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Il cristallo e la balena
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E-book178 pagine2 ore

Il cristallo e la balena

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Eunan Maxwell è un giovane archeologo del mare esperto in relitti navali. Dopo essere stato coinvolto in un progetto di ricerca europeo, l’Università Libera di Berlino lo ha incaricato di analizzare i reperti rinvenuti negli alloggi degli ufficiali di una baleniera basca del quindicesimo secolo, affondata di fronte all’Irlanda, nella baia di Galway.
Lo scozzese, spronato dall’approssimarsi della scadenza del suo contratto e costretto a fare i conti con la scarsità di risultati finora conseguiti, decide di prendere in prestito alcuni di questi reperti e di coinvolgere nella sua indagine i coinquilini.
Quattro giovani con cui Eunan non condivide solo gli spazi abitativi ma anche interessi, speranze, delusioni, amori e passioni, precarietà: una basca appassionata di filosofia, una ricercatrice italiana in fisica, un giapponese studioso di moda e di balene, un bavarese con il talento di saper aggiustare qualunque cosa.
Il giovane archeologo rivela che in particolare è un reperto a lasciarlo perplesso: una sorta di mattoncino sghembo di color bianco grigiastro, che somiglia a un insignificante blocco di sale duro, grezzo, sporco e tutto rigato. Di cosa potrebbe trattarsi? Cosa un ufficiale a bordo di una baleniera potrebbe avere custodito con tanta cura nei propri alloggi?
Risolvere l’enigma, in compagnia degli amici, finirà per rappresentare per ognuno di loro un viaggio nel tempo e nello spazio, dal Medioevo a oggi, da una parte all’altra dell’Europa, attraverso scienza, filosofia, natura, esoterismo e società segrete: occasione di un percorso di crescita e presa di consapevolezza.
LinguaItaliano
Data di uscita10 giu 2021
ISBN9788832928891
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    Il cristallo e la balena - Charlotte Ossicini

    (1885-1962)

    1

    Berlino. Cacciatori di balene e cacciatori di tendenze

    Tornando in metropolitana, a Berlino, dal quartiere di Dahlem al suo appartamento a Kreuzberg, in Oranienstrasse, quella sera di un venerdì di fine settembre, Eunan Maxwell era disperato, ma allo stesso tempo anche estremamente lucido. Seduto, come sempre, nel primo vagone ascoltava musica attraverso le cuffie e, mentre, con la mano destra, si tormentava continuamente la sua rossa barba lunga e squadrata, con la sinistra teneva ferma una grande sacca grigia ben stretta fra le sue gambe.

    Aveva trascorso l’intero pomeriggio gironzolando per una stanza del Museo etnologico, quella enorme sala al pianterreno dedicata alle imbarcazioni costruite nei Mari del Sud. Ammirare quelle meravigliose barche con le loro strane vele triangolari e immaginare come gli abitanti di quelle lontane terre fossero stati capaci di viaggiare per l’immenso Oceano Pacifico, senza sofisticati strumenti di navigazione, riuscendo a raggiungere una dopo l’altra tutte le isole, per quanto grandi o piccole esse fossero, lo aiutava a riflettere. E in quella sala, negli ultimi tempi, si era rifugiato ogni qual volta doveva prendere una decisione difficile.

    Fin da bambino il suo giocattolo preferito era stato il mappamondo. Aveva trascorso molte ore a osservarne la metà occupata dalle acque del Pacifico e, quando aveva scoperto che i polinesiani consideravano l’oceano come un tutt’uno con il cielo e le sue disperse isole nient’altro che delle stelle, l’idea dei loro viaggi fra gli astri era diventata per lui una specie di felice ossessione, il centro dei suoi interessi e delle sue letture. Per navigare i polinesiani usavano la conoscenza del cielo stellato e sfruttavano la direzione delle onde. Possedevano carte nautiche costruite con corde e conchiglie, carte che riportavano le variazioni del moto ondoso dovute alla presenza delle isole. Il loro motto era: Se sai leggere il mare allora non ti perderai mai. Era per questo, per il desiderio di imparare a leggere il mare e per vincere la paura di perdersi, che Eunan bambino era diventato un giovane archeologo del mare, esperto in relitti navali.

