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Sono nato così
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E-book223 pagine3 ore

Sono nato così

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Info su questo ebook

Narra di Salvatore, uomo sempre in ricerca e in costante bisogno di dare un senso all'esistenza.
LinguaItaliano
Data di uscita7 mag 2018
ISBN9788827827581
Sono nato così

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    Anteprima del libro

    Sono nato così - Vincenzo Mazzeo

    Indice

    Nota dell’autore

    Uno

    Due

    Tre

    Quattro

    Cinque

    Sei

    Sette

    Otto

    Nove

    Dieci

    Undici

    Dodici

    Tredici

    Quattordici

    Quindici

    Sedici

    Diciassette

    Diciotto

    Diciannove

    Venti

    Ventuno

    Ventidue

    Ventitré

    Ventiquattro

    Venticinque

    Ventisei

    Ventisette

    Ventotto

    Ventinove

    Trenta

    Trentuno

    Trentadue

    Trentatré

    Trentaquattro

    Trentacinque

    Trentasei

    Trentasette

    Trentotto

    Trentanove

    Quaranta

    Quarantuno

    Quarantadue

    Quarantatré

    Quarantaquattro

    Quarantacinque

    Quarantasei

    Quarantasette

    Quarantotto

    Vincenzo Mazzeo

    Sono nato così

    Romanzo
    Youcanprint Self-Publishing

    ISBN | 9788827827581

    Prima edizione digitale: 2018

    © Tutti i diritti riservati all’Autore

    Youcanprint Self-Publishing

    Via Roma 73 - 73039 Tricase (LE)

    info@youcanprint.it

    www.youcanprint.it

    Questo eBook non potrà formare oggetto di scambio, commercio, prestito e rivendita e non potrà essere in alcun modo diffuso senza il previo consenso scritto dell’autore.

    Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata costituisce violazione dei diritti  dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla legge 633/1941.

    Alla mia piccola nipote Valentina,

    radioso fiore, spuntato, un giorno di aprile,

    nel giardino della nostra vita.

    "L'unica gioia al mondo è cominciare.

    È bello vivere perché vivere è cominciare,

    sempre, ad ogni istante."

    Cesare Pavese

    Nota dell’autore

    Spesso mi viene posta questa domanda: perché scrivi?

    L’amore per lo scrivere non nasce all’improvviso, ma matura dentro una visione che si ha della vita, nel mettersi in ascolto della propria voce interiore, della propria storia.   

    Nella prefazione al mio primo libro Le mie radici, si legge:

    -Vincenzo Mazzeo scrive perché la memoria non venga dispersa, per rafforzare le sue radici e trarne linfa. Scrivere, per lui, è riportare nell’anima le fonti della propria identità e appartenenza.

    Scrivere per me è camminare con me stesso, è incontrarmi con la vita, la mia fanciullezza, interrogarmi sul mondo che mi circonda.

    È sentirmi anima e corpo con le vicende che racconto, con i personaggi, le loro emozioni, le loro attese, le loro speranze, le loro tristezze.

    È vivere la curiosità, lo stupore, è, per citare un passo del secondo libro Ritrovarsi nel tempo, un lasciarmi catturare "…dal laborioso andirivieni delle formiche, che con il loro carico si muovono sul cordolo della strada…" 

    Scrivere è bisogno di comunicare con gli altri, di renderli partecipi del mondo che c’è in me. 

    È sogno di creare pagine che chi legge amerà. 

    Vincenzo, volevo ringraziarti per il tuo libro che mi ha arricchito dal punto di vista umano. La storia che narri, la vedo e la vivo ogni giorno attraverso gli occhi della gente. Per uno scrittore non è facile comunicare il proprio mondo interiore, il suo amore per la terra d’origine, per la gente, per tutte le cose che emozionano e fanno emozionare. Tu ci sei riuscito alla grande.  (Massimo).

    Vincenzo, oggi, finalmente, ho potuto riprendere e terminare la lettura del tuo bellissimo romanzo Non ritornerò a primavera.... Una storia che mi ha coinvolta fin dall'inizio e che, pagina dopo pagina, mi ha portato a pensare e riflettere su molti aspetti della vita e sui suoi valori.....Sulla realtà di tutti i giorni che, spesso, passa inosservata per la fretta con cui oggigiorno si tende a vivere...Sul mistero finale della vita al quale hai saputo dare una speranza... Un libro di facile lettura ma che affronta i temi più difficili e moderni con una profondità e una bravura indicibile.  (Armanda).

