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Un giorno per ricordare
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E-book279 pagine4 ore

Un giorno per ricordare

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Info su questo ebook

Le gesta memorabili di Chuka e la sua battaglia per la vita contro una tradizione crudele e cieca, sono narrate secoli dopo nella cerimonia della tramandazione orale dal suo discendente, Emeka. Nel ricordo, prendono forma i personaggi, la natura selvaggia, i sentimenti, il viaggio, trasfigurati nella dimensione fantastica e prodigiosa di un'Africa quasi scomparsa, ma che continua a sopravvivere oggi in un connubio indissolubile di tradizione e modernità.
LinguaItaliano
Data di uscita27 ott 2014
ISBN9788865123935
Un giorno per ricordare

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    Anteprima del libro

    Un giorno per ricordare - Obi Onwuta

    genitori

    Albero genealogico

    Nonostante non vi siano date certe riferibili ai personaggi di cui si narra, tuttavia si può sostenere – sulla base dei manoscritti di Padre Golt – che Chuka Ike sia vissuto alla fine del 1600, così come il suo discendente Mark Obiora Ike nel XX secolo.

    Capitolo I

    Ogni volta che rifletteva tra sé e ricordava le sue origini, Mark Obiora Ike, non smetteva di considerarsi un uomo privilegiato. E davvero, ne aveva tutti i motivi. Era sposato con Agnes ed avevano tre figli: Yvonne, Sandra e Chukwuemeka. Vivevano a Phoenicia Reservation Area, un’esclusiva zona residenziale a bassa densità abitativa. Nella zona, sorgevano diversi edifici residenziali ad un solo piano, circondati dalla vegetazione curata che, quasi, li nascondeva. Tutte le case nella zona erano state costruite dagli inglesi per loro stessi ed abbandonate al momento della loro partenza, all’indomani dell’indipendenza del paese. Ben progettate e realizzate, erano passate ai governi regionali ed agli enti federali, i quali poi, le avevano assegnate ai loro dirigenti e funzionari. Erano dotate di comfort inusuali come i frangisole ed i curtain wall che consentivano di avere ambienti ventilati e freschi nelle giornate torride della stagione secca. Erano diverse dalle piccole abitazioni unifamigliari ad un solo piano realizzate vicino alla miniera di carbone per i minatori e le loro famiglie, che avevano una od al massimo due stanze. Erano diverse anche dagli edifici che si trovavano nelle zone ad alta densità abitativa come Coal Camp od Uwani, dove erano gli indigeni che costruivano dopo aver comprato i lotti.

    Quelli come lui, che abitavano nella Phoenicia Reservation Area, erano guardati con reverenza ed ammirazione. Ogni giorno quando tornava a casa, Mark aveva modo di apprezzare la bellezza del luogo in cui viveva. Ogni tratto di quel percorso era particolare. Dalla Marquez Road con i marciapiedi larghi, puliti e con delle panchine così comode che, spesso, qualcuno ci si sdraiava a riposare, si imboccava Alderton Avenue – orlata di palme verde lucente – e poi si svoltava in Achebe Street dove si trovava un grande parco ed un’area riservata ai bambini. Ci andava spesso con i suoi figli. La strada proseguiva voltando a sinistra ed immettendosi in Soyinka Crescent bordata da pini che fischiavano nelle giornate ventose. Si superava il cancello e si penetrava il prato antistante, grande quanto due campi di calcio. Comparivano subito man mano che si procedeva, sul lato destro e parallelamente al viale, la bassa costruzione che ospitava gli alloggi della servitù, e poco più avanti, l’edificio dei garages. Una volta arrivati in prossimità di quest’ultimi, si svoltava a sinistra con una curva a 90°. Si percepiva a questo punto la sagoma di un edificio a tre piani che si stagliava oltre una grande rotonda alberata. Il fabbricato era diviso in due unità abitative per piano: in un appartamento al secondo piano, di circa 190 metri quadri, abitava la famiglia Ike.