    Eunan aveva studiato e si era dottorato a Edimburgo, la sua città natale. Era orgogliosamente scozzese, ultimo di quattro fratelli, e guai a chiamarlo Adam, il corrispettivo inglese di Eunan. Anche perché il suo nome significava piccolo Adamo e lui ci si riconosceva appieno, per via della sua poca statura. Adesso si ritrovava a vivere in Germania, a Berlino. Dopo essere stato coinvolto in un progetto di ricerca europeo, fra i cui partner c’era l’Università Libera di Berlino, aveva ora un contratto di lavoro a termine in quell’Università, la cui sede è a Dahlem. Ed erano proprio gli sviluppi delle sue indagini ora a tormentarlo e quella sacca grigia, stretta fra le sue gambe, era una parte importante di quest’angoscia. Eunan sapeva che il posto di quella borsa non era accanto a lui, ma che quella bisaccia apparteneva, invece, alla stanza dei reperti dell’Istituto di Archeologia dell’Università. Portandola con sé stava facendo qualcosa di sbagliato, qualcosa che avrebbe potuto pagare molto caro, ma non vedeva altra scelta, doveva trovare a tutti i costi una soluzione.

    Spostarsi da Dahlem a Kreuzberg, in metropolitana, non rappresenta soltanto un lungo viaggio attraverso la città, oltre tre quarti d’ora, forse il tempo giusto per ripensare alla giornata di lavoro passata e prepararsi a una nuova serata, ma è anche un trasferirsi da un mondo a un altro, completamente diversi. Dahlem è all’estremo sudoccidentale di Berlino, vicino al grande lago Wannsee. Il quartiere, inizialmente un villaggio, già da prima della Seconda guerra mondiale era divenuto la zona delle ville, dei centri e dei laboratori di ricerca scientifica, delle belle e grandi case, immerse nel verde, dei ricchi borghesi e dei professori universitari. Kreuzberg, in centro, è invece un quartiere popolare cresciuto all’inizio del Novecento, entrato a far parte della grande Berlino negli anni Venti del secolo scorso ed è da sempre una zona di immigrazione. Inizialmente Kreuzberg era stato popolato dai tantissimi transfughi, fra cui molti ebrei, provenienti dai territori persi dalla Germania alla fine della Prima guerra mondiale. Era così diventato un quartiere ricco di Fabriketage, grandi piani fabbrica, atelier per la produzione di diverse merci, fittamente popolato da operai e piccoli commercianti, un quartiere vivacissimo durante la repubblica di Weimar. Dopo la sconfitta del nazismo, negli anni della guerra fredda, gli anni della divisione della Germania e della sua antica capitale, si era poi ritrovato a essere l’estrema propaggine di Berlino ovest, circondato dal muro su più lati e si era trasformato nel quartiere degli immigrati turchi, delle persone a basso reddito e degli studenti universitari. Fino alla caduta del muro chi studiava a Berlino Ovest evitava il servizio militare. I suoi abitanti erano giovani, donne e uomini che riempivano i suoi grandi edifici ricchi di mattoni a vista, sopravvissuti ai bombardamenti e ora un po’ fatiscenti, dotati di un cortile interno e muniti di appartamenti con stanze dall’alto soffitto e, soprattutto, caratterizzati da costi bassi per l’affitto.

    Arrivato nel suo appartamento, nella sua Wohngemeinschaft, la sua comune, Eunan si sedette al grande tavolo nella Berliner Zimmer, quella stanza centrale, tipica delle vecchie case popolari, mezzo salotto e mezzo corridoio, che metteva in connessione tutte le diverse camere dell’appartamento. Nascose la borsa sotto il desco e aspettò che i suoi diversi coinquilini rientrassero a casa e che, come al solito, si radunassero in quella sala per parlare di quanto successo durante il giorno trascorso, in attesa di decidere cosa fare per cena e come trascorrere la serata.

    Quando tutti furono presenti, Eunan issò sul tavolo la pesante sacca, si arricciò un ciocco della sua fitta barba, e domandò: Sapete qual è il più grande e importante museo del mondo?

    Nessuno si stupì della richiesta, Eunan spesso poneva strani quesiti per saggiare le risposte e vedere l’effetto che le sue successive spiegazioni generavano. Amava raccontare storie e, anche se qualche volta si ripeteva, ai suoi amici non dispiaceva ascoltarle, gli volevano bene e si poteva sempre imparare qualcosa.

