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Storia della criminologia e dei metodi investigativi: Dall'impronta digitale alle moderne analisi genetiche
Storia della criminologia e dei metodi investigativi: Dall'impronta digitale alle moderne analisi genetiche
Storia della criminologia e dei metodi investigativi: Dall'impronta digitale alle moderne analisi genetiche
E-book313 pagine4 ore

Storia della criminologia e dei metodi investigativi: Dall'impronta digitale alle moderne analisi genetiche

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Info su questo ebook

Di fronte a un delitto o fatto criminoso compiuto in società l’uomo è spinto alla ricerca di indizi, tracce e prove per risalire a un colpevole certo. La questione è ben più complessa di come sembra apparire, anche se la dinamica, nella storia, è sempre rimasta quella di rispondere, al di là di ogni ragionevole dubbio, a delle semplici domande: chi? Come? Perché? Da queste stesse domande inizia l’itinerario conoscitivo proposto nelle pagine di questo libro, al fine di rendere conto delle fasi che hanno caratterizzato l’evoluzione della moderna criminologia, la cui missione non è quella di scoprire il colpevole, come spesso accade nei romanzi e al cinema, ma di risalire alle cause che sono alla base del comportamento criminale. Lo sviluppo della criminologia poggia su una mole di studi, tesi e applicazioni molto elaborata, che in questo saggio si è cercato di proporre unendo la ricerca della conoscenza all’imprescindibile piacere della lettura.
LinguaItaliano
EditoreDiarkos
Data di uscita19 lug 2022
ISBN9788836162178
Storia della criminologia e dei metodi investigativi: Dall'impronta digitale alle moderne analisi genetiche

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    Anteprima del libro

    Storia della criminologia e dei metodi investigativi - Massimo Centini

    Copertina.jpg

    MASSIMO CENTINI

    Storia della criminologia e dei metodi investigativi

    Dall’impronta digitale alle moderne analisi genetiche

    Homo homini lupus.

    Prefazione di Fabrizio Russo

    Docente di Psicologia investigativa e criminal profiling all’Università Ciels di Padova e di Criminologia alla Scuola di specializzazione in Psicoterapia Slop di Pavia. Già giudice onorario esperto criminologo presso il Tribunale per i minorenni di Torino.

    Sono onorato di poter presentare questa Storia della criminologia di Massimo Centini, antropologo culturale, con il quale insegno a Torino. Lavoro come criminologo da molti anni ormai, tra carcere e tribunale, colloqui con i detenuti e formazione alle forze dell’ordine e ai magistrati, a volte riesco a leggere un buon libro come questo.

    L’antropologia culturale, che ha per oggetto specifico gli aspetti culturali e sociali della storia della specie umana, è materia praticata dall’autore da anni, sia per quanto riguarda la ricerca che l’insegnamento.

    Centini, in quest’opera, spazia dal vecchio testamento alla moderna neurocriminologia di Adrian Reine (2016), scegliendo di focalizzarsi su come la specie umana da prosociale sia diventata asociale e successivamente antisociale, arrivando a cacciare i suoi conspecifici come nel caso dei serial killer.

    Con parole semplici e numerosi esempi pratici, illustra l’evoluzione storica e culturale della criminologia. Un’evoluzione fatta di una moltitudine di teorie e di molteplici sotto-discipline, nate per comprendere sempre di più e sempre meglio l’uomo delinquente.

    Premessa

    La criminologia esiste da quando, tanto tempo fa, qualcuno ha cercato indizi, tracce e prove per risalire a un colpevole. Detto così sembra elementare, ma in realtà la questione è ben più complessa, anche se, alla base, la dinamica è sempre rimasta la stessa: scoprire l’autore di un crimine. Questa ricerca ha dovuto fisiologicamente avvalersi di strumenti che consentissero di rispondere, al di là di ogni ragionevole dubbio, anche a una serie di domande: chi? Come? Perché?

