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La bambina e la listrunga. Il segreto della felicità
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La bambina e la listrunga. Il segreto della felicità
E-book137 pagine1 ora

La bambina e la listrunga. Il segreto della felicità

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Info su questo ebook

In un periodo compreso tra gli anni bui delle due guerre mondiali e quelli radiosi del boom economico, ai piedi delle colline della Brianza, si svolgono le vicende di una delle ultime comunità contadine di quei luoghi. L'antica corte, fatta di case di ringhiera, è il cuore del piccolo villaggio agricolo. "Al suo interno si provava la sensazione di stare in un mondo a parte, una sorta di bolla sospesa nello spazio, dentro la quale vecchi, adulti e bambini, intrecciavano le loro vite, quasi dimentichi del mondo esterno". Aneddoti allegri e avvenimenti drammatici si susseguono con ritmo vivace, sullo sfondo di abitudini e tradizioni locali che Giulia rivive con nostalgia, ma anche gettando uno sguardo critico su alcuni aspetti della società dell'epoca. Tra i numerosi personaggi spicca la figura del padre. "Aveva realizzato un'altalena dalle funi lunghissime e mi spingeva in alto fino al cielo. Le sue forti mani sapevano trattenermi, ma anche spingermi via con forza. Quei gesti erano la metafora di un modo di educare, il suo, che ha fatto di me una donna serena e coraggiosa".
LinguaItaliano
Data di uscita1 mar 2016
ISBN9788893320573
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    La bambina e la listrunga. Il segreto della felicità - Giulia Lissoni

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    1

    Una cascina

    in mezzo ai campi

    Il villaggio e la stradella

    Se ripenso alla mia infanzia, mi viene in mente la stalla del nonno. E mi sembra di essere lì, accanto a un vitellino appena nato, che mi guarda con occhi malinconici, mentre a fatica si regge in piedi sulle zampe tremolanti.

    Davanti alla stalla rivedo un’altalena dalle funi lunghissime con me sopra. Mio padre, felice, mi spinge in alto fino al cielo e una grande emozione mi toglie il fiato.

    Pianta della Cascina Dosso

    Abitavamo in una cascina¹ di campagna, nell’ultima pianura ai piedi delle colline della Brianza. Attorno, distese di campi coltivati. Più lontano, verso nord, l’incanto dei monti con le cime quasi sempre imbiancate.

    Poco distante, la strada provinciale tracciava una linea parallela alle montagne raggiungendo, a est, un paesino dalle abitudini ancora rurali: Albiate, a ovest, una cittadina dove negozi, botteghe artigianali e piccole industrie avevano appena preso il posto dell’agricoltura: Seregno.

    A circa metà strada tra i due paesi, una stradella sterrata usciva dalla provinciale voltando le spalle alle montagne per dirigersi a sud, verso il villaggio agricolo Cascina Dosso. Qui giunta, si trovava improvvisamente chiusa tra due alte mura. Erano le pareti di due corti² antiche: da una parte la piccola Curt di Briusch con una bella torretta merlata e un imponente portone di legno, dall’altra la Curt Granda che, su quel lato, non offriva alcuna possibilità di accesso, affacciandosi alla stradella con le sole finestre. 

    Per entrare nella Curt Granda, bisognava abbandonare la stradella e svoltare a sinistra prima di quelle mura. Si giungeva, così, al portico che dava accesso al grande cortile, dove c’era casa mia.

    Sul lato opposto della corte, un bel portichetto soleggiato portava alle stalle, accanto alle quali si ritrovava la stradella, che aveva ormai superato le mura e proseguiva sfiorando, a ovest, altre due corti: la Curt di Mundura e la Curt di Valà, per poi uscire dalla cascina e allontanarsi perdendosi nei campi.

    Poteva sembrare una strada insignificante ma, proprio ad essa, le amministrazioni dei due comuni avevano assegnato l’importante ruolo di confine tra le due giurisdizioni. Pertanto, l’umile stradella, nata per unire, si trovava, suo malgrado, a dividere.

    Era una divisione che non si limitava ai soli aspetti amministrativi, ma causava importanti ricadute sociali dovute a una burocrazia che, quasi fosse un’entità animata, aveva acquisito la capacità di agire autonomamente oltrepassando i confini del suo mandato, fino a invadere i più numerosi ambiti della quotidianità.

    Accadeva, infatti, che per frequentare la scuola o farsi visitare dal medico della mutua, gli abitanti della Curt Granda, situata a est della stradella, erano tenuti a recarsi ad Albiate dove, per opportunità, sbrigavano diverse faccende quali: fare la spesa, pagare le bollette o altro. Al contrario, gli abitanti delle tre corti a ovest si recavano per obbligo e per opportunità a Seregno. Perfino la frequentazione della chiesa per la messa della domenica e per gli altri sacramenti era condizionata da quel confine, anche se da un’altra burocrazia.