    Subito Walther esclamò: Il British Museum a Londra, o lo Smithsonian a Washington!

    Walther Lieffert, un ragazzone alto due metri dai capelli biondi lunghissimi, ai piedi nudi indossava sempre e solo due ciabatte infradito sia d’estate che d’inverno, felicemente gay con una chiara preferenza per uomini imponenti e barbuti, si era trasferito a Berlino dal suo paesino della Baviera per sentirsi più libero. Nel quartiere aveva aperto un’officina per la riparazione e l’assemblaggio delle biciclette. Walther era un fixer, un patito delle biciclette a scatto fisso, le fixed, quelle biciclette super essenziali ed ecologiche, che hanno un solo rapporto e sulle quali non è possibile pedalare a vuoto, per cui bisogna sempre far girare i pedali onde poter andare avanti. In poco tempo era in grado di trasformare il rottame di una qualsiasi bicicletta normale in una fixed coloratissima e personalizzata e partecipava con furore a tutti i raduni e le ciclopasseggiate che gli appassionati organizzavano in città. Walther aveva delle mani enormi, delle mani d’oro. Era capace di smontare e rimontare qualunque cosa a occhi chiusi. La lavatrice non funzionava più, ecco che lui la riparava al volo, un computer faceva le bizze, lui smanettava un po’ e tutto era di nuovo a posto.

    No, Occam, deduzione sbagliata, gli rispose Eunan. Occam era il soprannome che i coinquilini avevano appioppato a Walther e che a volte usavano per prenderlo in giro. Il rasoio di Occam era la sua metafora preferita. La usava continuamente per sottolineare come la soluzione di tutti i problemi stesse spesso e volentieri nella spiegazione più semplice, inutile formulare ipotesi sempre più complesse. Walther non aveva studiato, ma la storia, in particolare quella delle filosofie naturali e della scienza, era una sua vera passione.

    Fu allora che intervenne Inar: Il Louvre a Parigi!

    Inar Goigoechea, una piccola e irrequieta, non stava mai ferma un attimo, minuta ragazza basca di Donostia, mai dirle che veniva da San Sebastian, aveva studiato storia e filosofia all’Euskal Herriko Unibertsitatea, l’Università del suo paese. Era un’esperta di Andoni Izaguirre Insausti, un oscuro filosofo della Bilbao del Seicento, profondamente pessimista, noto solo per aver intrattenuto una fitta e infervorata corrispondenza, parte in latino, parte in tedesco, con Gottfried Wilhelm Leibniz, il grande filosofo; una corrispondenza incentrata sul migliore dei mondi possibili. Non riuscendo a trovare lavoro in Spagna, Inar era arrivata da diciotto mesi a Berlino e si manteneva preparando e servendo gustosissimi panini in una Kneipe, un pub di Prenzlauer Berg, un quartiere della ex Berlino est, il quartiere considerato ora il più giovane e dinamico d’Europa. Nelle ore libere, Inar trascorreva molto tempo nelle sale dell’Accademia delle scienze di Berlino, erede dell’Accademia prussiana, sale poste all’interno di un grande e vecchio edificio in Jägerstrasse nel quartiere Mitte, un luogo facilmente raggiungibile a piedi da Oranienstrasse. Spesso intenta a compulsare le opere di Leibniz, che quell’Accademia aveva fondato nel Millesettecento, e i suoi bizzarri carteggi con il triste Izaguirre Insausti.

    Contrariamente al soggetto al centro dei suoi studi, Inar era sempre allegra. Bastava la sua semplice presenza per mettere di buon umore tutta la casa e i suoi abitanti, anche nei momenti più difficili. Malgrado la piccola statura, la sua voce aveva un che di baritonale. Inar era una fumatrice accanita. Per non disturbare gli altri, quando non riusciva più a resistere, si rifugiava nella sua stanza, accanto alla finestra aperta, dove preparava manualmente le sue sigarette, usando delle cartine e un tabacco dal gusto molto forte, per poi fumarle avidamente. Ogni volta che le capitava di tossire veniva ripresa amabilmente da Walther, che, forse perché le loro corporature erano così differenti, aveva sviluppato un vero e proprio senso di protezione nei suoi confronti e tentava disperatamente di convincerla ad abbandonare il suo vizio.

