, eh?», reagì Adalgisa afferrando senza grazia la tazzina di caffè che la madre le porgeva.

    Bevve e fece una smorfia: «Scotta ed è pure amaro! Dimmelo, no?»

    «Decidi Adalgi’, o devo stà zitta o devo parlà. Se sto zitta nun te posso dì de aspettà che scotta e che ce devi mette lo zucchero!», rispose la madre, trattenendo a stento una risata che in momenti come quelli avrebbe potuto provocare una furiosa reazione della figlia.

    Sul tavolo della cucina di casa Calligaris il cellulare di Adalgisa squillò e sul display apparve l’identità del chiamante. Fontanella.

    Il commissario lo afferrò, prima che la madre sbirciasse con la coda dell’occhio e andò a chiudersi in camera prima di rispondere, salvaguardando pace e privacy.

    «Buongiorno Gualtiero!», sussurrò Adalgisa, per non farsi sentire al di là della porta.

    «Ciao Ada, come stai? Dormito bene?», domandò premuroso Fontanella a quella che da qualche mese, anche se in via non ufficiale, il magistrato amava considerare la sua nuova fidanzata.

    «Ma che bene e bene!», rispose brusca Adalgisa, ripensando ai brutti sogni della notte precedente.

    «Oh, oh…mi sa che oggi abbiamo una giornataccia», dedusse Gualtiero che ancora non si era abituato del tutto agli sbalzi d’umore della sua fiamma. «Che faccio, ti richiamo più tardi?»

    «No, scusami, ma ho dormito poco e male. Forse è stata la carbonara che abbiamo mangiato ieri sera…», si scusò la Calligaris, dando la colpa alla passione per la buona cucina che condivideva con il magistrato Fontanella.

    «Mi spiace, la sera dovremmo stare più leggeri, ma lo sai, alla carbonara di Michelino non si resiste», commentò Gualtiero e aggiunse: «Per restare in tema di cibo, oggi a pranzo che fai? Ti passo a prendere?»

    «Meglio di no, abbiamo una riunione generale per la sicurezza», rispose Adalgisa con tono scocciato e poi elencò a cantilena: «Polizia, Carabinieri, Vigili del fuoco, Polstrada, Municipale…».

    «Ah, è vero! C’è quella benedetta finale…», esclamò Fontanella, all’altro capo del telefono.

    «Noi siamo tutti allertati e quindi la guardiamo in commissariato», lo informò Adalgisa. «Castoro ha montato una specie di maxischermo nell’ufficio di Fava e Ritagli. Ognuno porta qualcosa da mangiare e aspettiamo fino alla proclamazione del vincitore. Sai che divertimento! Che fai, ti unisci a noi?»

    «Perché no! Porto da bere?», chiese Fontanella, ridendo.

    «Aranciata e Coca-Cola, siamo in servizio!», puntualizzò il commissario e tagliò corto: «Ora devo andare, a stasera. Ciao!»

    «Alle venti e trenta in commissariato, puntuale come la morte! Ciao, Ada!», si congedò il magistrato con tono allegro.

    Adalgisa uscì dalla sua stanza e tornò in cucina dalla madre per salutarla prima di uscire.

    Rosaria la fissò curiosa e le chiese: « Chi era? Paul Newman?», riferendosi al fatto che secondo lei, Gualtierio Fontanella possedesse gli occhi più inutilmente azzurri della storia, in quanto assolutamente insufficienti a migliorarne l’aspetto estetico generale.

    «Mamma, la fai finita co’ ’sta storia?», reagì il commissario che detestava in ogni caso le battute di spirito di Rosaria, ma in particolare quelle che prendevano di mira il magistrato Gualtiero Fontanella.

    Quando stava già sulla porta, Adalgisa chiese alla madre: «Con chi la guardi tu la finale, stasera?»

    «Ho invitato due vicine di casa, la signora Parrini e la Ida, quella che c’ha ’l fijo carabiniere. Fo ’n tantino de insalata de riso e semo a posto», disse Rosaria, aggiungendo con fervore da fan: «E daje giù a votà pe’ Marco!».

