Il campo delle ossa
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Anteprima del libro
Il campo delle ossa - Chiara Forlani
IL CAMPO DELLE OSSA
LE INDAGINI DEL FORESTO
LIBRO 2
CHIARA FORLANI
NUA EDIZIONI
INDICE
Citazione
Elenco Dei Personaggi Principali
Cartina
Prologo
Giorno primo
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
Giorno secondo
Capitolo 9
Capitolo 10
Capitolo 11
Capitolo 12
Capitolo 13
Giorno terzo
Capitolo 14
Capitolo 15
Capitolo 16
Capitolo 17
Capitolo 18
Giorno quarto
Capitolo 19
Capitolo 20
Capitolo 21
Capitolo 22
Capitolo 23
Giorno quinto
Capitolo 24
Capitolo 25
Capitolo 26
Capitolo 27
Capitolo 28
Giorno sesto
Capitolo 29
Capitolo 30
Capitolo 31
Capitolo 32
Capitolo 33
Giorno settimo
Capitolo 34
Capitolo 35
Capitolo 36
Capitolo 37
Capitolo 38
Capitolo 39
Capitolo 40
Giorno ottavo
Capitolo 41
Capitolo 42
Capitolo 43
Capitolo 44
Capitolo 45
Capitolo 46
Giorno nono
Capitolo 47
Capitolo 48
Giorno decimo
Capitolo 49
Capitolo 50
Capitolo 51
Nota dell’autrice e ringraziamenti
Biografia
Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono il frutto dell’immaginazione dell’autore. Ogni somiglianza a persone reali, vive o morte, imprese commerciali, eventi o località è puramente casuale.
Tutti i diritti riservati.
Il campo delle ossa – Le indagini del Foresto di Chiara Forlani
Copyright © 2023 Nua Edizioni – un marchio Triskell Edizioni
Immagine di copertina: Stockimo Shutterstock
Progetto grafico: Barbara Cinelli
Prodotto in Italia
Prima edizione Nua Edizioni – marzo 2023
Edizione Ebook: 979-12-81026-00-1
Edizione Cartacea: 978-88-31399-99-9
Là fuori, oltre a ciò che è giusto
e a ciò che è sbagliato,
esiste un campo immenso.
Ci incontreremo lì.
Gialal al-Din Rumi
ELENCO DEI PERSONAGGI PRINCIPALI
(Le donne sono indicate con il cognome del marito, secondo le usanze del 1951)
Sull’Isola Bianca:
Famiglia Malvezzi
Bruno Malvezzi – padre
Doretta Malvezzi – madre
Figli, in ordine di età: Attilio, detto il Foresto, Vincenzo (marito di Lucia Saletti), Valerio, Vanda, Viviana
Famiglia Saletti
Giulio Saletti – padre
Nives Saletti – madre
Figli, in ordine di età: Elvira, Lucia, Anna
Casetta Osti
Ada Osti – madre
Romeo Osti – figlio, detto il Matto
Iris (cognome ignoto) – donna di servizio, forse figlia illegittima di Ada
Casetta Maris
Angelo Maris – fratello di Veronica e figlio del deceduto Umberto Maris, detto il Sacocia
Nel paese di Pontelagoscuro:
Stazione dei carabinieri
Romolo Zeri – maresciallo
Eros Izzo – brigadiere
Emilio Serra – appuntato
Scuola elementare
Adele Sanvitali – maestra
Zuccherificio
Camillo Ferrando – direttore
Vinicio Repetto – vicedirettore
Rodolfo – impiegato, addetto all’accoglienza
Alfonso, Egidio, Nevio – insaccatori di zucchero
Mario – spalatore, compagno di lavoro di Attilio
Bruna, Fernanda – segretarie dei direttori
Nel paese di Francolino:
Arduino Turra, detto il Barbagiàn – esperto di storia locale e cacciatore di frodo
Edvige Turra – moglie
A Ferrara
Comando di compagnia dei carabinieri
Armando Loffredi – comandante della compagnia (capitano)
Appartamento di via Savonarola
Edoardo Saletti
Veronica Saletti (moglie di Edoardo e figlia del deceduto Umberto Maris, detto il Sacocia)
Negozio Da Pace Articoli per signora
Abramo Pace – titolare
Convento di Sant’Antonio in Polesine
Suor Assunta – badessa delle monache di clausura
Palazzo arcivescovile
Don Raimondo – archivista
PROLOGO
C’era tensione nell’aria.