    Mark non era il tipo di persona che si lasciava condizionare dall’agiatezza. Non avrebbe mai dimenticato Umuabi, il luogo da cui proveniva e che custodiva la storia dei suoi antenati. Era lì che risiedevano suo padre Chukwuemeka, affettuosamente chiamato Emeka dai suoi coetanei, le sue quattro mogli ed i loro figli. Mark era impregnato di tutto quel che riguardava il modo di vivere del suo luogo di origine quanto una spugna dell’acqua.

    Anche adesso che viveva ad Enugu, una città moderna fatta nascere dagli inglesi, che aveva una casa con tutti i servizi funzionanti, che aveva una famiglia che adorava e che lavorava seguendo un modo di vivere moderno, non poteva estraniarsi da quelle tradizioni od esimersi dal tipo di responsabilità che esigevano. Non lo viveva come un’obbligo ma come una scelta. Amava esserci quando l’organizzazione dei grandi eventi ad Umuabi richiedeva la sua presenza. Si commuoveva quando molti lo trattavano come un figlio di cui essere orgogliosi. Però, viveva con pari intensità l’evolversi della sua giornata ad Enugu. Talché, sovente, era arduo dividersi e dividere il tempo a disposizione.

    Era imminente la celebrazione della festa più importante di Umuabi: la tramandazione orale. Lo attendevano in molti ma a differenza di quel che poteva sembrare, non era così facile giustificare la propria assenza dal lavoro. Più passavano i giorni, più si preoccupava di non farcela, di alimentare le dicerie di coloro che lo avrebbero inevitabilmente accusato di disinteresse per la tradizione. Le sue giornate erano pervase dall’inquietudine. Pensava a quella festività ed ai suoi obblighi, mentre distrattamente svolgeva le sue attività quotidiane.

    Cosicché, anche quel giorno poteva sembrare ai più come uno qualsiasi, e per certi versi, lo era. Il sole giallo scuro di Enugu stava tramontando dietro le colline, e la sera si affacciava piano piano con quella marcia inesorabile che, a volte, appariva talmente lenta da diventare la giustificazione dei pigri, di quelli che si convincevano di poter esser lenti nella misura in cui lo era anche la natura. Il cielo incombeva con tonalità intense e decise sulle quali si staccavano piccoli fiocchi di nuvole, soffici come zucchero filato. Soffiava una leggerissima brezza e si annunciava una bella serata. Chukwuemeka, il suo unico figlio, bagnato dalla luce leggermente sfumata del sole che tramontava, era seduto sull’erba nel grande prato, ed osservava attento un grosso grillo. La caccia ai grilli era parte dei giochi dei bambini maschi. Anche chi aveva dei giocattoli in casa come lui, vi ci dedicava qualche tempo nell’arco della giornata. Alcuni ragazzi li uccidevano dopo la cattura. Lui, li rilasciava. Riuscire a catturarli era una grande soddisfazione.

    Lo chiamavano affettuosamente Emi. Anche per evitare equivoci con il diminutivo abituale che si usava per suo nonno. Il bambino stava ricevendo un’educazione rigorosa e la sua giornata era scandita secondo ritmi precisi. Di norma, dopo il pranzo, lui e le due sorelle andavano a fare la siesta, e ciascuno doveva rimanere in camera a riposarsi. Solo verso le 5.00 del pomeriggio, potevano scendere dal secondo piano a giocare nel prato. A quell’ora faceva meno caldo e potevano divertirsi liberamente all’aria aperta senza sudare troppo. Era anche la fascia oraria in cui la signora Agnes poteva affacciarsi per vigilare sui suoi ragazzi. Circa due ore più tardi, venivano chiamati per il bagno e la cena. La serata proseguiva nel soggiorno dove, riunita tutta la famiglia, i ragazzi potevano ascoltare i racconti e le storie dei genitori. Ma ciò che appassionava il ragazzino e gli faceva attendere ansiosamente le ore serali, era il momento in cui salutati gli adulti, i bimbi si ritiravano nelle proprie camere. Un grande pacco di bedtime stories troneggiava nelle loro stanze e Chukwuemeka vi si gettava con avidità, leggendo per molto tempo di nascosto, nel silenzio della notte, fino ad addormentarsi.