    «Marco quale sarebbe?», chiese Adalgisa che aveva seguito il talent-show solo saltuariamente e non conosceva bene i concorrenti.

    «Marco Muner!», esclamò con entusiasmo da groupie l’anziana signora, che si era innamorata della voce sensuale del giovane cantautore.

    «Sì, mezzo gaudio!», replicò Adalgisa, chiudendosi la porta di casa alle spalle.

    Rosaria capì la battuta un attimo dopo e si ritrovò a ridere da sola in mezzo alla cucina.

    Capitolo 2

    Celestino Rossi quella mattina era intento ad asciugare le sedie e i tavoli del suo bar dall’umidità della notte, in attesa dei clienti per la colazione. Il suo abbigliamento da fine estate non tradiva le sue bizzarre abitudini cromatiche. Una camicia di cotone a quadrettoni gialli e blu elettrico, con le maniche corte, su jeans verde bottiglia con impunture rosse e ai piedi espadrillas a righe bianche e nere comprate a Palma de Maiorca l’anno prima.

    In sottofondo Gianna Nannini cantava la hit indiscussa dell’anno che, guarda caso era anche la canzone preferita di Celestino. Quelle note procuravano all’uomo uno strano stato di ebbrezza, un irrefrenabile desiderio di lasciarsi andare. Il padrone del bar infatti, qualunque cosa stesse facendo in quel momento, quando sentiva partire il ritornello, si bloccava, allargava le braccia, chiudeva gli occhi e si metteva a urlare sguaiato il popolare incipit "Sei nell’animaaaaaaaaaaa", senza purtroppo azzeccarne una sola nota.

    Poi si ricomponeva e, come se nulla fosse, tornava alle sue faccende. I clienti abituali ormai lo sapevano e non davano peso alla cosa, ma più di un avventore forestiero aveva rinunciato a prendere un caffè in quel posto, dopo aver assistito a una di quelle inquietanti performance.

    Anche quel giorno, all’approssimarsi del refrain, Celestino non aveva resistito e, gettando via con gesto teatrale lo straccio, aveva assunto quella che ormai lui e tutti gli altri conoscevano come la posizione del Celestini.

    La posizione del Celestini aveva da qualche mese sostituito quella più plastica e dinoccolata del Celestano, che il Rossi aveva assunto fino a qualche anno prima, quando imperversava Io non so parlar d’amore, grande successo del molleggiato nazionale.

    «Ah, Celesti’, ma niente niente t’hanno chiamato pure a te pe’ la finale de’ Sing Sing stasera su al castello?», fece una voce femminile che proveniva dal centro della piazzetta del bar.

    «Magari Tama’, magari…», rispose il barista ricono-scendo dal tono giulivo Tamara, la figlia diciannovenne di Ernesto Picchio, suo amico d’infanzia e gestore dell’omonimo storico albergo a conduzione familiare che sorgeva lì vicino. E subito le chiese: «Ma te che stae sempre appresso a ’ste cose, chi dici che vincerà? A me me piaciono ’n paio, ma sicuramente quelli nun vincono… hae capito quali? Quello napoletano, Frezza, e la biondina milanese, Brenda».

    Tamara Picchio, capelli corti biondo platino, un metro e cinquanta di adipe ben distribuito e una quarta di reggiseno generosamente esposta sia d’estate che d’inverno, avanzò verso Celestino sui suoi zatteroni neri con allacciatura alla schiava, che mettevano in evidenza caviglie forti, polpacci importanti e ginocchia appena appena distinguibili dalle cosce. Ciò non le impediva di indossare imperturbabile, già di prima mattina, un capo firmato da uno stilista famoso, un tubino fucsia di seta e lycra, corto, smanicato e attillato sui fianchi robusti. Una scollatura bordata di strass rosa pallido impreziosiva il décolleté. Una borsetta imitazione Chanel del colore dell’abito completava la mise della ragazza che ormai in paese tutti avevano soprannominato Paris Picchio per via di quei look temerari che, insieme alla discendenza da una famiglia di albergatori, la accomunavano alla più famosa ereditiera d’oltreoceano.