In molti si chiedevano cosa sarebbe successo quando la benna dell’escavatore, il vecchio e potente FB 50 con i suoi enormi cingoli e le funi in acciaio, avrebbe iniziato il lavoro.
La ditta che gestiva lo zuccherificio, meglio conosciuto come La Fabbrica, aveva deciso di costruire una nuova vasca per lo stoccaggio delle acque putride, proprio nel campo delle ossa. Quel luogo abbandonato veniva chiamato così dagli operai, perché tra i tumuli di terra e i cespugli di ogni genere spuntavano spesso ossicini che i cani selvatici portavano qua e là.
Era un agosto torrido come tanti nella pianura padana, con l’aria satura di umidità. I manovali indossavano cappelli di paglia dalla tesa larga, sotto i quali tenevano un fazzoletto sudicio, zuppo di sudore. Le canottiere consunte erano madide, i pantaloni di tela grezza, stretti in vita con una corda, coprivano corpi arsi dal sole. Il cielo era occupato da nuvole grigie che velavano l’orizzonte, non avrebbero portato il sollievo della pioggia, solo una cappa pesante di umidità.
I lavoratori avevano formato un capannello, tiravano il fiato qualche istante per mangiare un tozzo di pane e non si sarebbero persi lo spettacolo per niente al mondo. Non rimasero delusi: appena il mezzo fu messo in moto, nel frastuono del vecchio motore a gasolio accelerato, il campo abbandonato alle sterpaglie si trasformò all’improvviso in un cimitero. Come i braccianti si aspettavano, sotto i colpi della potente benna una grande quantità di piccole ossa emerse dalla terra secca.
L’escavatore diede alcuni colpi decisi, tra la polvere che annebbiava ogni cosa. Innumerevoli, minuscoli frammenti bianchi continuavano a spuntare tra le zolle, disseminati nella terra, che si era trasformata in un’immensa bara scoperchiata.
Il più intraprendente tra gli operai richiamò l’attenzione del manovratore: «Oh, fermo!» urlò, riuscendo a superare con la voce il frastuono prodotto dal vecchio motore. Fu sufficiente; preoccupato da quel richiamo inaspettato, il guidatore scese dal mezzo lasciandolo acceso e si avvicinò per controllare. L’altro continuava a fargli segno con il braccio, indicando allarmato il suolo.
A quel punto l’operatore li vide: ossicini bianchi che spuntavano dappertutto. Si chinò, guardò da vicino; la terra era punteggiata dal candore di quei resti, un impasto macabro che si stendeva come un sudario sul cuore di tutti i presenti.
Le ossa sembravano appartenere a dei bambini. L’uomo prese in mano un minuscolo cranio quasi trasparente, così piccolo da poter provenire solo da un neonato o, peggio, da un feto. Scosse la testa con rabbia, si inginocchiò per posare a terra quella cosa miserevole e farsi il segno della croce, sollevò gli occhi al cielo a invocò Dio. Si rialzò con fatica, mostrando di avere sulle spalle tutto il dolore del mondo, poi ritornò sul mezzo per spegnerlo.
Un silenzio carico di presagi calò sul gruppo degli operai in attesa. Erano in allarme: quale mistero nascondeva quel luogo? Da tempo si ponevano la domanda senza trovare il coraggio di rivolgerla ai loro superiori. Una disobbedienza o troppa curiosità potevano costare care; il lavoro era prezioso, non avrebbero mai corso il rischio di perderlo.
Il manovratore aveva la rabbia dipinta sul volto, era pagato a cottimo e adesso era costretto a fermarsi. Ma non aveva scelta, doveva andare in ufficio da chi gli aveva commissionato gli scavi. Aveva una terribile dichiarazione da fare: la benna dell’escavatore stava profanando un cimitero. Un cimitero di bambini.
GIORNO PRIMO
Agosto 1951
1
L’Isola Bianca stava cambiando. Piano piano, il progresso avanzava.
