Amori postumi
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Il protagonista di Amori postumi è incapace di gridare.
Ascoltiamo il sussurro ininterrotto di una stenografia intima, spietata, dettata dall’ultimo fondo della memoria, che racconta del carcerato, dello scrittore e del bambino, tenuti insieme da una sola vita, ma in una ben più vasta risonanza.
Roberto Bertoldo catapulta il lettore lì dove proliferano le ossessioni, nella mente di un uomo che racconta una vita intera con la struggente lucidità dei rassegnati. Così, in queste pagine misurate e disperate a un tempo, ciò che si sente è l’urlo della miseria umana, e il silenzio dell’infelice che lo propaga. La galera, gli amori, l’infanzia, il rapporto con la scrittura: dimensioni che si toccano fino a mostrare un altro mondo, diverso da quello che concepisce l’uomo comune. Si tratta del mondo che già fu di Leopardi e di Dostoevskij: quello dei caduti, dei condannati alla vita.
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Amori postumi - Roberto Bertoldo
Indice
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Roberto Bertoldo
Amori postumi
Copyright WriteUp Books © 2021
ISBN 979–12–80353–56–6
www.writeupbooks.com
redazione @ writeupbooks.com
via Michele di Lando, 106 – Roma
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I edizione: marzo 2021
«Noi siamo felici.»
Ahaaa!
Qualcosa si ribellava allo sputasentenze.
«Sì, lo siamo, qui in Settentrione.»
Ahaaaaaaaaaa!
Sentivo delle urla che in realtà non c’erano, ma il silenzio giusto giusto vi alludeva. Forse è adesso quest’urlo, adesso che ho gozzovigliato. Oppure in quest’altro adesso, in cui capisco. Ma lo sentivo anche allora, contro le leggi del tempo. Una liberazione! L’urlo di me fatto cosciente, contro il peso dell’inerzia.
Ahaaaaaaaaaaaaaaaaa!
Attento ai piedi che accompagnavano parole e masticamenti e al gatto che mi trattava ormai come una sottospecie di bambino con lo stesso indolente disgusto che mia zia elargiva ai sottoproletari, mi appropriavo dei pezzi di pane che mio fratello ogni tanto faceva scivolare sotto il tavolo per il gatto e li posavo sulla lingua come avevo visto fare al prete nella bocca di mia cugina.
«Ancora una fetta di salame?»
Sapevo cosa voleva dire.
«Toglici la pelle, non mangiarla, maiale!»
Ecco, questo voleva dire. Quel maiale in pectore era il mio fratellone, che a breve avrebbe buttato la pelle al gatto, a cui la lasciavo volentieri. Ma anche mia nonna buttava la pelle del salame al gatto, tutti la buttavano. « Il pavimento è di marmo. » Mia nonna diceva sempre così agli ospiti, come per incitarli a nutrire il gatto. O me.
«Questo avvalersi di mano d’opera meridionale è proprio una cavolata.»
Voce stentorea. Uhm! Una bella briciola. La strappai al gatto ingordo e me la internai, come un prete. Odiavo il prete, le sue brache nere con le quali andava anche in vacanza. Lui e le sue dita che santificavano le labbra di mia cugina e io come un pirla lì a guardare. Nel corpo di Cristo.
Cristo!
mi era venuta proprio bene, una bestemmia calzante. Le intuizioni della gelosia.
«Ci metteranno i piedi in testa con le loro volgarità, le loro usanze, la loro fiacchezza. E i nostri figli non trovano lavoro, perché bisogna accogliere i terroni. Tutte balle? Sono gli industriali che preferiscono utilizzare chi non fa storie e si lascia sfruttare.»
«Ma cosa vuoi allora, una guerra civile?»
«Ci sarà più avanti, comunque, e sarà peggio perché saremo deboli, in minoranza.»
Parteggiavo per il tono, non per i contenuti. Conoscevo le mie lotte con il gatto e non amavo quel suo modo sornione di imporsi. Così gli uomini felini non mi attraevano.