    Inar rispondeva gaiamente: E tu, fratellone, preoccupati delle venti tazze di caffè nero che ti spari quotidianamente nello stomaco.

    No, il Louvre no, sbagliato anche questa volta. Il nome del mio museo comincia per emme, intervenne risoluto Eunan.

    Moma, New York! gridò subito Marcella, mostrando la stessa faccia bella e furba e gli occhi neri allegri, che aveva ogni volta che, giocando con gli altri a Scarabeo, un modo per saggiare la loro conoscenza del tedesco, riusciva a costruire una parola che le fruttasse un gran numero di punti. Marcella Borelli veniva da Roma, da una famiglia molto numerosa, si era laureata in fisica e poco dopo il termine dei suoi studi aveva iniziato a lavorare presso una banca della capitale, intenta a fornire profili di quei clienti che richiedevano un prestito. Il suo compito consisteva nella raccolta ed elaborazione dei dati relativi al richiedente e nella loro analisi al fine di predirne i comportamenti futuri e l’affidabilità. Le era sempre piaciuto lavorare con i numeri ed era un’ottima programmatrice, ma presto aveva cominciato a sentirsi un’algocrata, una persona intenta a quantificare e a classificare mediante algoritmi la vita delle persone e aveva iniziato a temere di contribuire alla creazione di un nuovo regime di disuguaglianza, in cui tutti noi siamo costantemente valutati e confrontati rispetto agli altri e in cui dobbiamo continuamente riuscire a fornire performance numeriche sempre migliori. Per cui, alla prima occasione, aveva deciso di emigrare all’estero per svolgere un dottorato e ora si occupava di proprietà elettroniche e ottiche delle nanostrutture presso il Paul Drude Institut für Festkörperelektronik, un istituto berlinese dedicato all’elettronica dello stato solido.

    Guai, però, a parlarle di fuga dei cervelli. I cervelli non scappano da nessuna parte, stanno sempre dentro i crani, era la sua immediata risposta, sono le menti che semplicemente decidono di andare dove le prospettive sono migliori. Lei e Eunan, con un’entrata mensile intorno ai mille e trecento euro, erano considerati dagli altri coabitanti i capitalisti della compagnia.

    Da qualche mese era nata una storia tra di loro. Marcella, più alta di Eunan e con una folta capigliatura nera, ridendo amava ripetere che, a forza di spiegare che un nanometro è semplicemente una misura di lunghezza che corrisponde esattamente alle dimensioni di un milionesimo del diametro di un capello o di un pelo di barba, aveva finito per innamorarsi di un piccoletto calvo e barbuto. Eunan, affetto da incipiente calvizie, per evitare le sofferenze di una lenta caduta dei capelli aveva, infatti, deciso di raparsi completamente a zero e si radeva in maniera maniacale la testa, un giorno sì e l’altro pure, mentre lasciava crescere impunemente la sua barba. O forse, aggiungeva Marcella, si era semplicemente invaghita del suo cognome, Maxwell. James Clerk Maxwell era stato il più grande fisico dell’Ottocento, il teorico della luce e delle onde elettromagnetiche, uno scozzese barbuto anche lui.

    Per Eunan queste semplici battute di spirito rappresentavano delle vere e proprie dolorose fitte che lo colpivano al cuore e, anche adesso, mentre guardava Marcella, gli ritornavano in mente le tante discussioni di questi ultimi mesi. Non capiva perché lei si rifiutasse ostinatamente di trasferirsi nella sua stanza o perlomeno di accettare il trasloco di lui nella camera di lei. Marcella, da una parte, sosteneva di tenere molto alla sua indipendenza e alla possibilità di avere un posto in cui rifugiarsi e, dall’altra, adduceva la presenza di Briciola, il suo gattone tigrato, molto diffidente, che stava sempre nascosto da qualche parte nella sua stanza, per apparire improvvisamente solo ed esclusivamente quando Marcella era presente. Ora era proprio lì, sdraiato sulle ginocchia di lei, intento a produrre le sue potenti fusa.

    Non è neanche il Moma! disse, dopo un po’, soddisfatto Eunan. Gli piaceva far aspettare a lungo le sue risposte, assaporava le attese degli altri; e

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