Belli e maledetti
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Anteprima del libro
Belli e maledetti - Simone Panizza
© Edizioni SENSOINVERSO
Collana AcquaFragile
www.edizionisensoinverso.it
ufficiostampa@edizionisensoinverso.it
Via Vulcano, 31 – 48124 – Ravenna (RA)
ISBN 9788867930708
1° edizione – Febbraio 2014
© 2014 - Copyright | Tutti i diritti riservati
Sensoinverso - P.I. 02360700393
Creazione e impaginazione eBook | http://creoebook.blogspot.com
Simone Panizza
BELLI E MALEDETTI
Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono fittizi o usati in modo fittizio. Tutti gli episodi, le vicende, i dialoghi di questo libro, sono partoriti dall’immaginazione dell’autore e non vanno riferiti a situazioni reali se non per pura coincidenza.
Dedico questo mio terzo libro ad Elisa
perché ha cambiato in meglio la mia vita.
Un ringraziamento davvero speciale va a Fiamma che ha letto praticamente tutto quello che ho scritto ed è da sempre il mio primo lettore
e a tutte le persone che mi hanno incoraggiato a scrivere e a farmi leggere e a tutti quelli che hanno creduto in me concedendomi spazi, intervistandomi e recensendo i miei libri.
Ringrazio inoltre le mie amiche: Jessica, la bolognese, Roberta e Masha; i miei amici fraterni: Alberto, Ventulin e Matteo. I miei compagni di mangiate, bevute e viaggi, soprattutto: Pablo, Sergio, Sandro, Ferra, Cole, Gallo e Marco. Impossibile non citare anche gli amici genovesi e soprattutto di La Thuile.
Nomi e ruoli dei personaggi
Stephanie Cindy Colombina, detta Michelle - Cantante
John Leone, detto Johnny - Attore
Mike Tyler - Manager attore
Lenny Stanley - Produttore musicale
Ja YaQuin, detta Lucy - Ufficio stampa cantante
Eric Denver - Manager cantante
Jean Luis Ricard - Amico stilista
Timmy Blur - Regista
Fox - Giornalista in Svizzera
Luigi Rezzonico - Capo polizia svizzera
Mary J - Conduttrice programma
Bart Cage - Attore conosciuto a una festa
Prima parte
Celebrità
Capitolo primo
La cucina bianca
Il bianco, colore dominante della cucina, regalava un senso incredibile di pulito, candore e quasi purezza. Le piastrelle in cotto, color Terra di Siena, facevano contrasto.
Il grosso tavolo in noce con copertura di marmo bianco occupava quasi per intero l’ambiente, dando quindi la sensazione, a chi entrava nella stanza, di essere possente. La tavola era coperta da tazze di caffè e tè, che erano state mezz’ora prima fumanti.
L’aria era intrisa dell’intenso odore del sigaro fumato dal mio manager, il quarantacinquenne dagli intensi occhi azzurri, che dall’inizio della mia carriera mi aiutava a fare nel migliore dei modi il mio mestiere.
Eric Denver, originario del West Virginia per parte di entrambi i genitori, aveva vissuto tutta la sua vita però a New York, in uno splendido grattacielo a Manhattan, tranne il periodo universitario, durante il quale aveva studiato legge a Harvard.
I suoi genitori, costruttore edile il padre e architetto d’interni la madre, persone estremamente facoltose, gli avevano sempre assicurato un tenore di vita piuttosto elevato. Il che si era tramutato nel periodo adolescenziale nell’essere la persona più popolare della scuola, con il potere economico sufficiente a organizzare sempre feste molto gettonate. Ciò, unitamente a una simpatia spontanea, lo aveva aiutato nella vita, non per ultimo nella sua attuale professione.
Nonostante le proprietà e il patrimonio di famiglia gli avrebbero potuto evitare le fatiche lavorative, si era sempre tenuto impegnato. Prima gli studi, brillantemente conclusi nel termine previsto, poi il praticantato legale nello studio di un famoso avvocato penalista e infine l’incontro fortuito con un produttore musicale, ora scomparso, che lo aveva messo sulla strada, spesso lastricata di gloria, del mondo musicale.
Lenny Stanley, sessantenne, con folte basette e capelli canuti perennemente laccati, un Rolex d’oro sempre al polso, era dal mio secondo disco il mio produttore musicale. Il suo prezioso lavoro mi aveva portato da un promettente primo disco a campione mondiale di vendite.
Grazie a lui, che era riuscito a valorizzare al meglio il dono che mi ero ritrovata, ero al momento considerata la popstar di maggior successo sul globo terracqueo. Solo per fare qualche numero: quaranta milioni di dischi venduti di cui undici milioni e mezzo in album e il resto in singoli.
Ja YaQuin¹, la bellissima ventiseienne cinoamericana che si era ribattezzata Lucy, curava il mio ufficio stampa. Ruolo fondamentale nella vita di una popstar. Era certamente importante il lato tecnico, avere cioè un buon produttore e talenti intorno a sé, ma la comunicazione era basilare.