    Questi i giudizi di alcuni miei lettori, sui libri che ho già scritto.

    Anche con questo romanzo, spero di riuscire, attraverso i personaggi e le vicende che narro, di rendervi partecipi, di toccare nuovamente la vostra sensibilità e il vostro animo. Uno

    Uno

    Dalla radiosveglia sul comodino, Salvatore, nel dormiveglia, sente la voce del meteorologo: oggi 20 maggio 2013, sole su tutta la Brianza. Segue una musica di sottofondo. Vorrebbe stare ancora sotto le coperte, ma l’arrivo della pubblicità forte e insistente, lo sveglia. Guarda i numeri rossi sul display, sono le otto meno qualche minuto. A stento si solleva dal letto, il suo fisico non è più giovane.

    Quando alza la tapparella, il sole illumina la stanza e il suo viso. Il cielo è limpido sopra la piazza e gli alberi. Come vorrebbe godere di questo sole e di questo cielo, vivere con i suoi anni. Invece il signor Pierino lo attende.

    «Mi raccomando, non più tardi delle nove» gli ha detto ieri sera.

    Va in cucina e accende la radio, ne sente quasi il bisogno, è come se avesse paura di vivere il silenzio. Nel prepararsi la colazione gli giungono le voci di un regista conosciuto e quella del conduttore, ne è subito attratto. 

    «Sono venuto qui per parlare con lei del mio film e non di mio figlio.»

    «Non abbia timore, arriveremo al film. Ma ci sono esigenze di attualità. Corre voce che lei abbia avuto un certo ruolo nei fatti scandalosi riguardanti suo figlio.»

    «Quando lei mi ha invitato, mi ha detto che voleva parlare del mio film e non delle faccende private.»

    «Lei è un personaggio pubblico e io le chiedo quello che interessa al pubblico.»

    «Sono pronto ad ascoltare le sue domande sul film.»

    «Come vuole. Ma il pubblico si chiederà perché si rifiuta di rispondere.»

    Il regista urla un vaffanculo, e sbatte la porta. 

    Salvatore esclama: «Il pubblico, il pubblico! Lo manipolate come volete voi!»

    La sua contrarietà per la radio e la tv che manovrano le menti, si è sovrapposta, per un attimo, a tutte le sue preoccupazioni.

    Mentre veloce consuma la colazione, di nuovo pensa al signor Pierino. È davvero generoso. Un giorno, mesi addietro, con estremo imbarazzo ha bussato alla porta del suo ristorante.

    «Ehi, Salvatore! Come mai da queste parti? Entra, entra.»

    «Mia moglie è morta, mio figlio è…»

    Sorridendo: «Ho capito, Salvatore. Non mi devi dire altro.»

    Gli è riconoscente pure per questo. L’indomani si era trovato a lavare pentole, piatti e bicchieri per diverse ore ed era stato come un tornare indietro negli anni.

    Era una mattina di agosto. Con i suoi diciassette anni, spaurito e negli occhi ancora l’immagine del paese, si era trovato, dopo un viaggio durato tutta la notte, alla stazione Centrale di Milano. Qui lo aspettava l’amico di infanzia Fortunato. Trascorse alcune ore era già insieme a lui a lavorare in un ristorante di Monza, di proprietà di un loro conterraneo. Si chiamava Orlando.

    «Stai tranquillo» gli aveva detto, accogliendolo affabile. «Ca u lavuru  nc’è. Qui da me si sta bene. Puoi chiederlo a Fortunato.»

    Fortunato aveva annuito con un sorriso.

    «Per dormire» aveva aggiunto «puoi stare con Fortunato, nella stanza di sopra.»

    Nella camera, piccola, c’era un letto a castello, sopra avrebbe dormito lui.

    «I soldi dell’affitto» gli aveva detto Fortunato la sera tardi, intanto che cercavano di riposarsi seduti sul letto, uno a fianco all’altro «ce li trattiene dalla paga del mese.»

    Aveva aggiunto: «Dobbiamo accontentarci di lavorare senza carte, per un po’. Orlando dice che dobbiamo aver pazienza, più avanti ci sistemerà.» 

    Salvatore l’aveva abbracciato e ringraziato. «Le nostre tasche sono vuote. E poi…» Sul volto era apparsa un po’ di malinconia.

    L’amico aveva capito e: «Tua mamma, eh? Come sta? E come stanno Carmelo e Francesca?»

    «Stanno bene. Il loro problema, lo sai, è la povertà. Appena posso, chiamerò anche loro qui in Brianza.»