Era ancora un mondo isolato e fuori dal tempo, situato in un’ansa al centro del Po nei pressi di Ferrara. La grande isola fluviale era emersa in quel luogo da tempo immemorabile, proprio davanti alla golena dove gli Estensi, signori di Ferrara, avevano costruito durante il Rinascimento la loro lussuosa residenza di pesca, della quale non rimaneva traccia. Il grande fiume correva rapido verso la foce e le sue acque in quel punto si aprivano per lasciare spazio a quaranta ettari di terra fertile, in parte ancora ricoperti da foreste, su cui cresceva spontanea una vegetazione selvaggia. I canti e i richiami di ogni specie di uccelli si rincorrevano da un ramo all’altro, fra olmi, salici e pioppi, diventando lugubri di notte, quando i rapaci lanciavano le loro grida dai nidi nascosti, in cerca di una preda da ghermire.
Le famiglie che abitavano in quel luogo dove il tempo si era fermato occupavano due grandi fattorie e una coppia di misere casette. Coltivavano i campi e allevavano un po’ di bestiame. Erano sempre in balìa degli eventi, tutti i giorni scrutavano il cielo in cerca dei segni dell’inevitabile. Il grande fiume poteva riprendersi la loro terra quando voleva, con una piena più violenta del solito. Ogni temporale poteva essere una catastrofe, i più vecchi avevano già visto simili tragedie e vivevano in costante allarme. Riuscivano a capire cosa sarebbe successo dall’odore dell’acqua o dal suono cupo del vento tra le fronde aggrovigliate del bosco.
In quel mondo isolato si viveva ancora come nell’Ottocento, senza corrente elettrica né mezzi meccanici. Altrove, sulla terraferma e nelle città, il futuro avanzava rapido; dopo l’ultima guerra era in atto la ricostruzione e si iniziava a godere di un certo benessere. Gli abitanti dell’isola opponevano una strenua resistenza, ma ben presto si sarebbero trovati anche loro a fare i conti con il progresso.
Adele Sanvitali, di professione maestra, era la portavoce della modernità. Insegnava alla scuola di Pontelagoscuro, paese dal nome sinistro che risaliva, secondo gli studiosi, a un’antica passerella di barche posta su acque tenebrose, tra il centro abitato e l’isola. Da quando Adele e Attilio si erano messi insieme, avevano iniziato l’opera di persuasione al progresso dei due capifamiglia, Bruno Malvezzi e Giulio Saletti, anziani logorati dalla fatica di una vita di sacrifici. Avevano entrambi un carattere scontroso e fino a quel momento erano stati contrari a investire qualsiasi cosa, anche solo i propri pensieri, nella ricerca di un maggior benessere per le loro famiglie. Lavoravano la terra con la forza delle braccia come un tempo, con fatica immensa.
Ma adesso era arrivata lei, la giovane Adele dal carattere dolce ma forte, che agiva come la goccia che scava la pietra. Nelle lunghe serate trascorse sull’isola, mano nella mano con il fidanzato Attilio, chiamato da tutti il Foresto per il suo passato oscuro di vagabondo negli anni del recente dopoguerra, Adele aveva cercato di spiegare a chi le capitava a tiro come sarebbe stato bello avere almeno l’elettricità, in quel luogo sperduto. Si era scontrata con il muro dei più vecchi, in particolare gli uomini, che temevano di andare in rovina spendendo chissà quali somme. Le sue idee, però, avevano fatto breccia nella mente agile dei giovani e delle donne, che erano sempre un passo avanti.
Alla fine, dopo lunghe discussioni a senso unico, i due fidanzati avevano deciso in autonomia di firmare un contratto con la società elettrica, e sulla terraferma erano già in corso i lavori per portare la corrente fino all’imbarco per l’isola. Da quel punto in poi le spese sarebbero state a carico degli abitanti e questo provocava ansie e malumori nei più retrogradi, mentre i giovani avevano aperto la porta del cuore alla speranza, in vista di un futuro meno gramo.