    «Uppercarità, coso, quel tamarro… Tano Frezza, lo odio. La biondina pure pure, ma per me nun c’hanno chance nessuno dei due», disse Tamara e, facendo cenno a Celestino di seguirla dentro il bar, aggiunse: «Celesti’, famme ’n caffè che te lo dico io chi vince».

    Il barista si mise dietro al bancone e armeggiò con la macchina dell’espresso, mentre la ragazza con fare da saputella spiattellava tutti i retroscena che, da appassionata di gossip e jet set, conosceva su quell’evento che, da qualche settimana, aveva infranto la calma piatta di Rivorosso Umbro e aveva animato le conversazioni degli abitanti del posto.

    Dopo aver espresso la sua previsione da esperta che dava per vincitore il rapper per via del diffondersi anche in Italia di quel genere musicale, Paris Picchio guardò il quadrante tempestato di zirconi del suo orologio rosa e sobbalzò: «Cavolo, so’ le otto! Faccio tardi dall’estetista!». Si guardò le unghie color verde menta sbiadito e sventolandole sotto il naso di Celestino, esclamò: «Te pare che posso guardà la finale co’ ’sto smalto scoppolato?»

    «No, no, Paris, e che scherzamo?», le rispose ironico il barista, che in vita sua non aveva mai capito perché alle donne piacesse pitturarsi le unghie.

    Tamara, che faceva sempre finta di arrabbiarsi quando la chiamavano come la Hilton, lo guardò storto poi uscì dal bar senza pagare, intimando a Celestino: «Segna!».

    Il barista la salutò agitando in aria una mano e le gridò dietro: «Tranquilla, oggi offro io, in cambio del servizio informazioni!», e aggiunse, sempre ad alta voce: «Che fai, la vieni a vede’ qui la finale? C’avemo il gruppo d’ascolto e il maxischermo».

    «No, nun posso. Lo sae che me tocca vedella all’albergo col mi babbo e quella foca monaca de la mi sorella», rispose Tamara, urlando dalla piazza. «Però vengo qua domattina pe’ colazione a commentà la vittoria!».

    Celestino annuì e salutò di nuovo la ragazza. E sorrise pensando a quella che Paris aveva appena definito foca monaca. Vanessa, la maggiore delle figlie di Ernesto Picchio. Vanessa somigliava a Tamara solo per la stazza, per il resto erano diverse come il giorno e la notte, anzi come il diavolo e l’acqua santa. Se la sorella più giovane era un tripudio del kitsch mischiato con il glamour e condito col gossip, la più grande rappresentava il ramo baciapile e timorato di Dio della famiglia Picchio. Tutta casa, chiesa e sagrestia, Vanessa era la devota perpetua di don Palmiro Pulpito, per il quale da cinque anni cucinava, lavava, stirava e teneva in ordine la canonica. Un precoce quanto platonico fidanzamento con un compagno di ginnasio, finito con le corna da parte di lui con la migliore amica di lei, l’aveva persuasa che non valeva proprio la pena soffrire per amore. Mille volte meglio dedicare la vita e i pensieri al Signore, mantenendosi casta e rendendosi utile a chi, come lei, non chiedeva di meglio che servire Dio su questa terra. Avrebbe volentieri cambiato anche nome di battesimo, se non fosse stato un dispiacere per suo padre. Quel Vanessa era davvero troppo appariscente e sfrontato per una che non chiedeva di meglio che restare nell’ombra a pregare per le anime dei peccatori.

    Ecco perché Tamara la chiamava foca monaca. Celestino pensava che nessun soprannome le sarebbe potuto calzare meglio.

    Capitolo 3

    Sing Sing era stato l’avvenimento mondano dell’anno, anzi del secolo, per la tranquilla Rivorosso. Tutti avrebbero ricordato quel periodo per molto tempo. Tamara Paris Picchio più di ogni altro.

