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I vessilli del cielo
I vessilli del cielo
I vessilli del cielo
E-book337 pagine4 ore

I vessilli del cielo

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Info su questo ebook

Montségur, 1244. La fortezza dei Catari è sotto assedio. I nuovi Crociati di Luigi IX sono pronti a scon- figgere per sempre l’eresia. Aymeric di Belissen, valoroso condottiero cattolico, ma dalla parte degli oppressi, e Guiraut de Bernat, trovatore alle prime armi, combattono gli usurpatori per motivi diversi. Guiraut per la libertà della sua terra, Aymeric per amore di Beatriz, che per seguirlo ha abbandonato all’ultimo l’altare. Purtroppo, il promesso sposo era l’arrogante giustiziere dell’inquisizione. E non di- menticherà l’affronto. Finché non sarà lavato nel sangue. Dalla grande Storia alle piccole vicende di uomini e donne che parlano un linguaggio universale, immu- tato nello spazio e nel tempo: l’amore.
LinguaItaliano
Data di uscita3 nov 2017
ISBN9788863937565
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    Anteprima del libro

    I vessilli del cielo - Elga Battaglini

    ORME

    frontespizioVessilli

    Elga Battaglini

    I vessilli del cielo

    ISBN 978-88-6393-756-5

    © 2011 Leone Editore, Milano

    www.leoneeditore.it

    mappa_Vessilli

    Ad Alice

    Bel companho issetz al fenestrel

    et regardatz las ensenhas del cel;

    conoisseretz si.us soi fizels messatge;

    si non o faitz vostres n’er lo dampnage

    Et ades sera l’alba

    Guiraut De Borneil

    Bel compagno, recati alla finestra

    e osserva i vessilli del cielo;

    saprai allora se sono fedele come messaggero.

    E presto sarà l’alba.

    Preludio

    Habet acht!

    Habet acht!

    Bald entweicht die nacht.¹

    R.Wagner, Tristan und Isolde, atto II

    Ottobre 1234

    L’autunno era appena iniziato, ma già una spessa brina aveva coperto nella notte i campi lungo le sponde del Lasset. Il canto monotono del torrente, nella fredda mattina, era rotto a tratti dalle voci animate di due ragazzi che percorrevano a cavallo il sentiero che costeggiava l’argine e dai latrati dei cani al loro seguito. Era quella la prima volta che a dodici anni Aymeric e Guiraut, avevano il permesso di uscire a caccia da soli. Due lepri e una pernice facevano già bella mostra di sé sulla sella di Guiraut, ma la loro segreta speranza era riuscire a far ritorno al castello con almeno una bestia grossa: un cinghiale o un capriolo. Erano usciti alle prime luci dell’alba. Ermengarde, la madre di Aymeric si era raccomandata a lungo con loro prima di decidersi a lasciarli andare: «State attenti» aveva detto consegnando ai ragazzi una bisaccia da sella piena di viveri. «E cercate di ritornare prima che sia notte!» L’avevano salutata distrattamente e avevano sellato i cavalli, in fretta. La donna era rimasta a lungo sulla soglia, a guardarli, finché le loro agili figure in sella ai robusti cavalli non erano scomparse tra la fitta vegetazione. Sospirando era rientrata, cercando di ignorare il nodo che le serrava la gola. Non riusciva a fare a meno di essere in pena, temeva cattivi incontri ogni volta che si allontanavano, che abbandonavano le mura sicure tra le quali erano cresciuti.

    Da sempre Ermengarde aveva fatto da madre a entrambi. Anni prima, i genitori di Guiraut, ferventi seguaci della chiesa catara, venuti a sapere che era prossimo il loro arresto, avevano tentato la fuga verso la Lombardia. Il bambino aveva appena sette o otto mesi e la madre, temendo i rischi del viaggio, aveva preferito affidarlo a lei. Ermengarde ricordava bene quella sera: l’amica era tornata indietro più volte a salutare il piccolo, incapace di resistere al modo in cui egli accoglieva, con risa di gioia, la sua ricomparsa nel vano della porta.

