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I segreti delle case
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I segreti delle case
E-book191 pagine3 ore

I segreti delle case

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Info su questo ebook

A volte, la volontà è più forte del destino; a volte, il destino è più forte della volontà. Malgrado questo, l'amore può essere così forte da trasformarsi in una verità in grado di superare le paure e i limiti delle incomprensioni, andando oltre ogni compromesso che ostacoli il sentimento, al di là del destino. Alessio Sanna (Olbia, gen. 1985). Altre sue pubblicazioni : "E nel silenzio taccio la tua assenza"
LinguaItaliano
Data di uscita23 mag 2023
ISBN9791221468694
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    Anteprima del libro

    I segreti delle case - Alessio Sanna

    CAPITOLO PRIMO – I SEGRETI DELLE CASE

    LA CASA SULLA SCOGLIERA

    La vecchia donna in lutto percorreva un piccolo sentiero sterrato che solo lei conosceva. Portava con sé una brocca rudimentale di terracotta, vuota. Si muoveva a fatica, bassa e curva, i capelli grigi raccolti dietro il capo in una matassa sfilacciata.

    Ma quel mattino di marzo, il vento era tornato a scorrazzare festoso, prendendosi gioco della vecchia e del suo lutto. I capelli si sciolsero e cominciarono ad agitarsi. Il vestito si gonfiò come la vela di una antica fregata alla deriva. Sembrava una pazza, che si spingeva avanti contro il vento, unico compagno–nemico.

    La stradina era stretta, precaria ormai, mentre l’erba cresceva verde e lunga ai lati, cercando il cielo azzurro. Più in là, la quiete arborea: fresca, ombrosa, piena di vita. Le fronde degli alberi si lasciavano accarezzare dal vento, come per volerlo seguire. La vecchia aveva smesso di avventurarsi nel bosco sin dai tempi in cui aveva ancora tutti i denti in bocca, ed ora che non ne aveva più nessuno si affidava a quella piccola stradina, perché la conducesse alla fonte. Lì raccoglieva l’acqua da portare ai fiori del suo giardino, che in realtà non ne avevano bisogno. Ma lei, sola nel giardino del suo cuore, si era convinta che quei fiorellini non potessero vivere senza le sue cure e la sua acqua. Questo le dava un motivo per vivere, e a questo motivo lei si aggrappava con tutte le sue forze. Nonostante tutto, non se la sentiva di morire.

    Il tragitto non era lungo, ma la vecchia era costretta ad impiegarci del tempo, soprattutto quando tornava alla casa d’intonaco e pietra, con la brocca straripante d’acqua, ché la vita le pesava più che all’andata. Quando raggiunse la fontanella aveva il fiato corto. Sedette su una roccia in attesa di sé. Portò gli occhi cerulei davanti ai pensieri che scorrevano, lenti e silenziosi, nello spazio della sua mente antica, concedendosi di ricordare. I capelli volavano da tutte le parti, ma lei non fece il minimo tentativo per fermarli. Fissava malinconica lo scorrere dell’acqua, viva e scherzosa. L’aria fresca s’infiltrava dentro il vestito, accarezzandole la pelle come una mano invisibile. Questo la aiutò a riprendersi, e così si inginocchiò davanti allo scorrere implacabile del ruscello, in cerca della sua trasparenza. Il vestito si macchiò della terra che stava alla base della brocca. La vecchia non se ne accorse. Tornò in piedi per completare la sua missione giornaliera, lenta e grave.

    Quella sera, sedendo sull’orlo del letto, si accorse della macchia di terra sul vestito nero e la prese fra le mani, osservandola quasi con attenzione. Con un gesto silenzioso la mandò via. Posò il vestito sulla sedia di paglia e si portò sotto le coperte di lana consumate dal tempo, mentre la pioggia batteva forte sul tetto e sui vetri serrati della finestra, come la sera prima.

    I segreti delle case

    Il giorno dopo la vecchia donna morì. S’inclinò su un fianco mentre compiva lo stesso percorso. Lasciò cadere per terra la brocca piena d’acqua e crollò sull’erba, sotto lo scorrazzare allegro del vento e le ciocche grigie che volavano. Lasciò che il suo respiro affannato cessasse, guardando l’erba incredibilmente vicina, che le sfiorava il viso. Il suo corpo si raffreddò lentamente, e su di esso crebbe l’erba, rigogliosa e fitta.