«Chi vuole ancora del minestrone di verdura?»
Fin quando non le avessero toccato le ricette culinarie, nessuna mamma avrebbe imprecato a fianco dei mariti, questo già lo capivo.
«A tal punto ci ha portati la nostra classe politica.»
«Destra o sinistra è sempre la stessa solfa.»
«Sì, sempre la stessa.»
Concordavano, non so se per via del coniglio in umido che oramai aveva portato i suoi odori fuori dal forno. Ahaaaaa! Pensavo io, le ossa! Al diavolo i pavimenti di marmo! Di sottecchi vedevo il gatto leccarsi i baffi e trangugiare saliva. Tra tutti i gatti che nella mia vita avrei poi avuto, quello era il più abbruttito. Avevo sentito dire che è il pelo, in loro, a dare il vizio: il pelo rosso e bianco rappresentava i ribelli, gli infingardi. Per quanto mi riguardava, non potevo contraddire tali voci.
«Accendi la tele!»
«Sì, i cartoni animati.»
«Te lo do io un cartone!»
Poverino! Mio fratello non aveva per la testa che i cartoni animati e i giornalini. Io neppure quelli. Mi bastava uno scatolone e avevo disteso un mare, inalberato la poppa, riempito la stiva. Oppure, datemi due dadi e avrò edificato un Tour de France o una Coppa dei Campioni in men che non si dica.
«Di’, ma il vino bisogna berlo, no?»
«Due dita, non di più.»
«… e il senatore rincara la dose…»
«Grazie!»
Ahaaaaaaa! C’era qualcosa di encomiabile quella sera. Presto avrebbero preso mio fratello, io in coda, e l’avrebbero portato al piano di sopra, in camera, e io mi sarei fermato a metà scala da dove si poteva notare lo squarcio del cielo e, appena sotto, dove i pipistrelli lasciavano macchie scure fuggenti, la lampada agganciata all’incavo di una fune tesa sulla piazza; lì sarei stato ancora un piccolo eroe sulla coffa della nave. Ma prima di quel doloroso passo, c’era ancora la frutta e forse un goccio di passito.
«Cos’ha fatto il Toro? E l’Inter?»
«Cosa vuoi, con ‘sta mafia».
Il gatto voleva salirmi sulle gambe ma io lo spinsi via e sgattaiolai in cortile. Un marciapiedi bucciardato, il resto in ciottoli, sul fondo la conigliera più grande e la tampa. Su due lati la casa, autorevole e sorniona, poi il muro di cinta. Aprii il magazzino del nonno e mi portai fuori uno scatolone vuoto. Presto ci fui dentro, alla mia nave. E pensai a quel momento con convinzione, per contrassegnare il tempo, affinché mi fosse rimasto, quell’istante, sempre impresso.
«Torna qui!»
Mio fratello era uscito a guardare il nero della sera e subito venne richiamato da mia madre. Ritornai alla mia convinzione, ma il tempo era già trascorso e mi vedevo, nel passato, marinaio potente. Neppure i decenni hanno scalfito quell’istante e altri ancora. Sì, ogni tanto mi concentravo sul tempo, contro il tempo. È così che l’infamia penetra nelle ferite.
«La torta!»
Ehilà! Rientrai subito e mi presi la mia bella fetta. La sua bontà mi fece dimenticare il gioco del tempo, che era a ben vedere un’attesa, un’oasi di contemplazione, in cui rinfrescavo le mie supposizioni. Gli adulti non ricordano che i bambini pensano e giudicano.
Si aprì il cancello, faceva un rumore inequivocabile. Ah, lo zio buono! Veniva a spazzolarsi il dolore.
«Guardalo qui! Dai, vieni a bere un bicchiere.»
Parlavano in dialetto però io sentivo in lingua. Traducevo inconsciamente, così come vivevo. Ma già sapevo che il tempo passava, avevo davanti il volto di tutte le età.