    «Portalo via» aveva detto infine, voltandosi per nascondere le lacrime. «Portalo via o non riuscirò più ad andare.»

    Quella notte stessa li attendeva l’arresto e il giorno seguente il rogo. Era stato quello il motivo per cui Ermengarde e il marito Othon De Belissen, appartenente a un ramo cadetto dei Conti di Foix, nei giorni successivi avevano a malincuore preso la decisione di lasciare la loro abitazione di Caudeval per trasferirsi a Montségur, come la maggioranza dei membri e dei vassalli della famiglia. Là, dove i catari avevano trovato rifugio fin dai primi anni delle persecuzioni, non avrebbero corso il rischio di fare la fine degli amici. I beni della famiglia di Guiraut erano stati confiscati e invano Othon aveva a lungo perorato la causa del piccolo presso la curia locale perché potesse rientrare in possesso dei propri averi. Egli, d’altronde, cataro dichiarato, era già in pessimi rapporti con il vescovo e i suoi alleati, e solo grazie alla presenza e alla mediazione di Ermengarde, la cui famiglia era notoriamente legata alla Chiesa di Roma, la situazione per il momento non degenerava. «Sapevano di avere un figlio» era stata la fredda risposta dell’amministratore del vescovo alle sue insistenze. «Dovevano pensarci, invece di perseverare nell’errore. Se avessero tenuto al suo bene non l’avrebbero abbandonato con tanta leggerezza. Quale madre veramente cristiana lascerebbe in tal modo il proprio bambino? Un simile comportamento non fa altro che confermare la natura diabolica delle azioni di quella gente.» Così era stato bruscamente liquidato. I possedimenti di Guiraut erano rimasti nelle mani dei nuovi signori insediati in quelle terre dai capi della Crociata e a nulla erano valsi i ripetuti tentativi da parte di Othon di far valere i suoi legittimi diritti.

    Negli anni successivi Othon non aveva più lasciato Montségur. Ermengarde, invece, non avendo niente da temere perché cattolica, trascorreva i freddi mesi invernali a Caudeval, con i ragazzi. Ma Aymeric e Guiraut preferivano la residenza paterna.

    L’atmosfera che vi si respirava era più eccitante per loro. Passavano le giornate a sognare battaglie e gesta eroiche, a inscenare interminabili tenzoni, a esplorare i sotterranei del castello. Ultimamente avevano deciso, segretamente, di restare lassù anche durante l’inverno ormai imminente. L’avevano riferito a Othon, che si era detto d’accordo, pur avendoli pregati di attendere il momento giusto per comunicarlo alla madre. Quelle uscite senza adulti, sosteneva, erano un ottimo inizio per dimostrarle che ormai erano giovani uomini, capaci di decidere da soli della propria vita.