Il Foresto non sapeva se essere felice o preoccupato, anche se aveva a fianco la donna che amava, quella per la quale aveva rinunciato al posto di maestro che gli sarebbe spettato di diritto. Durante la guerra aveva trascorso lunghi mesi all’ospedale militare, in seguito a una grave ferita riportata in modo del tutto accidentale: dalla sua pistola era partito un colpo che lo aveva preso alla testa. Quel gesto da vero incapace lo aveva fatto sentire un fallito. Nessun medico aveva voluto estrarre il proiettile, conficcatosi chissà dove nel suo cranio. Una volta dimesso dall’ospedale, Attilio aveva vagato a lungo, cercando di placare i propri demoni interiori. In quegli anni di vita errabonda aveva toccato il fondo, ma alla fine non aveva avuto scelta, l’unica possibilità concreta era stata quella di fare ritorno sull’isola, nei luoghi dove era nato. Ai suoi occhi era apparsa come una sconfitta, una delusione immensa; era tornato da dove era partito, più selvatico e infelice che mai. L’unico conforto era stato poter lasciare a Adele, venuta dal Sud per quel lavoro, l’incarico di maestra della scuola del paese, nonostante quel posto spettasse a lui, che aveva il diploma e i titoli necessari per svolgerlo. Attilio si era accontentato di fare il pescatore di fiume e il traghettatore, ma adesso era arrivato il momento di prendere qualche iniziativa concreta.
Il Foresto era un giovane di poche parole, ombroso e inquieto. Un gigante muscoloso, dall’aria cupa ma rassicurante, con una gran chioma di capelli scuri. Era dotato di una forza notevole e di un’intelligenza raffinata, ma non l’avrebbe mai ammesso con nessuno. Si limitava a percorrere le strade della vita con gli occhi bassi, in conflitto con se stesso. Ora doveva fare uno sforzo e scuotersi di dosso la sua perenne inerzia.
Adele, la bella maestrina, era riuscita a fare breccia nel suo cuore, ma il Foresto doveva trovare un lavoro, se voleva che il loro rapporto si concretizzasse. Il luogo in cui viveva offriva poche opportunità, aveva pensato anche di emigrare, magari andando a inseguire la fortuna nelle Americhe come avevano fatto in tanti. Ma si era reso conto che provava un amore struggente per quella terra selvaggia, dove anche Adele aveva messo radici.
Come se non bastasse, nell’aria c’era la minaccia di un nuovo conflitto: si parlava di guerra fredda. Attilio, con ironia, sperava che la guerra si mantenesse congelata a lungo, nonostante il caldo che percepiva in quella torrida estate. Si augurava che Russia e Stati Uniti, con i loro paesi satelliti, non fossero così scriteriati da far esplodere nuove ostilità, che sarebbero state un’ecatombe per tutti. Per lui in particolare, che non avrebbe sopportato né una nuova chiamata alle armi, né di essere bollato come un vigliacco renitente.
L’unico piacere che si concedeva era la collaborazione con il suo amico maresciallo, Romolo Zeri. Il militare non era un brillante investigatore e in passato Attilio lo aveva aiutato con un certo successo, ma alla fine aveva dovuto tirarsi indietro, lasciando che il carabiniere si prendesse ogni merito. Anche quella soddisfazione gli era stata tolta: nei momenti più cupi, il giovane pensava che al mondo non ci fosse posto per uno come lui.
2
Proprio in quei giorni, Attilio stava lambiccandosi il cervello per capire come trovare un lavoro qualsiasi, ma non poteva sapere che la sorte aveva già in serbo qualcosa per lui. Il suo amico maresciallo stava arrivando in quel momento sull’isola con la barca a motore dei carabinieri. Il Foresto lo vide sopraggiungere mentre era impegnato a sistemare le reti da pesca sulla riva. Zeri era accompagnato dall’appuntato Emilio Serra, un giovane sordo da un orecchio a causa di un’esplosione avvenuta durante la guerra. La caserma di Pontelagoscuro disponeva di un organico piuttosto malconcio; anche il brigadiere Eros Izzo, il militare che di solito era di piantone, aveva riportato una grave ferita durante il recente conflitto e perciò zoppicava in modo evidente.