    È da queste domande che inizia l’itinerario proposto da questo libro. Nelle pagine che seguono il lettore avrà modo di ripercorrere le molteplici e articolate fasi di quelle attività oggi rientranti, dopo un complesso processo evolutivo, nella criminologia e nella criminalistica, sorrette da rigorose procedure scientifiche e da una sempre più profonda analisi dei comportamenti umani. Da quando Cesare Lombroso creò l’antropologia criminale le cose sono molto cambiate, anche se lo scienziato italiano può essere ritenuto il pioniere dello studio del comportamento criminale. Infatti, la missione della moderna criminologia non è quella di scoprire il colpevole (come spesso accade nei romanzi e al cinema), ma di risalire alle cause che sono alla base del comportamento criminale. Un impegno già posto nitidamente in evidenza da Lombroso, naturalmente con gli strumenti e i metodi del suo tempo – che oggi appartengono all’archeologia della scienza.

    La complessità dell’argomento è data anche dal fatto che l’evoluzione della criminologia poggia su una mole di studi, tesi e applicazioni molto elaborata, che in questo libro si è cercato di proporre unendo la ricerca della conoscenza all’imprescindibile piacere della lettura. Quindi un testo divulgativo, ma rigoroso nei suoi riferimenti storici e tecnici, con il fine di produrre pagine accoglienti e ospitali per una diversificata gamma di lettori.

    Come si evince dall’indice, la struttura del libro è tale da consentire un accesso sempre più dettagliato nella tematica, graduale, sostanzialmente cronologico.

    Dopo i primi due capitoli, che hanno il ruolo di contestualizzare il concetto di criminologia e mettere in chiaro, anche dal punto di vista terminologico, l’argomento trattato, vi sono altri capitoli che propongono l’evoluzione dei metodi applicati alla scienza del crimine, dai più arcaici ai più moderni. Alle metodologie attuali è dedicato un apposito capitolo, che fornisce una panoramica sulle tecniche: da quelle di rilievo e di analisi, fino a quelle dirette allo studio del comportamento e necessarie per elaborare profili criminali.

    Fa seguito un capitolo dedicato al serial killer: figura ampiamente enfatizzata dalla giallistica e dal cinema, ma sulla quale la moderna criminologia ha condotto studi di grande importanza.

    Il libro si chiude, prima di una bibliografia essenziale, con un capitolo che riflette sul nostro rapporto con la criminalità, spesso profondamente condizionato da mass media e luoghi comuni.

    Natura o cultura?

    In principio fu Caino. La morte violenta di Abele per mano del fratello può essere ritenuta il primo esempio di omicidio entrato a far parte della storia del crimine. Prima ci fu, da parte dei genitori, qualcosa che forse proprio un crimine non era: si trattò di una trasgressione alimentare che però, come è noto, ebbe ripercussioni pesantissime. Da allora i casi non si contano più: che si tratti di vicende in sospensione tra mito e realtà, oppure di crimini documentati nelle cronache di tutti i tempi, la storia del genere umano è intessuta di violenza, di aggressività e di persone uccise per mano dei propri simili.

    Lasciando a latere i conflitti bellici – che per molti aspetti sono comunque eventi criminali – da quando i nostri antenati hanno assunto l’aspetto dell’antropoide bipede, al tempo degli australopitechi, milioni di anni fa, questi nostri lontani parenti hanno iniziato a uccidere rispondendo a forme di aggressività animale, motivate da bisogni fisiologici imposti dalla necessità di nutrirsi, riprodursi e, soprattutto, sopravvivere.

    Ma in questi casi non possiamo parlare di crimine, bensì di ancestrali bisogni fisici e territoriali presenti nelle specie animali, a cui noi, con tutti i distinguo evolutivi, apparteniamo.

    Alla ricerca dell’origine del male

    Violenza e aggressività che caratterizzano la nostra specie ci giungono dalla nostra natura, come, tra gli altri, sosteneva Thomas Hobbes (1588-1679), oppure della società, come invece suggeriva J. Jacques Rousseau (1712-1778)?

    Molti hanno cercato una risposta, ma è difficile trovarne una che possa soddisfare completamente gli interrogativi millenari posti alla base delle discussioni tra gli scienziati – ma che alimentano anche le domande degli uomini della strada – incapaci di accettare l’idea di crimine, senza aver modo di dare a essa un’origine ben precisa che possa così normalizzare la nostra esistenza, producendo una nitida dicotomia per separare il bene dal male.