    Emi si distrasse dal grillo e guardò il sole del tramonto che sembrava una grande palla di fuoco. Aveva l’impressione che fosse in procinto di scendere verso la terra e si domandava quando e dove avrebbe toccato il suolo. Quanto desiderava vedere quel momento e scoprire dove sarebbe finito il sole una volta superato il limite immaginario della superficie terrestre. Mille risposte si affacciavano nella mente del bambino.

    Tornò con gli occhi sul grillo. Era la specie con le ali verdi. Rimase ad osservarlo ancora per un attimo, poi si alzò lentamente ed incominciò ad avvicinarsi, cercando con la mente di intuire la sua direzione di volo. Aveva le mani tese in avanti, arcuate per creare il vuoto. Voleva catturare il grillo senza schiacciarlo. Un tuffo repentino, da circa un metro di distanza, lo fece approdare sull’erba soffice, che un signore che tutti chiamavano gardener curava con minuziosa attenzione. Toccando terra, vide però il grillo volare via e rimase disteso a riposarsi dopo l’ennesimo tentativo andato a vuoto.

    Giusto in quel momento, la signora Agnes si affacciò per chiamare i figli. La donna si fermò a guardarli con ammirazione mentre giocavano: lui, seriamente preso a dare la caccia ai grilli, e le sue sorelle a saltare la corda. La signora indossava un vestito intero a fiori. Era a maniche corte e le arrivava alle ginocchia. I capelli corvini erano raccolti in quattro grosse treccie. Le guance piatte, gli occhi allungati ed il naso dalla linea dritta, donavano al viso dalla carnagione ambrata una straordinaria personalità. Si appoggiò sul muretto e continuò a seguirli con lo sguardo.

    La signora Ike era una donna che sapeva accontentarsi di quel che aveva; sapeva però impegnarsi per migliorare la sua vita e quella dei suoi famigliari. Si riteneva fortunata sia per quei tre figli sani che per l’evolversi positivo degli eventi. Lei, come il marito, proveniva da Umuabi, e come lui, aveva dovuto subire quelle costrizioni sociali tradizionali che escludevano qualunque ipotesi di progresso. La tradizione non ammetteva che una donna potesse studiare, e ancor peggio svolgere quei lavori che richiedevano una preparazione culturale.

    Il posto della donna è a fianco ai figli ed in cucina, era abituata a sentire sin dagli anni di gioventù. Ad una donna spettavano alcuni compiti e doveva organizzarsi: doveva provvedere a raccogliere la legna, prendere, con un secchio tenuto in equilibrio sulla testa, l’acqua occorrente per gli usi domestici dal fiume che qualche volta era assai lontano dal luogo abitato, e pulire la casa. In più, la comunità di appartenenza si aspettava che ogni brava donna provvedesse con le altre alla pulizia degli spazi collettivi esterni ed interni ai compounds, le unità residenziali che componevano il villaggio. Una donna poteva anche essere chiamata ad aiutare nelle coltivazioni leggere e, se era necessario, doveva fare queste cose portando un bimbo legato alla schiena. Il rifiuto di tanti verso la nuova fede cristiana, portata secoli addietro da padre Golt era dovuto, sì, a quegli aspetti che sembravano contrapporsi alla credenza indigena negli oracoli, ma i più, la vedevano come una minnaccia a talune tradizioni, veri e propri meccanismi mascherati di controllo sociale. Era come se i conservatori, fossero convinti di essere dei vedenti, e supponevano che attraverso la religione e l’educazione, gli altri, i ciechi, potessero aprire gli occhi. Furono Mark e la sua guida spirituale, padre Zoggia, a convincere suo padre, convertitosi poi al cattolicesimo, dell’importanza dell’istruzione. Quando suo padre decise poi di far studiare tutti i suoi figli, maschi e femmine, i suoi fratellastri lo convocarono ad una riunione straordinaria per convincerlo a desistere. Il loro intervento fu ancora più duro quando la futura signora Ike, la primogenita, cominciò ad andare a scuola. Appoggiata da suo padre, lei riuscì a finire la scuola superiore, e divenne la prima donna istruita del luogo. Fu in questo periodo che Mark, suo attuale marito, si recò dal padre con doni per chiedere di sposarla. Lo stato emotivo di Agnes, la sua felicità e serenità, di fronte alla loro posizione sociale che paragonava spesso a segnali di una piccola rivincita, erano dovuti anche, e soprattutto alla conoscenza delle traversie del marito. Un piccolo racconto su cui spesso rifletteva come esempio di tenacia, e che le dava il necessario coraggio per superare i momenti inevitabili di avversità.