Maledetta sorte! Qui la fatica è tanta ma il benessere non arriva mai, stava pensando Attilio, con la mente accecata dal risentimento. Cercava di rinfrescarsi bagnando con l’acqua del Po la sua chioma indomabile, che a volte assomigliava a un groviglio di serpi. Provò un refrigerio momentaneo e si calmò, ma non fece in tempo a finire quel pensiero che il maresciallo, suo ex compagno di scuola e attuale dirigente della caserma di Pontelagoscuro, lo chiamò a gran voce dalla barca. Attilio si girò verso di lui, vide l’ansia dipinta sul volto dell’amico e la sua angoscia crebbe.
Per calmarsi, il Foresto ipotizzò che il carabiniere fosse reduce da una delle frequenti liti coniugali. Di recente Zeri aveva rinunciato al proprio trasferimento, e questo aveva scatenato le ire della moglie. La promozione era la naturale conseguenza del brillante successo conseguito nel caso dell’omicidio del vecchio Umberto Maris, detto il Sacocia, un usuraio odiato da tutti gli abitanti dell’Isola Bianca.
Il maresciallo non voleva lasciare Pontelagoscuro e la campagna rigogliosa che circondava il paese. Nei momenti di libertà si spingeva sulle rive del Po, dove amava perdersi all’inseguimento di qualche animale selvatico, armato di binocolo e di macchina fotografica, una Rolleiflex ultimo modello della quale andava fiero. La moglie invece avrebbe voluto trasferirsi in città, per offrire più stimoli al loro figlioletto, ma Zeri aveva opposto una strenua resistenza. Sarebbero rimasti a vivere nel paese ricostruito da poco, dopo che un terribile bombardamento aveva raso al suolo l’abitato, poco prima che la guerra finisse.
Quel giorno Zeri appariva sofferente, il suo aspetto era ben diverso da quello del giovane aitante che Attilio aveva conosciuto ai tempi della scuola. Sembrava amareggiato e nervoso.
«Attilio, vieni qua. Ho ancora bisogno di te,» disse ad alta voce il maresciallo, e il Foresto iniziò a preoccuparsi. Cosa voleva da lui? Non poteva lasciarlo in pace, una buona volta? Iniziava a sentirsi sfruttato da quell’amico, che a volte gli sembrava un incapace.
La giornata era torrida, l’aria era immobile e una cappa umida si stendeva su ogni cosa. Solo le cicale trovavano la forza di farsi sentire: emettevano senza tregua la loro nenia assordante, nascoste tra i rami più alti degli alberi che occupavano parte dell’isola. La natura selvaggia resisteva a ogni tentativo di disboscamento da parte dell’uomo.
Se i due carabinieri avevano avuto l’ardire di arrivare fin lì proprio a mezzogiorno, orario improponibile a causa della canicola, dovevano avere motivi più che validi, altrimenti sarebbero rimasti a sventolarsi al fresco della loro caserma.
Attilio aveva una singolare capacità: era in grado di intuire i pensieri delle persone che lo circondavano. Quando meno se lo aspettava, veniva colpito da una sorta di percezione involontaria. Si era fatto mille domande sulle cause del suo dono segreto, e alla fine lo aveva collegato al proiettile che portava conficcato nel cervello. Quell’inconsueta potenzialità si era presentata subito dopo l’incidente. Forse, durante il lungo ricovero all’ospedale militare, si era creato un ponte immateriale tra lui e gli altri, una comunicazione attraverso il pensiero, che il Foresto non aveva mai voluto rivelare a nessuno. Oppure era stata solo la lunga permanenza in branda, la possibilità di osservare indisturbato ogni minima reazione dei suoi simili, a renderlo così acuto. Attilio non lo avrebbe mai saputo, né era certo che quell’attitudine gli fosse utile. Spesso gli faceva provare le ansie altrui in aggiunta alle proprie e gli provocava ulteriore sofferenza. Ma la guerra gli aveva fatto quel dono terribile e lui doveva tenerselo.
In quel momento il giovane entrò in contatto con la mente dei militari che stavano arrivando sull’isola. Vi trovò sentimenti cupi: smarrimento e paura uniti a un coro incessante di voci nefaste. Il timore di quello che stava per succedere gli attanagliò lo stomaco come una morsa.
Il maresciallo gli faceva segno di avvicinarsi alla barca, perciò il giovane lasciò cadere con un sospiro la rete che stava riparando e andò sul pontile, in modo da essere a portata di voce. L’appuntato Serra spense il motore, fece un cenno di saluto e girò