    I due ragazzi si erano addentrati nel bosco. I raggi del sole cadevano ormai perpendicolari tra il fitto fogliame. Giunti in una radura, nei pressi di una sorgente, decisero che era ora di fermarsi a mangiare. «Ho una tal fame che mangerei quella pernice, con le piume e tutto!» Aymeric sciolse i lacci della bisaccia con impazienza. «Guardiamo cosa c’è qua dentro.» Ermengarde aveva preparato pane, formaggio, noci e, come a sottolineare il fatto che non erano più bambini, perfino del vino in una piccola borraccia di pelle. Seduti su grossi massi disposti in circolo, forse da altri che ne avevano fatto lo stesso uso, mangiarono chiacchierando vivacemente mentre i cani gironzolavano attorno, addentando le croste che Aymeric gettava tra l’erba. D’improvviso uno di loro parve fiutare una traccia. Colto da un’improvvisa frenesia partì, il muso basso, frugando con il naso nel sottobosco e mugolando di eccitazione, subito imitato dal resto del branco. I due amici balzarono in piedi e si gettarono anch’essi all’inseguimento. Aymeric impugnava la balestra. Era un capriolo, giovane. Li precedeva a lunghi salti, zigzagando, sollevando il terriccio con le zampe posteriori, senza fatica apparente. Presto scomparve nella macchia. Corsero a lungo, addentrandosi sempre più nel folto della boscaglia, dove anche i raggi del sole faticavano a penetrare. I loro piedi affondavano fino alle caviglie nel tappeto di foglie morte mentre si facevano strada a fatica tra i cespugli. La vegetazione era così fitta che furono costretti ad avanzare con le braccia attorno alla testa per ripararsi dai graffi dei rami più bassi. I latrati dei cani si fecero più vicini. Si erano fermati, forse l’avevano preso. Poi lo videro: aveva tentato di saltare uno sperone di roccia, ma era caduto malamente, spezzandosi le zampe anteriori. Tentava di rialzarsi, volgendo attorno gli occhi folli di terrore nella disperata ricerca di una via di fuga; il torace dell’animale si alzava e si abbassava velocemente, nel morbido collo le vene in evidenza pulsavano all’impazzata e un lungo tremito convulso lo scuoteva a intervalli regolari. I cani abbaiavano in preda all’eccitazione, tentando a tratti di azzannarlo.

    Aymeric corse verso di loro richiamandoli all’ordine, ma abituati com’erano ai comandi di Othon, non lo ascoltarono. Cercò allora di scacciarli prendendoli a calci, ma quelli si ribellarono, ringhiando e tentando di morderlo. Sconvolto, impugnò la balestra. Doveva finire il capriolo, in fretta. Tentò di prendere la mira ma non ci riuscì. L’urgenza che lo animava rendeva i suoi gesti scomposti, impedendogli di agire correttamente. Tese l’arma a Guiraut, le mani malferme. «Fai presto» gridò. «Liberalo!» Tracce di pianto incrinavano la sua voce. Guiraut fece un cenno di assenso. Lentamente, con gesti fermi e sicuri, prese la mira. La balestra scattò. Un lieve sussulto, nient’altro. Si voltò sorridendo verso l’amico. «Visto? Dritto al cuore.»

    Aymeric, il volto rigato di lacrime, fissava il tappeto di foglie morte, le guance in fiamme per la vergogna. «Non so cosa mi è preso» mormorò. «Non lo so proprio.»

    Guiraut gli circondò le spalle con un braccio: «Lascia perdere, non è niente». Credeva di conoscere il motivo del suo turbamento.

    Tornarono in due su un cavallo, la selvaggina sull’altro. Dalla cattura del capriolo non avevano più detto parola, ciascuno perso nei propri pensieri. Fu Guiraut a rompere il silenzio. «Pensi ancora a quel condannato a morte?» chiese. Aymeric chinò la testa. «A volte» rispose quasi impercettibilmente, come temendo che il suono della propria voce potesse svegliare i fantasmi evocati.

    Era stato quattro anni prima: in un giorno di fiera Othon li aveva condotti a Tarascon per comprare dei cavalli. Erano partiti assai prima dell’alba, le stelle ancora alte nel cielo. Cullati dal movimento del calesse e scaldati dalla tiepida notte estiva, i due bambini si erano riaddormentati.