    Il piccolo ruscello scendeva regolarmente lungo la vallata e andava a finire in mare, con una breve cascata fra le rocce salate. Lì, sulla costa, spuntava una casa bianca, dalle persiane celesti sbiadite. Posava solitaria su uno sperone roccioso ed aveva una bella panoramica. Lo sperone era attraversato da una lunga scala di cemento, che scendeva dalla casa ad un piccolo tratto di spiaggia, immergendosi fra stormi di gabbiani, che andavano a posarsi sulla sabbia e sui gradini. Ogni sera, la casa assisteva al tramonto del sole, assumendo tinte arancioni sulle pareti, mentre i gabbiani, felici, le planavano attorno. Sarebbe diventata una zona conosciuta, in tempi migliori, ma allora in pochi la conoscevano, e gli unici padroni restavano i gabbiani e quella casa isolata e senza tempo.

    Nell’oscurità delle sue stanze silenziose, la casa custodiva una storia sconosciuta, cristallizzata in un tempo ormai trascorso, che viveva e moriva in sé stesso senza che nulla cambiasse.

    fine del capitolo

    CAPITOLO SECONDO – I SEGRETI DELLE CASE

    MICOL, AGNESE, CINZIA, MINA E LAURA

    Era un mattino di agosto. Il mare era splendido. Immergere le mani in quelle acque limpide e calme era come accarezzare un manto soffice di petali di rose. Creava una meravigliosa sensazione di freschezza e conforto.

    Micol era una signora di sessant’anni, con una certa corposità affascinante. Un insieme di curve decadenti, e le guance grandi e vellutate di una lieve peluria bianca. La pelle avvallata sulle palpebre, rendendole dolci e nostalgiche nello sguardo, e la fronte ampia, sorvegliata da una criniera grigia gonfia, da leone imperlato. Non riusciva a privarsi di quella profonda e silenziosa sensazione di benessere. Se ne stava seduta con prudenza su una roccia, con i piedi e le mani in acqua. Non portava un costume da mare, ma un tailleur rosa, senza calze. Fu una delle poche volte in cui le dispiacque indossare un tailleur. Le sue amiche coetanee non avevano avuto neppure il coraggio di togliersi le scarpe. Erano quattro, e avevano una personalità meno brillante di Micol. Tutte e quattro avevano i loro piccoli ma evidenti difetti, mentre lei, che conosceva bene i propri, cercava di non farli vedere. Intanto continuava a muovere le mani in acqua, come in cerca di pagliuzze d’oro. Agnese la chiamò dalla spiaggia asciutta. Nel bel mezzo di un breve tratto di spiaggia c’era una tavola pieghevole, preparata a pranzo, colma di ogni ben di Dio, a cui tutte avevano contribuito. Tolta la tavola, le sedie e le cinque signore, la spiaggia era deserta, coi gabbiani in alto mare e il rumore placido delle onde.

    Agnese era la sorella di Micol. Era stata suora, fin quando i fratelli non decisero di portarla via dal convento, dove non poteva vedere nessuno, diventando poi infermiera. Tra lei e la sfera spirituale restava tutt’ora una certa alchimia. Fra le due, Micol e Agnese, la somiglianza fisica era abbastanza evidente, quasi con l’aumentare dell’età... Il tempo e l’età le avevano avvicinate ancora di più. Micol lasciò a malincuore la sua roccia nel mare, ma ebbe il conforto di un pranzo appetitoso in vista. Intanto la signora Mina, seduta alla tavola con la signora Cinzia, pensava a quanto fosse invecchiata negli ultimi tempi Laura. Tutt’e tre erano antiche conoscenti di Micol. Mina era vedova da una vita e vestiva sempre di nero, con una pettinatura elaborata e vecchia e il viso bonaccione. Cinzia, fra le cinque signore, era la più carnosa, ma mangiava in maniera assai ristretta e si vergognava un po’ della propria invadenza fisica. Con le quattro amiche si sentiva a suo agio, e rideva moderatamente e con frequenza. Laura, in effetti, nell’ultimo periodo aveva perso molto della sua vasta mole, facendosi più rugosa e più spenta nell’espressione, sebbene nulla del suo carattere esuberante fosse cambiato. Da questo fatto aveva tratto molte comodità, perciò, dal canto suo, si riteneva apertamente soddisfatta.