    Mark non conobbe del tutto una vita famigliare normale. Sua madre morì che era giovanissimo. Suo padre, Chukwuemeka decise di partire per il nord del paese in cerca di lavoro. Chiese al fratellastro, Egobuokwu, figlio di una delle quattro mogli del loro padre di accudire Mark. Egobuokwu lo accolse in casa. Ben presto, il ragazzino si rese conto che, pur trovandosi a casa dello zio, le cose erano davvero cambiate. Era figlio unico ed era abituato ad avere tutte le attenzioni. Ora invece, il trattamento riservatogli era diverso da quello che ricevevano i suoi cugini, figli di Egobuokwu. Era come se gli si urlasse davanti che loro, erano considerati leggittimi. Lui, invece, veniva trattato come se fosse un orfano. Mangiava per ultimo e gli toccavano solo gli avanzi. Qualche volta, nella stagione secca, quando scrosciava la pioggia allagando i sentieri del villaggio, ed il freddo si faceva pungente, agli altri veniva consigliato di mettersi attorno al focolare, mentre a lui, davano una foglia di banana per ripararsi la testa, dopodiché veniva spedito a scuola. Da quel bambino vivace che era quando la madre era viva, divenne quasi muto, e sempre con un velo di tristezza. Continuò, nonostante tutto, ad andare a scuola. Dopotutto, non aveva alternative. Non disse niente al padre, il quale rimase all’oscuro di tutto. Anni dopo, quando finì gli studi elementari, suo padre chiese ad un conoscente che viveva ad Enugu di ospitarlo, in modo che potesse frequentare la scuola superiore. Egobuokwu era invidioso dell’intraprendenza di Chukwuemeka ed avrebbe volentieri evitato di accogliere suo figlio. Non voleva, però, inimicarsi il cugino.

    Fu dunque ben contento di liberarsi del ragazzino. Mark si trasferì. Il giorno della sua partenza, gli altri bambini si radunarono con il solo scopo di prenderlo in giro. Tra questi vi erano anche i suoi cugini. Lo chiamavano ‘figlio di nessuno’ e gli dicevano che avrebbe fatto la fine vergognosa di un avo, Okechukwu, venduto come schiavo. Ai loro occhi, lui era sfortunato perché costretto ad andare a scuola. Pensavano che quel conoscente di suo padre che viveva in città, l’avrebbe venduto agli ndi ocha – gli uomini bianchi –, di cui si raccontava nelle leggende rurali. Il fatto che gli ndi ocha fossero la maggioranza in città e che esercitassero l’autorità nei luoghi di lavoro intimoriva molti indigeni. Cosicché costoro dissuadevano chiunque volesse andare a cercare fortuna con racconti terrorizzanti che, ad ogni passaggio, si nutrivano di particolari sempre più incredibili.

    Grazie alle rimesse del padre, Mark finì la scuola superiore in un collegio della chiesa cattolica. Superò l’esame di ammissione all’unica facoltà di medicina che esisteva nel paese. Andò nel nord dove il padre lavorava per dargli la bella notizia. Ma Chukwuemeka dovette ammettere che non ce l’avrebbe fatta a mandarlo all’università. La sede era lontana e non conosceva nessuno lì. Oltre alle tasse accademiche, bisognava pagare le spese di alloggio. Servivano tanti soldi. Mark capì ed andò a lavorare. Rimase riconoscente al padre per quanto aveva fatto. Tant’è che diede al suo primo figlio il suo nome. Poco tempo dopo, si sposò con Agnes. Lavorando in due, riuscirono ad inserirsi subito ad un buon livello economico, tanto da poter aiutare altri parenti bisognosi. Erano due persone che avevano ricevuto un’educazione cristiana e cercavano di metterne in atto i principi. Oltretutto, la tradizione tramandava uno stile di vita che era sempre stato collettivo: nessuno poteva sottrarsi alla rete di rapporti solidaristici che legava coloro che provenivano da uno stesso luogo.