    J. Jacques Rousseau.

    Di certo sappiamo che nel corso della nostra evoluzione culturale, noi siamo stati più violenti di un mammifero medio e perfettamente in linea con i primati superiori (gorilla, orango, scimpanzé).

    Nel corso dei milioni di anni di evoluzione dei mammiferi, la violenza letale (tra individui della stessa specie e destinata a condurre alla morte uno o più di quegli individui) è costantemente aumentata.

    Le scimmie antropomorfe sono più aggressive di altre specie, per esempio dei leoni o dei grandi predatori: una possibile spiegazione di tale status è l’aumento, nei millenni, dell’incidenza della vita di gruppo e della difesa del territorio. La vita sociale pone i vari individui quasi sempre a stretto contatto tra di loro e la territorialità implica che i vari gruppi possano competere per l’utilizzo delle risorse disponibili. Di contro, le specie che hanno uno stile di vita solitario e un minor senso del territorio mostrano tassi più bassi di violenza letale.

    Negli uomini il livello di aggressività è sceso radicalmente dal tempo delle bande dei cacciatori-raccoglitori: oggi, nella globalità, è almeno duecento volte più bassa di quella dei nostri antenati della preistoria. Naturalmente ciò non esclude, come sappiamo molto bene, che la nostra specie sia sempre suscettibile di improvvise esplosioni di aggressività e crudeltà, destinate a far traballare molte delle certezze acquisite dalla sociologia e dalla psicologia. Un dato emblematico: negli Stati Uniti, ogni due minuti una donna o un minore sono vittime di un’aggressione a fini sessuali.

    Si tratta di eventi che spesso è difficile interpretare senza perdersi nel mare magnum di luoghi comuni che ci fanno arenare in stereotipi culturali, ancora intrisi di modelli tipici dell’antropologia criminale ottocentesca.

    Il male nasce dal libero arbitrio ed è una presenza costante nelle società umane. Da quando? Da sempre, anche se con andamento diverso nel tempo e nelle culture: nelle società antiche la morte violenta interessava il 15 per cento delle persone, mentre oggi siamo intorno all’1 per cento.

    Naturalmente però il male continua a mantenere i suoi primati. Per Socrate (470-399 a.C.) era il risultato dell’ignoranza, per Aristotele (384-322 a.C.) a determinarlo era la mancanza di limiti e misure; san Tommaso (1225-1274) lo imputava alla volontà non sorretta dalla ragione, mentre Friedrich Hegel (1770-183) lo considerava l’effetto del trionfo dell’individualismo.

    Quando la violenza e l’aggressività sono passate dallo stadio della natura a quello della cultura, di conseguenza sono entrate a far parte di un processo socioculturale che ha condotto all’elaborazione dell’idea di crimine. Da quel momento, avvalendosi di valutazioni filosofiche e giuridiche, gli uomini non solo hanno creato una consolidata dicotomia tra il bene e il male, sorretta da principi e regole comuni, via via sempre più precisi e attenti alle implicazioni etiche, ma hanno anche iniziato a interrogarsi sulle motivazioni che sono alla base dell’agire criminale. L’intento iniziale, che per molti aspetti è ancora quello attuale, era mosso dalla volontà di capire perché alcune persone commettono crimini, dai più semplici ai più efferati. E inoltre, perché alcuni uomini sono criminali e altri no? Cosa spinge qualcuno a rubare, a violentare, a uccidere ecc.?

    Da quando l’uomo ha cercato di rispondere a queste domande, si è rivolto a tutta una serie di ambiti, anche molto lontani, animato dall’ansia di trovare la radice del male e di conseguenza essere in grado di circoscriverne gli effetti. In principio ha guardato in ogni angolo possibile: ha dato la colpa ad alcune divinità, al diavolo, alla religione, o all’etnia. E così è stato facile individuare l’origine del comportamento criminale in categorie che, a priori, erano comunque guardate con sospetto, se non con odio. Riconoscere il criminale come appartenente a gruppi già emarginati e demonizzati per l’alterità a loro attribuita consentiva alla società di difendersi, sulla base di una categorizzazione antropologica costituita da preconcetti, luoghi comuni e varie forme di razzismo.