    La tavola di Agnese si dimostrò impeccabile come quella di casa. Ognuna aveva dimostrato la propria abilità in cucina, portando il piatto migliore, e la propria abilità nel degustare, quando tutt’e cinque si furono messe a sedere. Erano avvezze ad organizzare uscite, i preparativi erano diventati un modus operandi ed ognuna ormai non doveva preoccuparsi del lavoro dell’altra. Uscite regolari ed argomenti poco impegnativi, quanto bastava loro per cambiare aria e trascorrere il tempo in spensieratezza.

    Micol tornò con le mani e i piedi in acqua. Cinzia aveva trovato il coraggio di sfilarsi le scarpe dilatate e d’immergere anche lei le gambe fra le rose. Si misero l’una dirimpetto all’altra su due rocce abbastanza vicine, ed avviarono una piacevole conversazione. Mina, Laura e Agnese portarono tre sedie dove la sabbia cominciava a farsi bagnata, promettendosi di lavarle non appena rientrate, per non rovinare il legno, e sedettero. La profondità della sabbia raggiunta da ogni sedia sembrava dare una misura del peso di ciascuna delle tre donne. Il secondo gruppetto avviò pure una conversazione. Una domanda unì i due gruppi, finendo tutt’e cinque coi piedi in acqua. Qualche ora dopo, decisero di avventurarsi a piedi nei dintorni. Iniziarono a percorrere la costa, con l’acqua alle ginocchia e le scarpe in mano. Trattenevano le gonne, ma a lungo andare si bagnarono lo stesso ed allora lasciarono la presa.

    Ad un certo punto la costa si fece alta e rocciosa e quasi tutte furono sul punto di tornare indietro. Micol si guardò attorno, cercando un corridoio di rocce basse fra il mare e la scogliera grigia e lucida. Lo trovò e lo indicò alle altre.

    – Passeremo per queste rocce – disse.

    Tutte la guardarono e lei le guidò in modo da non franare in acqua.

    Per tutto il tratto già percorso non aveva incontrato nessuna anima, e nessuno fu ad attenderle nel piccolo tratto di spiaggia a cui approdarono, dopo un centinaio di metri. Il tratto di spiaggia era davvero minuscolo e suggestionò molto la vista di una scala di cemento che dal basso s’impennava lungo i fianchi di un grosso sperone roccioso, stretta e a picco sul mare. La sua struttura sembrava vincere le leggi della gravità e con quell’impressione alcune signore si sentirono troppo pesanti e troppo larghe. La più coraggiosa fu Micol, che sventolò un fazzoletto bianco quando raggiunse l’apice. Nessuna ebbe il coraggio di alzare gli occhi per guardarla. Lei le aspettò svitando il tappo del thermos che aveva portato preventivamente con sé, insieme ad alcuni bicchierini di plastica, più da gettare che da usare, pensava lei.

    Tutte furono in vetta, sorseggiando il tè con aria ancora tesa. Sopra lo sperone avevano scoperto una terrazza bianca panoramica e una casa dalle persiane celesti. La scala acrobatica doveva far parte della struttura, perché non esisteva altro modo per accedere al terrazzo, a parte il vecchio portone di quella casa. Erano in trappola. Micol se ne rese conto prima delle altre. Tornare su quella scala per scendere sarebbe stato un suicidio, per questioni di equilibrio e di vertigine, e per l’assenza di una ringhiera che proteggesse dallo strapiombo. Nemmeno lei si sentiva in grado di farcela. Cancellò mentalmente l’esistenza di quella scala e cercò una soluzione alternativa. Ma quella terrazza è un trampolino di lancio e l’unica via d’uscita era il vecchio portone, col suo colore naturale di quercia. Micol entrò in trattative per aprirlo. Controllò la serratura e cercò di spingerlo con moderazione. Era normale che fosse chiuso. Doveva esserlo da molto tempo, si vedeva a colpo d’occhio. Anche le due persiane erano chiuse. sembravano gli occhi della casa, con le palpebra abbassate, defunte. Mina la guardò con la sua solita aria bonacciona, in attesa di annuire. Micol le rispose con uno sguardo dignitoso.