    Emi, venite su, chiamò la signora Ike dalla terrazza, dopo essersi riavuta da quel pensiero che l’aveva trasportata indietro negli anni. Il bambino raggiunse le sorelle e fecero insieme le scale. Anche quando dovevano percorrere una breve distanza, la madre preferiva che stessero insieme. Una volta in casa, le più grandi andarono a fare la doccia mentre Emi rimase con la madre in cucina per essere lavato nel grande catino metallico. Quando la signora lo avvolse nell’asciugamano e lo appoggiò sul letto, sentirono il suono del clacson. Era la Consul ed era Mark che normalmente li avvertiva non appena la macchina varcava il cancello di ingresso del complesso edilizio. Era andato a tagliarsi i capelli che portava sempre corti. Voleva conservare l’immagine del civil servant. Parcheggiò nel garage ed attraversò velocemente la rotonda alberata. Il suo pantalone di cotone leggero, la camicia bianca e la cravatta, erano impeccabili mentre faceva le scale di corsa, saltando anche due gradini alla volta. Entrò nel soggiorno e sedutosi per riprendere fiato, accese la radio. Mentre ascoltava una canzone locale, nella sua mente si andava formando un pensiero: "ọ bụghị ọnye o diri mma tata ka ọ ga adikwa mma echi" – non è per colui a cui va bene oggi, che potrà andar bene domani –. Mark, si guardò attorno e pensò al suo passato. Quella casa enorme, la macchina ed altri beni che aveva, erano dovuti alla sua posizione ed al suo lavoro. Conquistati grazie all’istruzione. Qualcuno tra i parenti e conoscenti che amavano soggiornare nella sua accogliente residenza, e che per ignoranza, aspettavano l’assenza dei bambini per andare a guardare dietro la radio, solo per accertarsi che la voce proveniente da quella ‘scatola’ non fosse di qualcuno nascosto dietro o dentro, erano figli di coloro che rinnegavano l’importanza dell’istruzione e che in passato lo avevano deriso. La scena era sempre divertente ma i coniugi evitavano di ridere. Sarebbe stato umiliante.

    In pigiama, i bambini si presentarono per salutare il loro padre, seduto ad aspettarli per la cena. Emi gli saltò addosso e Mark, in attesa che la tavola fosse pronta, chiese come avessero trascorso il pomeriggio. Cominciarono a parlare tutti insieme.

    Uno alla volta, li esortò il padre, che negli anni, aveva cercato di avere un contatto più vicino con i figli, diversamente dal modello educativo tradizionale, dove ai figli non veniva concesso nessuno spazio di espressione all’interno della famiglia.

    I tuoi figli cresceranno senza rispetto per gli anziani, lo rimproveravano i conoscenti, quando tornava ad Umuabi.

    Yvonne e Sandra rimasero zitte mentre Emi, abituato ad essere al centro dell’attenzione, proseguì raccontando dei grilli che cacciava.

    Ne hai preso qualcuno?, chiese il padre, dimostrandosi interessato.

    No, erano più furbi di me, rispose Emi ingenuamente, provocando la risate delle sorelle.

    Dopo cena, le due ragazze andarono a prendere un libro di racconti da un pacchetto di cinque e lo portarono alla madre. Era l’ultimo regalo ricevuto dai genitori e si esercitavano nella lettura ogni sera con lei. Emi rimase a guardare i disegni, coprendo con la mano le scritte. Infastidite, le sorelle lo invitarono ad andarsene. Si spostò verso il padre, e prendendogli un dito della mano destra, vi sfilò l’anello che usualmente portava. L’anello era stato realizzato da un lontano antenato, Chuka, ed aveva una foggia assai singolare: sulla parte soprastante era infatti scolpito in altorilievo un cavallo al galoppo con la testa rivolta verso l’osservatore. Le cose che colpivano di più erano gli occhi, nei quali c’erano due piccolissimi brillanti. Sin da piccolo, Emi era rimasto affascinato a tal punto dal gioiello che spesso ci giocava, prendendolo dal dito del padre. Altre volte, lo nascondeva, per poi dimenticare dove l’avesse messo, e provocando così la rabbia di Mark.