Era originaria di Shenzhen² e si era laureata in economia all’università Fudan di Shanghai, per poi frequentare un master in pubbliche relazioni a Oslo. Era tanto professionale da essere sempre concentrata sul lavoro, non amava scherzare e non l’avevo mai vista unirsi ai momenti di relax che tutti ci concedevamo.
Era l’unica donna del mio entourage, a parte qualche truccatrice, paradossalmente però non eravamo mai diventate amiche. Prendeva tutto troppo sul serio e questo rendeva ostico avere un rapporto affettivo con lei. Dal punto di vista lavorativo era la migliore, quindi ero contenta così, in ogni caso avevo già le mie amicizie al di fuori del lavoro.
Avevamo scelto la cucina della mia casa a New York, una delle molte dimore che il mio stato da ricca giovane donna mi aveva permesso di comprare, semplicemente per comodità logistica. Era il luogo più vicino per tutti.
Scopo del ritrovo era discutere della produzione e del lancio del nuovo disco, il terzo per la precisione, che avrebbe dovuto essere quello della conferma. Il primo mi aveva permesso di affacciarmi al mondo, difficile e articolato, della musica professionistica, il secondo mi aveva dato il successo, il terzo era basilare per capire se ero una stella, di successo ma di passaggio, o se ero entrata nell’olimpo per restarvi.
Sinceramente non ero oppressa da quella paura da debuttante che aveva caratterizzato le precedenti esperienze di preparazione di un nuovo album. La mia casa discografica, le radio, le televisioni, il web, tutto quello che orbitava intorno al mondo della canzone avevano tutto l’interesse per mantenermi al vertice, ero una gallina dalle uova d’oro, lo sapevo bene, avrei trovato l’aiuto necessario per mantenere il successo.
Le persone che più strettamente lavoravano con me erano tutte sotto lo stesso tetto in quel momento per trovare la via. In studio, insieme ai miei musicisti, avevo già lavorato su parecchie canzoni, l’album dal punto di vista tecnico era già a buon punto. Bisognava trovare solo un collante che mettesse insieme le canzoni, il titolo, la strategia di vendita, il numero di concerti da fare per promuoverlo e quelli per guadagnarci, il periodo dell’anno in cui fargli vedere la luce.
Erano presenti anche due uomini, che dal punto di vista lavorativo non c’entravano nulla ma erano due figure importanti per me. John Leone, l’attore più bello e più bravo del mondo, nonché mio marito, e Jean Luis Ricard, di professione stilista e intimo amico di entrambi.
Johnny, così lo chiamavano tutti compresa me, aveva trentotto anni. Era all’apice della carriera, era stato nominato tre volte, senza mai vincere però, all’Oscar. Era l’attore più richiesto dai grandi registi.
La sua bellezza lo rendeva il sex symbol per eccellenza, mi ritenevo molto fortunata ogni mattina, vedendolo al mio fianco nel letto. Il cognome tradiva le sue origini italiane, cosa che ci accomunava. I suoi genitori si erano trasferiti, inseguendo il sogno americano, nel New Jersey, venendo da Cefalù, in Sicilia. I miei nonni, invece, erano di Assisi, una città del centro Italia resa famosa da San Francesco, un ricco che si era fatto frate, abbandonando un’esistenza agiata per una vita di stenti dedicata ai poveri e alla predicazione della pace, nel Medioevo tormentato dai conflitti.
Eravamo sposati da un anno e mezzo. Ci eravamo conosciuti a una festa, io da poco vendevo molte copie e cominciavo a diventare famosa, lui lo era da molto. Con sorpresa avevo scoperto che l’attore troppo bello per essere vero era imbranato con le donne. Era stato come realizzare che il principe azzurro della favole è gay.
Per tutta la serata mi aveva cercato con lo sguardo, visibilmente attratto ma incapace di fare il primo passo, io, rispettando il mio essere femmina mi ero fatta desiderare, senza avvicinarmi a lui. Con mia grande felicità, nel momento in cui mi accingevo platealmente a lasciare la festa, era venuto da me, da allora non ci eravamo mai separati.
Persino durante le faticose sessioni di lavoro di entrambi, quando io ero in tour o chiusa in studio di registrazione e lui girava film in giro per il mondo, riuscivamo a darci appuntamento e vederci almeno una volta la settimana.
Jean Luis Ricard, stilista di punta dell’alta moda, francese e residente nel Principato di Monaco, aveva cinquant’anni. La festa in cui avevo conosciuto Johnny l’aveva organizzata lui. Già prima del matrimonio era amico di entrambi. In seguito, oltre ad aver testimoniato alle nozze, aveva cominciato con me un’assidua collaborazione, mi creava continuamente abiti, che finivano nelle sue collezioni e che poi andavano a ruba tra le giovani donne che se li potevano permettere.
Ora, com’è giusto, parlo un po’ di me.
Mi chiamo Stephanie Cindy Colombina, ma sono conosciuta da tutti con il mio nome d’arte, Michelle. Citazione della bellissima canzone dei Beatles, il gruppo che più di tutti amavo e di cui ascoltavo continuamente le canzoni.