    Li aveva svegliati il frastuono della fiera. Abituati com’erano al silenzio delle loro montagne, erano rimasti entrambi senza fiato davanti a tutto ciò che si offriva alla loro attenzione. Dappertutto era un tripudio di colori, suoni, odori. Carretti di merci variopinte, stoffe, drappi di seta e velluto, broccati, pelli d’agnello e di scoiattolo e poi stivali, pezze di cuoio di Cordova, bisacce e cinture, piccoli orci d’olio dal Rossiglione, otri dell’ottimo vino locale, fasce di lino per neonati, teli di canapa, matasse di lana, ceste, lame del Vicdessos e ancora falcetti, rastrelli, pennati… per non parlare degli animali: cavalli, asini, maiali, pecore e capre, oche e galline starnazzanti levavano al cielo un fracasso infernale. L’odore dei loro escrementi si mescolava, nell’aria calda dei vicoli, agli effluvi delle spezie in vendita, dei cibi e del vino offerti dalle taverne. Dappertutto rumore, grida, musica. Venditori che decantavano le loro merci, artigiani che mostravano il proprio lavoro, indovini che promettevano la fortuna, carrettieri che, in preda ai fumi del vino, cantavano a gran voce versi scurrili. Mentre sgranocchiavano i dolcetti di frutta secca e miele che Othon aveva comprato, Aymeric e Guiraut, vagando per le strade della cittadina, avevano ammirato i guitti che si esibivano nelle piazzette.

    Erano rimasti a bocca aperta davanti al mangiafuoco e all’uomo che camminava sul tappeto di chiodi e sulle braci ardenti, avevano sgranato gli occhi un po’ intimoriti nel vedere le prostitute che, imbellettate e vestite di colori sgargianti, offrivano i loro servigi emettendo un sibilo tra i denti.

    Poi, mentre l’attenzione di Guiraut veniva catturata da una rissa tra alcuni giocatori di dadi di fronte a una taverna, Aymeric aveva scorto il carro del condannato a morte ed era corso al margine della strada. Una curiosità morbosa mai provata prima l’aveva spinto, nonostante il senso di allarme crescente, a salire su un muretto per sporgersi a osservare meglio quel disgraziato, le cui sembianze a causa delle torture subite avevano ormai ben poco di umano.

    Nel silenzio irreale calato improvvisamente sulla fiera, un uomo a cavallo proclamava a gran voce che quella era la punizione che attendeva coloro che offrivano aiuto ai nemici della fede. La figura spettrale di un frate, alto, magro, vestito di un saio grigio scuro, seguiva il carro salmodiando con voce monotona.

    Avevano scelto di proposito quel giorno di festa, per impressionare il maggior numero possibile di persone.

    Othon, accorso appena realizzato ciò che stava accadendo, il volto pallido e contratto per l’ira, aveva trascinato via i due bambini, ma non era riuscito a impedire al figlio di avvicinarsi troppo allo sventurato il quale, forse credendolo qualcun altro, si era riscosso dal suo torpore e in un parossismo di terrore e disperazione, gli aveva afferrato le mani supplicandolo di aiutarlo.

    Aymeric si era svegliato più volte gridando quella notte.

    Nei giorni successivi era caduto ammalato, gravemente. Grosse bolle dolorose, accompagnate da una febbre altissima gli erano comparse sulla lingua, estendendosi rapidamente al palato e alla gola, tanto da rendergli impossibile nutrirsi in alcun modo. A nulla erano valsi, per giorni, i ripetuti tentativi di curarlo. Invano Ermengarde l’aveva costretto a sciacquarsi la bocca con aceto nel quale era stata messa a macerare della salvia, né aveva ricavato giovamento dal decotto di ortica per fugare la febbre, preparatogli dalla cuoca, la stessa che due o tre volte al giorno, nel tentativo di abbassargli la temperatura, gli spalmava le piante dei piedi e delle mani con polvere di cumino mischiata a olio d’oliva.