    Ne voglio uno anch’io.

    Vedremo, perché questo è un anello che mi ha regalato tuo nonno, e gliel’aveva regalato suo padre. È un dono che è passato di mano in mano.

    Dai racconta!, lo esortò Emi.

    Mark prese in braccio il figlio e lo mise a sedere sulle sue ginocchia. Poi cominciò: Un padre di nome Chuka aveva consigliato al figlio, Chibunine, di sottoporsi ad una prova che altri avevano inventato. Alcuni anni dopo, convinto che avrebbe potuto rifiutare quella prova che, tra l’altro, riteneva stupida, aveva regalato questo anello a Chibunine. Per farsi perdonare. Poi l’anello era passato di padre in figlio, fino a giungere a me. Ti è chiaro?, domandò.

    Emi fece cenno con la testa, ed il padre aggiunse: Però, a vedere da come sono andate le cose, aveva agito bene.

    A sentire quel racconto oggi, si penserebbe ad una cosa inventata, intervenne la signora Agnes che conosceva tutta la storia per averla sentita narrare molte volte al villaggio di origine.

    Certo, le fece eco lui, però sappiamo che è realmente accaduto. La tramandazione orale non ammette invenzioni, disse convinto, voltandosi verso i figli.

    Lo trovo molto divertente, disse Yvonne candidamente tirandosi le treccie.

    Non è solo divertente, esiste in questa storia una morale fondamentale, sentenziò la signora Agnes.

    Vedete, iniziò Mark, indipendentemente dall’età e dal ruolo ricoperto all’interno di una famiglia, bisogna avere il coraggio di riconoscere i propri errori. Quando vi avrò raccontato tutta la storia, capirete cosa intendo per rispetto della vita e quanto è importante l’istruzione.

    Ora, però è tardi, aggiunse.

    L’indomattina si sarebbero svegliati presto e lui avrebbe accompagnato Agnes alla S. Maria Primary School dove insegnava e dove studiavano i ragazzi. Poi, si sarebbe recato al lavoro, al Ministry of Posts and Telecommunications, attraversando tutta la città fino a Lord Lugard Avenue. Le due ragazze baciarono i genitori e si alzarono. La signora si avvicinò e prese Emi dalle braccia del marito, dirigendosi verso la zona notte.

    Lei non se ne era resa conto o forse, aveva fatto finta di non essersene accorta, ma lui aveva allungato le braccia con un gesto istintivo. Stava pensando. Le domande del figlio gli avevano fatto ricordare la cerimonia della tramandazione orale. Oltretutto, il narratore era Chukwuemeka, suo padre. Quel giorno apparentemente uguale agli altri era diverso per lui. Secondo la settimana tradizionale di quattro giorni, era un Orie, penultimo giorno della narrazione. Secondo la settimana moderna, era invece un Giovedì e lo tratteneva il lavoro. Suo padre, gli mandava dei messaggi tramite le persone che, da Umuabi, si recavano ogni giorno ad Enugu per lavorare. Mark avrebbe voluto che in vista della cerimonia, loro comprassero più cose, più regali di quanto usavano fare. Doveva ancora parlarne con Agnes. Il loro arrivo era sempre un evento. Di felicità. Vedendoli arrivare in macchina al villaggio suo padre diceva ai suoi coetanei che aver abbracciato le iniziative di padre Golt era stata una buona intuizione. Gli altri morivano di invidia ma non osavano farla vedere. I loro figli sopravvivevano coltivando, cacciando e quando non c’era nulla da fare, bevevano il vino di palma e chiaccheravano come si usava. Per loro, questa era parte della tradizione e

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