    Fortunato aveva chiesto notizie dei suoi e in particolare della sorella Teresa, di cui Salvatore era segretamente innamorato.

    «Stanno bene. Ti mandano i loro saluti. Vorrebbero vederti.»

    Pure l’amico si era intristito. Dopo la morte prematura del padre, tutto il peso della famiglia era caduto su di lui.

    Salvatore aveva aperto la valigia e preso un pacchettino. Dentro c’erano delle salsicce stagionate e dei fichi d’India. Di quest’ultimi, l’amico, con occhi pieni di nostalgia, aveva ricordato le piante assiepate intorno al loro pagliaio e quelle sulle strade di campagna. Per un attimo gli era parso di essere lì. 

    I giorni passavano. Salvatore serviva ai tavoli, lavava pentole, piatti, tantissimi, spazzava, puliva pavimenti e, a fine serata, i cessi. Al termine di ogni mese, però, c’erano i soldi. Una parte la mandava al paese.

    Fortunato invece stava in cucina come aiutante, lo faceva con passione. «Voglio diventare un grande cuoco» affermava. Cambiando tono: «A tanta gente del nostro paese e a molti di qua, che ci considerano inferiori, farò vedere io chi è Fortunato!»

    Orlando, chiamato padrone dai suoi dipendenti, veniva nel locale durante le ore di punta, e controllava, ritirava gli incassi e andava. Ero un tipo scherzoso. A volte si tratteneva con tutti i quattro camerieri e i cuochi e raccontava loro barzellette piccanti sui preti e sulle suore. Salvatore diveniva tutto rosso, e lui si divertiva di più. Quando però qualcuno di loro si serviva una doppia razione di carne diventava una bestia. Un giorno se l’era presa con Salvatore, urlando: «Eh no, eh no! Tu mi vuoi mandare in rovina. Mi volete mandare in rovina! Così non si fa!»

    Più di una volta prendeva la bistecca del malcapitato e la rimetteva nella grande padella.

    «Io mi son fatto da solo, con sacrifici, e non mi va di essere fregato da nessuno!»

    Di tanto in tanto i due amici gli chiedevano di essere assunti regolarmente. Lui pronto rispondeva: «Ne parliamo domani, va bene?» Oppure: «Abbiate pazienza ancora per un paio di settimane.» 

    Passavano i mesi, ma niente mutava. Una sera Salvatore aveva detto all’amico che bisognava affrontare il padrone e risolverla la questione.

    «Io non me la sento più di continuare così. Se ci ammaliamo, capisci, tutti i nostri soldi serviranno per curarci. E alle nostre madri cosa mandiamo?»

    «Sì, e vero. Io però… Conosci già il mio sogno e penso che soltanto qui posso avere le possibilità di realizzarlo. Io ho qualche anno più di te quindi…»

    Salvatore gli aveva sorriso rassicurandolo.

    Una domenica, dopo avergli detto, tutto irrigidito e duro in viso, che voleva essere assicurato, altrimenti se ne andava, il padrone gli aveva gridato: «Cosa? Vuoi essere assicurato, se no… Ma sono io che ti sbatto fuori, hai capito? Vai, vai. Torna tra le tue capre, torna a zappare! Non vedi quanto puzzi, che fai schifo!»

    Gli si era scagliato contro per colpirlo con una bottiglia, l’amico Fortunato l’aveva trattenuto in tempo.   

    Due

    Sta per terminare di spazzare il pavimento della cucina, il signor Pierino lo scorge e: «Salvatore, vai pure a casa, ci vediamo stasera, va bene?»

    Al momento di oltrepassare la porta lo richiama e gli indica con la mano un pacchetto. Lui abbassando gli occhi per la vergogna, lo prende; sa che contiene un po’ di pasta e della carne.

    Durante le ore di lavoro ha pensato continuamente al figlio Andrea.

    Alcune sere fa tornando a casa, l’aveva trovato, come in altri momenti, buttato sul divano, in mano una birra e delle patatine. Gli aveva dato una fuggevole occhiata ed era restato muto per alcuni minuti. Si sentiva agitato. Nel modo più assoluto non sopportava che un giovane se ne stesse senza far niente, lui sempre abituato alla fatica fin da piccolo.

    Il figlio continuava a bere e a sgranocchiare patatine. Era stato sul punto di gridargli tutto il suo disappunto, invece… In mente gli erano tornate le ragioni di quel comportamento. Dopo anni come imprenditore edile si era trovato senza un’occupazione, e la moglie l’aveva cacciato di casa, urlandogli che non voleva più vivere con un fallito, con uno che, anziché reagire, si dava al bere. I due figli, maschi, erano rimasti con lei.