    Un giorno, infine, era giunta Brune, la vecchia nutrice di Ermengarde. Ritiratasi al suo villaggio natale dopo essere stata per lungo tempo al servizio della famiglia, veniva talvolta a farle visita, approfittando dell’occasione per togliere il malocchio ai bambini, di nascosto da Othon, il quale, da buon cataro, detestava ogni forma di superstizione. Era una donna di oltre ottant’anni, ingobbita, dal naso adunco e le mani ossute. A eccezione dei canini, era completamente priva di denti e ciò le conferiva un aspetto tutt’altro che rassicurante. I bambini scappavano a nascondersi quando la vedevano arrivare. La sua figura sinistra e le innumerevoli pratiche superstiziose con le quali li assillava, avevano finito per renderla detestabile ai loro occhi. Una volta, quando avevano quattro o cinque anni, li aveva spaventati a morte, spiegando loro che le scintille che sprizzano dai ceppi accesi altro non erano che le anime dei dannati imprigionate nel legno. Non sentivano forse come dal ceppo uscissero talvolta dei gemiti lamentosi, mentre bruciava? Guai a coloro che si trovavano lì vicino, quegli spiriti inquieti potevano vendicarsi del trattamento subito. Per lungo tempo nessuno dei bambini aveva più tollerato di restare da solo in una stanza con il camino acceso.

    Quel giorno, con l’aria di saperla lunga, era entrata nella stanza dove giaceva il piccolo, dimagrito oltre misura, pallido come un morto ad eccezione di due rosette sugli zigomi che nulla avevano di sano, ma erano piuttosto il segno della febbre incessante. Accanto a lui Guiraut, combattuto tra il desiderio di fuggire e quello di restare accanto all’amico, osservava attento e immobile tutti i movimenti della vecchia, con occhi resi enormi dalla paura. Ella, tratte dalla tasca del grembiule un paio di minuscole forbici, aveva tagliato le unghie alla mano destra dell’ammalato, raccogliendole accuratamente nel proprio palmo rugoso. Infine le aveva poste sotto il naso del levriero di Othon che dormiva tranquillo, accucciato sulla soglia della stanza. Il cane aveva sollevato la testa e, annusatele distrattamente, si era rimesso a dormire.

    «Dieu venez et sia» aveva sentenziato la vecchia, fissando negli occhi Ermengarde. «No es sperance de guerir.»

    Quella sera Othon ed Ermengarde avevano avuto una lunga discussione sull’opportunità di far somministrare al piccolo un sacramento e soprattutto sulla natura di quest’ultimo: Ermengarde, infatti, pur deprecando in privato la condotta del clero, non aveva mai aderito alla fede del marito. «Ricordati che non permetterò mai che tu lo obblighi all’endura! Non resterò a vedere mio figlio morire di fame e di sete!» aveva gridato tra le lacrime al marito che tentava di convincerla a far consolare il piccolo. Avevano litigato a lungo, gli animi esasperati dal timore di perdere il figlio. Poi, fortunatamente, la fibra forte e già temprata di Aymeric aveva iniziato a reagire, mostrando piccoli segni di miglioramento, lievi, dapprima, poi sempre più marcati. Il bambino si era ripreso e fra i coniugi era tornata la pace. Anche Guiraut aveva passato giorni difficili. Durante la malattia di Aymeric aveva sentito Othon raccomandare al castellano Raimon De Pereille di aumentare gli uomini di guardia ai piedi della montagna su cui si ergeva il castello. Aveva realizzato fin troppo bene qualcosa che aveva sempre vagamente intuito: il padre adottivo e tutti coloro che si trovavano lì rischiavano la stessa sorte di quel disgraziato alla fiera. Un giorno, mentre Aymeric ancora convalescente dormiva, aveva confidato le proprie preoccupazioni a Ermengarde. La donna l’aveva rassicurato affettuosamente. «Qui siamo al sicuro» aveva detto. «Montségur è praticamente inespugnabile.» E da valente narratrice qual era, gli aveva raccontato di come all’inizio del secolo, quando i catari professavano liberamente la propria fede, il perfetto Guilbert De Castres avesse ottenuto il permesso di riedificare il castello da tempo in rovina per farne un luogo di culto. Pochi anni dopo, all’inizio della crociata era giunto lassù il più famoso architetto militare della regione per trasformare quella sorta di santuario arroccato in montagna nella più imprendibile delle fortezze.