Ero di nuovo sotto il tavolo e trovavo che le gambe di mio zio avevano dei movimenti bruschi, degli scatti continui. Io provavo affetto per tutti, provavo l’affetto che desideravo ricevere da loro, avevo finito per accontentarmi di dare affetto alle persone più emarginate, in un certo senso le più misere, insignificanti, illudendomi che almeno loro sapessero ricambiare; ma per mio zio provavo un affetto superiore e solo perché un giorno mi aveva guardato negli occhi. Il suo sguardo l’avevo percepito come il soffio che la suora Ivana diceva averci dato Dio. Grazie a questo sguardo, non ero più fango.
«Il lavoro va bene?» chiedeva mio padre. Le sue domande erano sempre di prammatica e ciò allora mi stupiva, rispetto ai discorsi seri che era in grado di tenere in ogni circostanza. Ma preferiva essere ascoltato che ascoltare.
Lo zio soffriva. Spiegava perché tutto andava bene, al lavoro almeno, ma le sue gambe si stuzzicavano, la sua mano scendeva spesso a grattare le ginocchia, prima l’una poi l’altra, con precisione, con devozione. Senza cortesia.
Uscii nuovamente. La notte pioveva sulla corte, nei suoi meandri, mi gloriava da dentro. In quel cortile, si concentrava gran parte della mia vita, fatta soprattutto di scale: quella che saliva alle stanze da letto, quella che scendeva alla cantina e quella che andava a finire in uno scantinato buio dove il nonno teneva il carbone. Poi c’erano le porte: una, rassicurante, conduceva nella sala, un’altra nel magazzino e un’altra ancora in una stanza piena di cianfrusaglie e che era, la notte, il mio spauracchio più vicino. C’erano le mie paure, lì, insomma: lo scantinato del carbone, dal quale un giorno avevo visto uscire mio nonno tutto nero, e la stanza delle cianfrusaglie. Altre paure erano al secondo piano, l’ultimo, ma le giudicavo sufficientemente lontane. Poi, in ogni caso, avevo la stupida idea, tutta infantile, che il male fosse passivo, in attesa, come la merda di mucca sulla quale una sera, nel fienile, caddi in ginocchio saltando da una bica di fieno all’altra.
Ma, di giorno, c’era anche la vita, in quel cortile. Era il fico. La sua ouverture mi estasiava: abbracciava la cinta in mattone, la trascendeva con lenta ma radiosa voluttà e sporgeva i suoi frutti ancora lattescenti, verdi, che poi, quelli più in alto ed esterni, impossibili da raccogliere, si sarebbero spaccati e riempiti di formiche e poi sarebbero caduti sulla strada, lasciando una stria bluastra dopo il passaggio delle macchine e delle biciclette. Ciò allora mi faceva pensare ai morti. Con questo spirito andavo di tanto in tanto al cimitero. Entravo in punta di piedi, non pensavo al luogo come ad un deposito di corpi, non avevo dunque paura, avevo soggezione. Eppure parlavo ai morti come un re ai suoi sudditi, ero infelice ma glorioso, sapevo di valere più di loro, anni dopo la morte ha cominciato ad apparirmi per questo motivo come una sconfitta, di più: come una cosa di cui vergognarsi, ma allora ero potente e sognavo, sia pure con cautela, di mettere in riga gli spiriti. La mia soggezione non era dunque paura ma delicatezza. Non volevo spezzare, mettendo ordine nell’al di là, quel silenzio che ogni volta mi avvicinava al destino, che ha la stessa tremolante tessitura dei ricordi. Odiavo quella costruzione mistica ma allo stesso tempo, riuscendo a riportare l’emozione a terra, trovavo nel cimitero il crocevia del tempo, il luogo di convergenza del passato e del futuro. Per questo, temevo di più e rispettavo di meno il cortile notturno su cui si affacciava la mia infanzia.