    La criminologia, pur su base irrazionale e priva di qualunque validità scientifica, di fatto nasceva così, strutturata su un’osservazione condizionata da ideologie, intolleranze e anche dalla superstizione. All’origine vi erano sempre due istanze: la prima – quella dominante e più apparente – riguardava l’identificazione del colpevole; la seconda – conseguente a una più approfondita e intellettuale valutazione del fenomeno – era la ricerca dell’origine del comportamento criminale. Ne potremmo aggiungere una terza, non di nostra diretta competenza: il genere di pena che doveva essere comminata a un determinato crimine. Vedremo nei capitoli successivi quali direzioni prenderanno le prime due istanze, soprattutto a partire dalla fine del XVIII secolo, quando si dedicò maggiore attenzione al fenomeno criminale dal punto divista giuridico, dando inizio a una nuova stagione della scienza in tutta una serie di campi, una parte dei quali si rivelarono fondamentali per la criminologia moderna.

    Crimine: alla ricerca del senso

    A questo punto poniamoci una domanda fondamentale: che cos’è un crimine?

    Dare una risposta precisa non è cosa facile, è infatti necessario avvicinarsi gradatamente a un tema ampio e diversificato. Tecnicamente, si ritiene sia un atto illecito, doloso o colposo, che produce danni ad altri, obbligando il soggetto agente a risarcire il danno e a sottoporsi alla pena. Assegnando un senso più ampio al termine, costatiamo che il crimine si configura come infrazione alle leggi condivise dalla comunità, che nelle società più evolute sono strettamente regolate da principi etici, morali e naturalmente giuridici, atti a riconoscere pari diritti e dignità a tutti gli uomini.

    Nelle culture meno evolute vi è un’astrazione del concetto di colpa e la qualifica del delitto è esclusivamente connessa al danno determinato. In questi ambiti, il diritto della punizione può anche essere correlato a una concezione magico-sacrale che esige l’espiazione.

    Se ci affidiamo al diritto romano, dobbiamo precisare che il concetto di delictium è presente nel diritto privato, mentre è assente in quello pubblico, in cui è invece indicato come crimen. La parola delitto, nel nostro linguaggio corrente, quasi sempre rimanda all’omicidio anche se in realtà, come abbiamo visto, etimologicamente si riferisce a un atto con più ampie specificità.

    L’evento criminale produce comunque atteggiamenti molto diversificati e dai quali è difficile estrapolare significati univoci. Vi sono culture in cui fatti che noi indichiamo come criminali costituiscono un valore aggiunto per l’ascesa sociale: per esempio, tra gli Yanomami della foresta amazzonica l’omicidio costituisce un elemento importate per il successo in società. Ciò è testimoniato dall’alto numero di crimini commessi (circa il 30 per cento degli uomini con età superiore ai venticinque anni ha commesso almeno un omicidio) e dal riconoscimento sociale su cui può contare chi si è macchiato di tale crimine. Di contro, vi sono culture – come quella inuit, stanziata nel nord dell’Alaska e Canada – in cui non esistono né il concetto di guerra né quello di omicidio: è emblematico che in questa comunità non solo non vi sia Codice penale, ma nella lingua locale non esistono parole che indichino l’omicidio (il che comunque non ne esclude la presenza).

    Si tratta di due casi estremi che abbiamo preso a campione, ma gli esempi potrebbero essere altri e tutti nella condizione di illustrare la notevole complessità (e variabilità) del concetto di crimine. Ne consegue che un certo atto può essere bollato come criminale in una società, mentre può non esserlo in un’altra: quindi, per quanto paradossale possa sembrare, il crimine è un concetto relativo, determinato dalla cultura della società in cui il fenomeno si manifesta. Il che ci porta a un assunto incontestabile: nullum crimen sine lege, cioè non vi sono crimini se non quelli puniti dalla legge perciò, detto con la moderna terminologia giuridica, la condotta criminale è un comportamento che viola la legge penale, però un comportamento non costituisce reato se non è proibito dalla legge penale.