    Il suo lungo racconto aveva distolto Guiraut dai suoi timori, dissolvendoli in parte. Lentamente, nei giorni successivi, la vita era tornata alla normalità. Per quanto normale potesse essere il clima di terrore e di reciproco sospetto che aleggiava nei villaggi della vallata. Ma il ricordo del condannato a morte non li aveva mai più abbandonati.

    Non che, prima di quel giorno, i due bambini non fossero stati consapevoli della minaccia che pendeva su di loro.

    Ne erano fin troppo dolorosamente coscienti.

    Sapevano la storia della guarnigione del castello di Cabaret ai cui componenti, fatti prigionieri, Simon De Montfort aveva fatto cavare entrambi gli occhi. Sapevano di Guirade De Laurac, la nobildonna catara che i crociati avevano gettato in un pozzo, impedendo a chiunque di avvicinarsi, per giorni, fino a quando i lamenti, la cui eco saliva sempre più debole dalle profondità del pozzo, non si erano spenti.

    Sapevano dell’arte di generare il terrore.

    Ma quelle vicende, quei racconti carpiti durante le veglie davanti al fuoco nelle lunghe sere invernali, erano lontani nel tempo e nello spazio e per questo si tingevano di mitico, stemperavano nel fiabesco. Nelle loro coscienze infantili essi andavano a sovrapporsi alle leggende sulla carretta dei morti che con rumore di tuono lontano vagava nelle buie notti di novembre; sui defunti che durante la notte venivano a visitare i parenti e sostavano nella foganha per scaldarsi accanto alle braci, cercando sollievo dal gelo eterno che li tormentava; sulla gaveca che veniva ad appollaiarsi sui davanzali quando qualcuno stava morendo, aspettando di prendergli l’anima; sulle scorribande notturne delle donne morte di parto che andavano in gruppo a vendicarsi dei viventi dei quali erano invidiose e che la vecchia Na Ferriera, la messaggera delle anime di Belesta, amica di Brune, sosteneva di aver visto più volte avanzare fiere, tenendosi sottobraccio nel vento, con i ventri prominenti e una smorfia di scherno sui giovani volti.

    La vista di quel condannato a morte aveva aperto i loro occhi sulla realtà. Niente sarebbe più stato come prima.

    Si lasciarono il bosco alle spalle. Le mura del castello erano già in vista.

    «Pensavi a lui quando i cani hanno attaccato il capriolo, è così?»

    Aymeric annuì, pensoso. «Quello sguardo» mormorò «c’era la stessa disperazione, la stessa richiesta di aiuto in quello sguardo. Ma tu» concluse sollevato, voltandosi verso l’amico «tu hai messo fine a tutto».

    Dalle Novas de lo mio Senhore Aymeric De Belissen et di quanti con lui in quelli anni vissero e rectamente operarono ne la comtea di Foix contra iniquità et injustitia di Guiraut De Vals (ca. 1222-1300).

    Negli anni che seguirono tali fatti, Aymeric De Belissen crebbe in statura e intelletto, e di lì a poco, fattosi uomo, non v’era in tutta la regione alcuno che fosse suo pari in virtù e grazia, coraggio e nobiltà. Uomini e donne assai lodavano la sua prestanza e i modi suoi cortesi e parimenti la sua pietà cristiana. Forte con i forti, umile e misericordioso con i deboli, egli crebbe giusto in tutto a onore e paraggio di sua stirpe e di sua terra. E malgrado non nutrisse le medesime credenze del casato paterno, essendo stato allevato dalla Santa e Venerabile madre nella vera e giusta Fede, egli sempre adoperò pietà e misericordia verso quelli che, smarrita la retta via, vagassero in quei giorni in cerca dell’Iddio Buono e Giusto. E sopra tutto, mai concesse la sua benevolenza a quanti elevavano la Fede a pretesto e giustificazione per la tirannia che esercitavano su le nostre terre, anzi, sempre essi combatté in tutti i modi a lui possibili. E poiché giustizia genera giustizia e virtù genera virtù, molti per suo merito ritrovarono il vero Iddio e alla Chiesa sarebbero tornati, se essa stessa anziché praticare iniquità e ingiustizia, li avesse in suo seno riaccolti come Madre Santa e Misericordiosa. Io Guiraut De Vals attesto che quanto da me narrato risponde a verità. E ciò rende vieppiù crudele ciò che da tale Chiesa venne al mio Signore il quale mai la tradì né a Lei rinunziò.