    Quando molti mesi prima in paese si era cominciato a parlare del programma televisivo, era stata proprio lei la prima a sapere che si sarebbe trattato di un reality canoro. Così aveva iniziato a spargere la notizia a destra e a manca, impegnandosi a spiegare l’argomento a tutto il popolo del comune di Rivorosso, con dovizia di dettagli sul cast e sul meccanismo della gara. «Dunque, ’sto programma lo fanno al castello de la contessa Corsetti Billi e ce parteciperanno sei cantanti. Se intitola Sing Sing, che starebbe pe’ canta canta, ma siccome è pure il nome de una prigione americana, vor dì che questi stanno chiusi come in galera però devono cantà e raccontà tutti li cacchi loro».

    Paris Picchio era una sorta di ufficio stampa non autorizzato del programma e parlava con competenze che solo anni di letture amene come «Novella 2000» e «Stop» potevano garantire. Se a scuola ci fossero state materie come tv, cinema, pettegolezzo e star system, la ragazza non avrebbe sicuramente ripetuto per due volte l’ultimo anno dell’Artistico.

    «Il nome dei partecipanti è ancora top secret, ma si sa che lo presenta Marika Gautier, la regina del gossip, quella che l’anno scorso stava co’ quel calciatore brasiliano famoso che mo’ nun me ricordo come se chiama… Rovinho, Robinho, boh! Erono sempre su le copertine delle riviste! Il regista poi è uno famoso… se chiama Armandini, ha fatto tante trasmissioni musicali su Italia Uno e su Mtv. Poi ce dovrebbero stà ospiti che cambiano ogni puntata che giudicheranno le prove dei concorrenti, ’na roba così! Ma non li eliminano, vanno avanti tutti fino all’ultimo e il vincitore lo decide la gente da casa col televoto», spiegava Tamara con foga al malcapitato di turno. E il malcapitato poteva essere chiunque, dal farmacista al fruttivendolo, dall’estetista alla vecchietta in fila alla posta, l’importante era che avesse due orecchie per ascoltare e un collo con sopra appoggiata una testa per annuire.

    Molti la stavano a sentire distrattamente, giusto per cortesia, ma ce n’erano altrettanti veramente interessati a saperne di più su quella rivoluzione mediatica che stava per investire il placido paese umbro. Uno di questi era stato proprio Celestino, che ogni giorno si lasciava aggiornare sugli accadimenti, ascoltandola con un orecchio solo mentre con l’altro cercava di star dietro alle richieste degli avventori del bar. Paris gli parlava senza quasi riprendere fiato: «La produzione è italiana, ma il format è spagnolo. Lo trasmettono su Canale 16, una rete nuova di un imprenditore napoletano che vuole lanciare la sua tv con questo reality. Una puntata ’na sera a settimana e di giorno tanti collegamenti in diretta pe’ vedé che stanno a fà, tipo ’l Grande Fratello, si ce l’hae presente».

    Sing Sing rappresentava un evento straordinario per Rivorosso e c’era stato anche qualcuno che aveva sperato di trarne benefici economici che in alcuni casi non erano arrivati. L’esempio più eclatante era Gervasio Mecchi, l’allevatore di bovini che ancora girava furibondo per il paese, raccontando a tutti la sua disgrazia. «Prima m’evono detto che ’sta cosa se faceva da me al casale do’ c’ho le mucche. So venuti a vedello cento vorte, je pijassse ’n bene, onno fatto li porci comodi e poe a la fine che me dicono? Che onno cambiato idea e onno preso il castello della contessa Corsetti Billi, su dopo ’l bivio pe’ Passonero. Dice che quella, siccome c’ha bisogno de soldi, ha messo de mezzo pure ’l sindaco e mezza giunta pe’ fasse raccomandà».

    La gente, a forza di sentirlo ripetere la stessa cantilena all’infinito, un po’ lo compativa e un po’ lo sfotteva. «Poro Mecchi! E pensà che prima nun voleva, nun voleva e poe quanno finalmente s’era abituato all’idea e

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