    Fermatosi ancora degli istanti a osservarlo contrariato, aveva detto: «Vado a letto. Mi sento stanco. A domani.»

    Lui aveva strascicato un ciao.

    Salvatore giunto a casa, nel prendere le chiavi dalla tasca per aprire, spera di non trovare il figlio. Vuole riposare, si sente stanco, e poi… vorrebbe stare solo, con i suoi pensieri.

    Infila la chiave, la porta è già aperta. Il figlio è lì, tuttora buttato sul divano.

    Non lo saluta. Va in cucina, depone il pacchetto sul tavolo, prende un bicchiere d’acqua. Il figlio come al solito non dice niente. Pure ora sta bevendo birra e sgranocchia patatine.

    Trascorso qualche minuto, si siede di fronte e guardandolo negli occhi: «Come va?»

    Il figlio alza le spalle.

    «Non dovevi andare in quella ditta di Seregno a fare un colloquio?»

    Andrea pare non abbia udito.

    «Hai sentito cosa ho detto?» Alza la voce avvicinandosi col viso.

    «Non sono andato.»

    «Non sei andato?»

    «No, no, non sono andato!» grida. «Sono stanco, stanco. Ti rispondono sempre con la stessa frase: compili la domanda se avremo bisogno la chiameremo! Quante volte, eh? E in quanti posti sono andato? Quasi in tutte le fabbriche della Brianza!»

    «Devi continuare, continuare! Hai capito? Dici che sei stanco… Io sono stanco, stanco di vederti continuamente su questo divano, stanco di lavorare per te!» E gli mostra i pugni come a volerlo picchiare. Il figlio si alza di scatto e allunga le mani come se volesse prenderlo per il collo. Infuriato, mette le scarpe ed esce sbattendo la porta. 

    Salvatore rimane lì. Si sente ribollire dentro. Poi, a poco a poco si rilassa, sembra abbia obbedito a un bisogno di quiete. 

    Da due ore si gira e rigira nel letto. Il figlio non è tornato. Trascorre ancora del tempo. Ecco, ode la porta aprirsi. È rientrato. Lo sente andare nella sua stanza e coricarsi.

    Poco dopo giunge il sonno e lo porta altrove.

    È al paese con i suoi quattordici anni. È una sera d’agosto e a piedi scalzi sta tornando dai campi. Gli ultimi raggi del sole, che illuminano il sentiero polveroso, lo accompagnano, e pure il canto delle cicale e il volo degli uccelli che lenti traversano l’aria. All’improvviso, come per incanto, scorge Teresa spuntare da un viottolo. È tutta sola. Anche lei sta tornando a casa. Lo saluta con un ciao Salvatore e un sorriso. Strada facendo, su un tratto dove in quel momento non c’è  nessuno, tremante le prende la mano, lei non dice niente e camminano insieme…

    La radiosveglia lo fa sobbalzare. Sono le otto. Si alza a fatica. Quanto vorrebbe essere ancora nel sogno. Percepisce che il figlio sta tuttora dormendo. Va in cucina e mette il pentolino sul fornello per preparare la solita tisana. In modo meccanico, prende la tazza dalla credenza, il cucchiaino dal cassetto, la bustina. Sul tavolo mette due tovaglioli di carta, uno per pulirsi la bocca l’altro per poggiarci la tazza, e il vasetto del miele. La signora che gliel’ha venduto gli ha ripetuto: «Ne metta un bel cucchiaino. Le farà molto bene, vedrà. E poi, lo prenda pure durante il giorno, un paio di volte, la aiuterà ad avere un po’ d’energia in più, visto che la vedo molto…»

    «Ha ragione. Avrei bisogno di mettere qualche chilo» aveva risposto.

    Sul tavolo, dopo averla presa dalla mensolina al muro, vi pone, come ogni mattina, anche la foto della moglie.

    La radio continua a gracchiare. A un tratto, una frase cattura la sua attenzione: È meraviglioso svegliarsi la mattina e fare pensieri positivi.

    Guarda il ritratto della moglie. «Hai sentito cosa ha detto?» Gli occhi della moglie pare gli dicano di sì.

    Si siede e, mentre lentamente consuma la tisana: «Ricordi? Quando c’eri tu la gustavamo insieme la colazione, e con una musica di sottofondo.» Emette un lungo sospiro. «Da quando te ne sei andata, quanti pensieri nella mia mente. È dura. Angelina si è divorziata, e adesso

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