    Non so se tale situazione fosse percepita come svantaggio, ma erano gli anni ’60, l’invisibile cortina di ferro divideva l’Europa occidentale da quella orientale e nessuno si curava di una stradella di campagna che divideva un così umile sobborgo.

    Quel che ricordo è l’armonia tra gli abitanti delle due giurisdizioni, tra le corti e dentro le corti; un’armonia fatta di solidarietà e di amicizia vera, che il tempo e la lontananza non hanno dimenticato.

    Il passato

    I primi documenti che testimoniano l’esistenza della cascina risalgono al XVIII secolo e descrivono un solo edificio abitativo sito tra Albiate e Seregno che, a seguito di ampliamenti, assunse la struttura di corte e il nome di Curt Granda.

    La corte e le terre circostanti appartennero, in tempi diversi, a due ricche famiglie locali, ma erano gestite da contadini affittuari, che coltivavano cereali e allevavano bachi da seta; gente povera e mite che, dal duro lavoro dei campi, non ricavava nemmeno lo stretto indispensabile per il sostentamento.

    Sul finire del XIX secolo, la proprietà venne divisa in due parti: la parte est fu venduta agli stessi inquilini, quella ovest fu donata all’ospedale Fatebenefratelli di Milano, che lasciò la gestione degli immobili agli stessi contadini affittuari.

    Risale al secolo XIX anche l’origine della corte più piccola, inizialmente residenza estiva di una ricca famiglia milanese, in seguito affidata in gestione ai Briusch, la famiglia di viticoltori dalla quale prese il nome.

    La Curt di Mundura e la Curt di Valà, che ospitavano alcune famiglie di piccoli proprietari, furono realizzate alla fine dello stesso secolo.

    ¹ Tipo d’insediamento agricolo dell’Italia settentrionale, costituito da un complesso di fabbricati distinti (abitazioni, stalle, fienili, ambienti vari), raccolti intorno ad uno o più cortili

    ² Edificio tipico delle campagne lombarde, fatto di abitazioni raccolte attorno ad un cortile

    2

    Prima di me

    Nomi, nomignoli e soprannomi

    Tutte le famiglie della cascina avevano un soprannome ereditato in linea maschile. Quello della mia famiglia paterna era Marioeu; perciò mio padre era conosciuto come Luigi di Marioeu.  La famiglia di mia madre, invece, era soprannominata Naut.

    Alle singole persone si attribuiva anche un nomignolo, che poteva essere una storpiatura del nome o del diminutivo o il diminutivo stesso. Così, Antonio diventava Togn; Lazzaro, Zarin; Giovanni, Giuanin o Gianin oppure Gianinu.

    Era, però, Giuseppe il nome sul quale si scatenava la più sfrenata creatività, che lo aveva trasformato in Giusepp, Pepp, Pepin, Pino, Pinin, Pinucio, Pinela, Zep, Zepin, Zepasc.

    In famiglia, i figli anteponevano il prefisso Pa’ o Mam’ al nome dei genitori. Ciò, unitamente all’uso del Voi, conferiva ai padri e alle madri una dignità particolare, che sottolineava l’importanza del ruolo. Dunque, i famigliari di nonno Enrico si rivolgevano a lui chiamandolo Ricu, da ragazzo e Pa’ Ricu, da padre di famiglia, mentre gli altri continuavano a chiamarlo Ricu di Marioeu.

    C’erano, poi: ul Togn di Cugnoeu, la Sunta di Canz, la Maria di Miritt, ul Vitori di Valà, ul Carlin di Mundura e altri ancora.

    Ovunque bellezza

    Enrico, il nonno paterno, aveva chiesto la mano della Pina tramite il fratello di lei, che era il suo più caro amico, e Pina aveva risposto perentoriamente: «Mi fò quel che disen i me!». Io faccio quel che dicono i miei. Disse così, ma tra i due c’era già una sottile intesa o, a dirlo come allora, già si parlavano.

    Si sposarono il 2 febbraio 1913 all’età di ventun anni lui e diciannove lei e, com’era d’uso, il nonno portò a casa la sposa il giorno successivo alle nozze.

    Nonno Enrico era un uomo tranquillo e sereno, dallo sguardo furbetto, ma non beffardo, affettuoso, ma senza smancerie, soprattutto, era un uomo gentile e tutti gli volevano bene. Aveva il raro dono di riconoscere la bellezza e di saperla inventare. Tutto ciò di cui si occupava diventava più bello: l’orto, i fasci di grano, le fascine di legna, perfino la buccia della mela.

    Sbucciava il suo frutto preferito cominciando dal picciolo e continuava, piano piano, tutto intorno fino al calice, senza staccare mai il coltello, per ottenere un’elica sottile e regolare, che esibiva come un trofeo a noi bambini facendola oscillare. Nell’orto, dedicava sempre uno spazio ai fiori e, sul davanzale della camera da letto, non ne mancava mai un mazzo per la sua Pina.

    Dato che i proventi della terra non bastavano a mantenere la sua

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