Ho ventiquattro anni, ebbene sì, sono giovanissima. Come tante ragazze avevo sognato per tutta l’adolescenza il successo e della persona con cui al momento condivido il letto matrimoniale conoscevo solo i film.
Dopo aver finito le superiori ero partita, abbandonando le sterminate praterie del Texas, verso New York, la Grande Mela, con il sogno di sfondare. Appena diciannovenne, con tante idee per la testa ma poca esperienza, nella metropoli i primi momenti erano stati di pura difficoltà.
Cercavo di mantenermi come cameriera senza riuscire a lavorare molto, erano più i piatti rotti e le lamentele per la lentezza del servizio da parte dei clienti che le mance. Per giunta nessun locale aveva intenzione di farmi esibire.
Le mie esperienze come cantante nel coro della chiesa di quartiere e i concerti sulla platea della scuola non parevano interessare nessuno. Non venivo presa sul serio, per tutti ero solamente una delle tantissime ragazzine che non aveva seguito gli studi per campare di illusioni.
I soldi cominciarono a scarseggiare finché Jessica, la mia coinquilina, non mi aveva proposto di prendere il suo posto nel locale di spogliarello dove lavorava. Aveva preso la decisione il cui pensiero mi cullava giornalmente: abbandonare la città e tornare mestamente nel luogo d’origine, senza più sogni assurdi da realizzare.
Avevo fatto l’unica cosa che restava a una ragazza di diciannove anni senza lavoro e senza prospettive: avevo accettato. Il lavoro in sé non era neanche male. Mi pagavano a sufficienza per mangiare tutti i giorni e mantenere da sola il minuscolo appartamento impolverato dove vivevo.
Ogni sera verso le 22 arrivavo sul palco e improvvisavo un numero di spogliarello mai completo. Dopo qualche ora replicavo con una diversa modalità, facevo finta di masturbarmi dinanzi al pubblico, sdraiata su un letto al centro del palcoscenico.
Dopo qualche mese mi iscrissi a un’ottima scuola di recitazione, inutile dire che costava molto e non mi vergogno a rivelare che per permetterla avevo un modo, moralmente discutibile, per arrotondare. Si presentavano sempre nei pressi dei camerini dei clienti piuttosto arrapati che offrivano denaro per passare una mezz’ora di felicità, alcuni addirittura pretendevano esclusivamente uno spogliarello privato.
I proprietari del locale non incoraggiavano la mia prostituzione ma neanche la ostacolavano, ben sapendo che molti astanti frequentavano il locale solamente per comprare il mio tempo libero. Valeva anche per le mie colleghe naturalmente.
Certe volte il colpo di fortuna arriva, il mio mi raggiunse una fredda serata di Novembre. Un uomo aveva litigato con la moglie e per rilassarsi aveva partecipato allo spettacolo nel locale in cui lavoravo.
Mi aveva visto e gli ero piaciuta, non nel senso fisico, cioè quello sì ma lui era un marito fedele, l’avevo colpito soprattutto dal punto di vista della presenza scenica. Ricordo bene che quando lo vidi fuori dal camerino avevo già messo in conto di concedergli una sveltina in cambio della solita banconota arrotolata.
La proposta che mi fece mi sorprese molto e non mi restò che accettare. L’uomo non era uno qualunque ma lavorava per un’importante casa di produzione pubblicitaria, conosceva molte persone e quando mi fece il nome dell’individuo che teneva la festa a cui voleva andare in mia compagnia, capii che era la mia grande occasione.
Jean Luis Ricard aveva organizzato un ricevimento nel suo lussuoso appartamento con vista su Central Park. In quel momento della mia vita era solamente un nome famoso che conoscevo, non avrei mai immaginato che sarebbe diventato il mio testimone di nozze, nonché stilista personale.
A quella prima festa a cui partecipai conobbi un famoso parrucchiere di dive che si innamorò di me, per lui ero una novità, una che non si era mai vista e che si comportava diversamente dalle donne a cui era abituato.
Non mi costava grande fatica instaurare una relazione sessuale con lui a titolo gratuito. Averlo fatto molte volte per denaro mi aveva recato in dono una certa apertura mentale. Stare con lui mi permise una vita difficile da raggiungere altrimenti.
Ero invitata a tutte le feste, conobbi tutte le persone che contavano, quelle davanti ai riflettori e quelle dietro le quinte. Andavo a cena con le star del cinema e i giornalisti televisivi famosi. Mi veniva offerto tutto. Presto mi trasferii nel suo appartamento, e cambiai per sempre vita.
Presi l’abitudine di portare con me alle feste microfono, macchina del fumo e qualche base musicale elettronica, di quelle che mi divertivo a creare per poi cantare sopra le parole che scrivevo.
Diventai l’attrazione, ogni persona di quel mondo e di quel movimento sapeva che la mia partecipazione avrebbe incluso un’esibizione.
Una sera trovai tra il