    – Dobbiamo aprirlo. –

    Le altre tre si voltarono, cercando di chiarirsi la situazione. Acconsentirono tacitamente, come se non ci fosse null’altro da dire. Con una forcina provarono ad aprire il portone massiccio. Resisté silenzioso ad ogni tentativo. Laura propose di sfondarlo in qualche modo. Cinzia si tirò indietro, pensando che qualcuna potesse rimetterci le ossa, e anche Mina era del parere che fosse rischioso, ma Micol no. Micol la trovò come l’unica soluzione possibile, e decise di esporsi a quel rischio personalmente. L’idea di una simile prodezza la enfatizzava. Responsabile di se stessa, sedette sul pavimento della terrazza e si sdraiò, con le gambe ritirate, proprio davanti al portone. Agnese la guardò preoccupata, ringraziando il cielo che la sorella aveva indossato le scarpe adatte per un’azione simile.

    – Stai attenta – le disse.

    Micol la guardò un istante con la faccia gonfia e arrossata, che sembrava trattenesse il respiro. Ritirò al massimo le gambe per caricare il colpo e partì. Un forte rumore sordo. Il portone, chiuso, portava visibile la macchia della sua scarpa. Laura la guardò mentre fissava il frutto della sua opera. Micol si voltò scomodamente per guardarla, e Laura le fece un’espressione significativa.

    – Aspetta, ci provo io. –

    Il secondo tentativo funzionò, miracoloso! Mina esultò, battendo le mani. Si sorrisero tutte e Laura venne aiutata a rimettersi in sesto. Il portone si era rivelato più debole di quanto sembrasse. Micol si avvicinò alla fessura, cominciando a guardare dentro con un’aria investigativa poco affidabile. Spalancò del tutto il portone, rumorosamente, e si creò un leggero risucchio. L’odore di chiuso era già forte, che la signora ebbe il gesto impulsivo di sottrarsi. Le altre si fecero più vicine, scoprendo che si stava per accedere ad un corridoio piuttosto lungo e poco spazioso. C’era il grigio di un tempo trascorso, nei quadri appesi, nei piccoli mobili, nel cappotto nero appeso in fondo, alle spalle di un altro portone. Il colore e l’odore del passato consumavano la casa fino alle ossa, come un mistero indegnamente sfatato dalla prima luce del sole, un sole pallido, infiltrato e clandestino. Micol entrò in casa con un’aria timorata. Le altre la seguirono a ruota, sulla difensiva. Una volta dentro, tutte si guardarono attorno lentamente e con molta curiosità, come marziani in visita sulla terra, avanzando e guardandosi intorno a 360°. Si sentivano in un mondo diverso, fatto di passato, tanto passato, cristallizzato, estraneo anche al tempo, allo stesso tempo che lo aveva generato. Accanto ad un altro portone chiuso, Mina s’impressionò.

    – 1979 – lesse ad alta voce.

    Le altre quattro signore si voltarono verso di lei, con gli occhi sgranati. Il calendario le stava di fronte, impallidito e ingiallito, gli angoli leggermente arricciati, ma leggibile.

    Cadeva proprio nel mese di agosto, ed era suggestivo per loro pensare di come in quella dimora vi fossero stati così tanti anni mai vissuti, come a constatare la relatività tempo, il suo trattenersi immobile nei luoghi nascosti. Micol portò lo sguardo dolce e malinconico ad una porta e l’aprì. Era la cucina. I mobili arancioni in formica di quegli anni trascorsi, un tavolino al centro, con le quattro sedie al loto posto.

    Sul tavolo c’era un vaso di vetro lavorato, trafitto da uno spiraglio di luce. Proveniva dalla persiana della finestra, che dava sulla terrazza. Una piccola fessura, da dove si potevano vedere il tramonto limpido d’estate e le piogge lente d’inverno, come fossero di un altro mondo. Una luce nel buio perenne. Nel vederla, Micol fu invasa da una forte emozione. Entrò dentro e volle aprire le persiane. Quando la luce invase la stanza, tutto assunse un altro significato. Agnese era sulla soglia della porta, silenziosa e pallida. Guardò i mobili e fu come rivivere quel tempo ormai perduto. C’era tutto e tutto apparteneva a quel tempo. Sulla credenza posavano dei quadri dipinti, senza cornice, un piccolo mazzo di chiavi, e un cesto di frutta mummificata, grinzosa e secca. Agnese la guardò incuriosita. Forse erano arance. Ad agosto? Le toccò. Erano dure e vuote come palline di plastica, attaccate in un blocco unico di legno. Sul tavolo, quel vaso di vetro era pieno di rose. Secche, tarlate, frantumate, erano abitate da ragnatele ed avevano un’aria spettrale. Anche i ragni dovevano averle abbandonate. Un accendino bianco e blu della Marlboro, cenere di sigaretta e tre pacchetti vuoti. Il

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