    Nell’aggregarsi con altri simili, l’uomo ha sentito la necessità di stabilire delle regole che consentissero una pacifica convivenza: in origine queste regole avevano radici nella religione e nella mitologia, determinando una commistione tra peccato e reato – prendiamo per esempio le Tavole della legge date a Mosè e che dovevano sancire l’alleanza tra Dio e il suo popolo.

    Comunque, come aveva già posto in rilievo il sociologo Émile Durkheim (1858-1917), una società senza crimine non esiste:

    Il reato non si riscontra soltanto nella maggior parte delle società di questa o quella specie, bensì in tutte le società di tutti i tipi: non c’è società in cui non esista qualche tipo di criminalità. Essa muta di forma, e gli atti così qualificati non sono dappertutto i medesimi; ma dappertutto in ogni tempo vi sono stati uomini la cui condotta è stata tale da attirare su di essi la repressione penale.1

    ¹ Émile Durkheim, Le regole del metodo sociologico, Editori Riuniti, Milano 2019, p. 72.

    Dobbiamo peraltro sottolineare che la presenza del crimine risulta una necessità per il mantenimento dell’equilibrio: infatti, con la repressione del criminale, si determina un rafforzamento della coesione sociale.

    Émile Durkheim.

    Di certo si evince un fatto fondamentale che abbiamo già ribadito: lo stretto legame tra la cultura di una società e l’interpretazione del crimine. Ciò ci consente di mettere in discussione stereotipi come il Buon selvaggio di Rousseau o l’homo homini lupus di Plauto (250-184 a.C.) poi formalizzato da Hobbes. Le società che considerano il crimine come atto da reprimere possono però cambiare atteggiamento se, per esempio, quel crimine è commesso in tempo di guerra. Paradossalmente, uccidere nel corso di un evento bellico diventa addirittura un fatto positivo, mutando le caratteristiche dell’esecutore da criminale a eroe, indicativa in questo senso l’affermazione di sant’Agostino (354-430): «Esistono dei casi, da considerare eccezioni, in cui Dio ordina di uccidere, o in base a una legge positiva o in base a un ordine dato a qualcuno in particolare in modo esplicito e limitato nel tempo».2

    ² Sant’Agostino, De civitate Dei, I, 21.

    Osservando globalmente la questione relativa all’interpretazione del fenomeno criminale – più sul piano antropologico che su quello giuridico – constatiamo che vi sono due indirizzi: uno individua nell’atteggiamento criminale l’effetto dell’azione di un soggetto che lo compie per una serie di ragioni diversamente originate; l’altro invece considera il criminale colui che agisce seguendo un comando prodotto da varie fonti, da Dio alla società.

    Si aggiunga che il concetto di criminalità risulta interconnesso a quello di devianza: cioè quell’insieme di azioni che violano le norme dello stare insieme, determinando anomalie all’interno della società. Di conseguenza una comunità, che ha elaborato un sistema di regole e comportamenti, ritiene che quando questi non siano rispettati debbano essere riconosciuti come crimini. In tal senso il crimine conferisce una forma giuridica ad azioni diversamente dannose, violente, moralmente deplorevoli ecc. Le cause poste alla base dei comportamenti devianti sono in parte correlabili alle stesse motivazioni che vengono indicate come le artefici del comportamento criminale: biologiche, psicologiche e sociali, anche se le fonti principali sono riferite alla sfera sociologica. Infatti, la moderna sociologia pone all’origine della devianza, in primo luogo, le limitazioni subite dal soggetto deviante (isolamento sociale); a questa seguono quelle determinate dalla mancanza di norme sociali che consentano una precisa definizione di regole comportamentali. Va ancora aggiunta un’ulteriore motivazione, che si lega alla cosiddetta Teoria dell’etichettamento: in pratica, un soggetto considerato deviante sarà emarginato dalla società determinando conseguentemente una reiterazione della devianza.