    1 Attenti! / Attenti! / Presto cede la notte.

    1

    Beatriz

    Tan fo clara

    ma prima lutz

    d’eslir

    lei don cre·l cors los huelhs²

    Arnaut Daniel

    Novembre 1240

    Da due giorni sulle torri del castello erano state inalberate le insegne del lutto. C’era un viavai incessante di uomini e donne lungo l’aspro sentiero che conduceva al grande portale d’ingresso. Erano contadini, pastori, artigiani e nobili dei dintorni, che sfidando il vento e la pioggia battente avevano risalito la montagna per recarsi a porgere l’ultimo saluto a uno dei membri della famiglia che, da decenni, offriva loro la sua protezione dalle vessazioni del clero e dei suoi alleati.

    Era stata una caduta da cavallo, durante una ricognizione nei dintorni, a recidere dall’ordito il filo della sua vita e le circostanze di quell’evento ne avevano accentuato il clamore: si mormorava, infatti, di un’imboscata tesa a Othon. Non era il tipo d’uomo da cadere in quel modo e aveva tanti di quei nemici… Quelle uscite a cavallo si prestavano fin troppo bene agli scopi di chi volesse tendergli un agguato. Tutti sapevano che egli era solito aggirarsi da solo per le proprie terre, sfidando il pericolo. «Nessuno, in nessun tempo o luogo, è mai riuscito a sottrarsi al proprio destino» replicava risoluto a chi insisteva perché si portasse dietro degli uomini di scorta. «E poi, non trovo giusto mettere a rischio la vita dei miei subalterni. Non riuscirebbero a impedire la mia morte e morirebbero anche loro. A che scopo?»

    Quell’incidente, dovuto al caso o organizzato che fosse, non sarebbe potuto cadere in un momento più inopportuno. Si stava segretamente organizzando una rivolta armata, tesa a riconquistare i territori acquisiti dalla corona di Francia. Al centro della rete intessuta dai capi della congiura, c’era il conte di Tolosa ma, essendo questi sotto lo stretto duplice controllo di Roma e della Corona, l’organizzazione aveva luogo principalmente a Montségur. In quel luogo isolato e incontrollabile la resistenza catara, oltre a praticare senza timore i propri culti, poteva, a fianco della nobiltà occitana alla quale era ormai indissolubilmente legata, tessere indisturbata le proprie trame politiche e militari. Il momento era vicino ormai, presto i nemici sarebbero stati cacciati e la vita sarebbe tornata quella di un tempo.

    Nella vasta sala centrale Aymeric riceveva le condoglianze dei visitatori. Toccava a lui quel giorno fare le veci del capo della famiglia. Peire Rogier di Mirepoix, comproprietario del castello, in quei giorni in missione segreta a Tolosa, aveva fatto circolare la voce di essere ammalato, al punto di non potersi neppure alzare dal letto. Invece, il conte di Foix, cugino di Othon, non si recava lassù che di rado e in gran segreto, essendo anch’egli sotto la stretta sorveglianza nemica.

    Molti tra i convenuti erano ansiosi di avere informazioni sulla condotta futura del casato nei loro confronti. Tali preoccupazioni nascevano dal fatto che era noto a tutti come Aymeric avesse sempre seguito l’esempio della madre la quale, stroncata da una febbre maligna poco più di un anno prima, non aveva mai aderito alla fede del marito. Egli rassicurava

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