Alla fine mia madre uscì portandosi dietro mio fratello e io li seguii su per le scale, verso le stanze da letto. Quando andava bene, ossia quando non c’erano ospiti a pernottare da noi e non ci dovevano infilare testa coda in un lettino, dormivo con mio fratello in un letto matrimoniale ad una piazza e mezza. Piovevo dai bordi sulla paiassa e, tartassato dagli odori antichi della vecchia stanza, forzavo le ginocchia per non cadere.
A letto, mio fratello aveva un attimo di attenzione per me. Mi raccontava le sue bravate. Lui che conosceva la pelle di mia cugina, che aveva visto mezza nuda nella tinozza. Che rabbia, ma anche un po’ di schifo. Non siamo attratti dall’intimo di chi convive con noi, se non per curiosità. In certi casi, anzi, l’intimità è una mancanza di rispetto. Però le balle di mio fratello mi spingevano all’emulazione e per un po’ divenni un guardone, senza tuttavia spingermi troppo in là. La paura di ogni azione era il mio modo di sentirmi al sicuro.
Finita la sua recita, mio fratello si addormentava, e io restavo in ascolto, infastidito dal buio in cui mi trovavo, cercando sotto le porte e contro le persiane quelle strie chiare che pian piano avrebbero restituito almeno in parte la sagoma dei mobili.
Non avevo paura del buio, mi sentivo solo soffocare. E poi c’erano i rumori, che invece di spaventarmi mi tenevano compagnia. Venivano dal piano di sopra, composto da un granaio, un solaio che fungeva da ripostiglio e alcune stanze vuote, a parte qualche damigiana abbandonata e qualche mattone. Nessuno aveva mai parlato di rumori e dunque non li temevo, quasi fossero una mia invenzione, a pari delle pistole ad elastico che costruivo per ammazzare le mosche e che nascondevo, come i rumori. Ci sono verità che non è bene riferire, sono piene delle nostre fisime e delle nostre cattiverie.
A volte sentivo bisbigliare in cortile. Quel parlottio mi attraeva. Stavo con l’orecchio teso ma non capivo chi fosse a sussurrare e poi in casa mia ero abituato alle cose dette a piena voce, non c’era altro modo di dire le cose, si parlava, e forte; chi bisbigliava dunque? Oggi penso che se fossi vissuto senza segreti da scoprire non sarei diventato così diffidente e non avrei ora io tutti questi scheletri nell’armadio, come un corredo.
Avevo un urlo dentro! M’imbottivo di ipotesi e stagionavo. C’è chi la vive e chi la passa l’adolescenza, io la passavo e allora mi restava nei gesti e pian piano, lo sentivo, diventava una ragione di vita, addirittura una causa. Non erano le vitalità di mio fratello, nei confronti del quale ero meno alto, meno intelligente, meno attraente; era ciò che non conoscevo, ciò che non potevo sentire, ciò di cui si bisbigliava. Che miseria crescere in questo modo quando si ama la vita contemplativa.
Non ero un eremita, ero un Padre del deserto, un asceta che sembrava non avesse bisogno di conforto, di una madre che lo accarezzasse. Mi accarezzava una suora e questo mi dava fastidio già abbastanza. Le carezze non sono sempre così, ora lo so, ma allora non conoscevo le sfumature della tenerezza e le attenzioni altrui mi sembrava non valessero tutte quelle passeggiate negli scantinati dell’asilo con suor Letizia, al buio, con le braccia cariche di legna da portare in refettorio e le carezze.
Però la notte ero davvero solo. Mio fratello dormiva pur agitandosi, io ero calmo ma ribelle. Il buio, i rumori, la solitudine erano la mia ribellione, che s’infrangeva tuttavia contro i sussurri che venivano dal cortile.
Durava poco, quel parlottare. Quella sera – una delle tante sere in cui quella scena si ripeteva sempre uguale – mi alzai dal letto e al buio, attento a non svegliare mio fratello, mi rivestii e uscii sul balcone. Il cancello aveva appena cigolato ed ebbi solo il tempo di vedere lo zio attraversare la piazza e andare verso casa. Un’altra ombra scivolò sotto il balcone e la sentii frusciare via e rientrare in