    Tutti i processi che una società attiva per prevenire il crimine, o per riportare il criminale a un comportamento conforme alle regole civili, sono alla base di ciò che definiamo controllo sociale. È chiaro quindi che lo studio del crimine deve anche essere condotto tenendo conto di quei processi sociali considerabili artefici della propensione alla criminalità. In sostanza, non si possono ignorare le condizioni ambientali e culturali del criminale: valutazioni che la sociologia della criminalità ha posto in rilievo come fondamentali nell’approccio alla devianza e alle sue implicazioni giudiziarie.

    L’evoluzione del percorso metodologico ha condotto verso la messa a fuoco di strumenti sempre più raffinati, non solo per l’attività criminalistica, ma anche per quello dell’interpretazione dell’azione criminale: ciò ha interessato soprattutto la sfera delle scienze del comportamento applicate non con finalità terapeutiche, ma dirette alla definizione delle problematiche di responsabilità. Gli esperti – in prevalenza psichiatri – hanno un ruolo determinante nello studio della personalità del soggetto criminale e considerano importanti soprattutto i rapporti familiari, in particolare nel primo periodo di vita e nell’età dello sviluppo. Sono anche di grande rilievo i macro-gruppi sociali che possono avere influito significativamente nel comportamento criminale di una persona.

    Il tentativo di comprendere concretamente cosa induca l’uomo a commettere crimini di ogni genere ha sempre rappresentato una sfida all’intelligenza. Una sfida che procederà senza esclusione di colpi, soprattutto dopo aver raggiunto la consapevolezza che violenza e crimine sono un prodotto della cultura: con frequenza, alla loro origine vi sono processi cognitivi complessi, atteggiamenti scaturiti da un’elaborazione mentale che tecnicamente non si può definire patologica (salvo alcuni casi) sul piano biologico, ma certamente alterata su quello socioculturale. In effetti, la gran parte dei criminali non è costituita da persone malate di mente, perché quasi sempre sono in grado di distinguere il bene dal male e conoscono la natura e le conseguenze delle loro azioni. Noi sappiamo che nella stessa persona convivono razionalità e pulsioni emotive: ciò ci ha insegnato che l’uomo e la sua storia sono il frutto di un bilanciamento dinamico tra queste due istanze contrapposte, perennemente in conflitto nell’individuo e nella società. Questo conflitto è il prodotto di un equilibrio più o meno instabile, che caratterizza la storia di tutti noi e della società in cui viviamo.

    I crimini violenti rappresentano sempre più motivo di preoccupazione per la nostra società. L’omicidio, l’incendio doloso e le aggressioni a sfondo sessuale costituiscono gravi e violente condotte interpersonali, e le forze dell’ordine avvertono la pressione dell’opinione pubblica affinché i criminali siano tempestivamente assicurati alla giustizia […].

    Questo l’incipit del noto Crime Classification Manual, un testo da molti esperti indicato come la Bibbia dei professionisti dell’investigazione e delle scienze criminali: il loro non è un compito facile e spesso è conosciuto in modo distorto dalla maggioranza delle persone poiché cinema, televisione e letteratura ci hanno abituati a pensare alla criminologia come a un’attività svolta da esperti che risultano cloni moderni e mediatici di Sherlock Holmes. In realtà, dobbiamo tenere ben presente che il criminologo non è una professione, ma la specializzazione di una professione. Quanti operano in tale ambito delle scienze forensi sono immaginati con peculiarità tali da renderli hollywoodiani; il loro lavoro – quello svolto nella realtà – è complesso e difficile, dove nulla è così scontato e nel quale entrano in gioco tante variabili. In primis quella relativa all’incognita più grande: la complessità della mente criminale.

    Ragionevolmente potremmo pensare che le scelte di un individuo siano dettate principalmente dalla sua storia personale, da esperienze e traumi vissuti, dall’influenza degli ambienti familiari e sociali. Si tratta di un punto di vista razionale, oggi dominante, che però non sempre è nelle condizioni di fornire risposte precise alla nostra domanda principale: cosa determina il comportamento criminale? Forse criminali si nasce, come suggeriva la scienza del XIX secolo?

    Se fosse così, sarebbe per certi aspetti tutto più semplice. In realtà il problema dell’origine del crimine è ben più complesso, cui bisogna aggiungere che:

    […] al fenomeno della criminalità è

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