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Fortunato per forza: Avventure incredibili
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E-book336 pagine4 ore

Fortunato per forza: Avventure incredibili

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Info su questo ebook

Cosa succede se un giornalista scommette con un miliardario annoiato di rendergli la vita interessante? Da questo pretesto inizia un susseguirsi di avventure incredibili che portano i protagonisti a girare per la terra e… non solo.Uscito per la prima volta nel 1910, e mai più ristampato dagli anni '40, Fortunato per forza è il primo volume di una trilogia e uno dei romanzi più riusciti di Yambo.

Contiene il primo capitolo de "Gli esploratori dell'infinito", il primo romanzo di fantascienza italiano
LinguaItaliano
Data di uscita10 lug 2015
ISBN9788899403102
Fortunato per forza: Avventure incredibili

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    Anteprima del libro

    Fortunato per forza - Yambo

    Yambo, Fortunato per forza

    1a edizione Landscape Books, luglio 2015

    Collana Aurora n° 6

    © Landscape Books 2015

    www.landscape-books.com

    ISBN 978-88-99403-10-2

    Revisione testo originale a cura di Francesca Truscelli

    In copertina: illustrazione di Yambo, progetto grafico Il Quadrotto

    Realizzazione editoriale a cura di WAY TO ePUB

    www.waytoepub.com

    YAMBO

    Fortunato

    per forza

    Presentazione dell’opera

    La collana Aurora si propone di recuperare classici ormai dimenticati e introvabili della letteratura italiana e internazionale, con un breve apparato critico di approfondimento.

    Yambo, che non a caso ha inaugurato questa collana con Gli esploratori dell'infinito, è stato un autore poliedrico e originale per i suoi tempi, la cui carica di invenzioni e brio risulta ancora oggi attuale e piacevolissima.

    Con Fortunato per forza iniziamo la pubblicazione di una trilogia che l'autore toscano iniziò nel 1908 e concluse nel 1911, il periodo probabilmente più prolifico e inventivo della sua produzione. Il tutto parte da un miliardario annoiato e da un giornalista che promette di rendergli la vita interessante: da qui si dipaneranno una serie di avventure incredibili (e Avventure incredibili era il sottotitolo dell'edizione originale di questo romanzo) che porteranno i protagonisti (e i loro antagonisti, tra cui l'imperterrito Carlo Bousset, in giro per il mondo e non solo.

    Senza voler anticipare nulla della trama, nel finale il romanzo sembra ricollegarsi all'idea fondante de Gli esploratori dell'infinito, anche se con notevoli differenze. E così dall'avventura si torna nuovamente alla fantascienza, genere di cui Yambo è stato pioniere in Italia e che in quegli anni portava avanti – pressoché unico esponente del genere – con originalità ed entusiasmo.

    Ma, oltre a questo, leggendo tra le righe di questo romanzo, e ancora di più nei due seguiti, si ha come attraverso uno specchio deformante un quadro impagabile dell'epoca in cui è stato scritto e che fa da sfondo agli eventi narrati: sono gli anni finali della Belle époque, il mondo non può ancora sapere che di lì a poco quel periodo dorato imploderà con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale, ma nelle pagine di Yambo, e nelle invenzione di un romanziere d'avventura, cominciamo a intravvedere le prime avvisaglie del conflitto che segnerà l'avvio del xx secolo.

    Gli altri due volumi della trilogia, Il Re dei Mondi e La banda di Carlo Bousset, verranno pubblicati nella collana Aurora nei prossimi mesi.

    PROLOGO

    Alla ricerca della felicità

    I.

    Le fortunate disgrazie di James Wartel

    «Dunque, sir

    «Dunque, che cosa?»

    «Forse non mi sono spiegato bene. L’importanza di questo nuovo trust…»

    «Va benissimo: ho capito… Scusate, mister Barnett oggi sono un po’ distratto… un po’ nervoso…»

    «Noi vorremmo sapere se ci concederete o no il vostro appoggio morale e finanziario… Si tratta, come sapete, di un affare di milioni!»

    «Ma sì, vedremo!», e così dicendo, James Wartel cominciò a tracciare sopra un registro una quantità prodigiosa di cifre.

    «Quanto al guadagno, sir…» voleva cominciare il signor Barnett, ma l’altro, con un gesto violento, lo interruppe subito.

    «Per carità… non mi parlate di guadagni… è una cosa che mi affligge straordinariamente…»

    Il signor Barnett – un uomo asciutto e nervoso, dai capelli brizzolati e il lungo pizzo bianco, molto decorativo – saltò sulla poltroncina, sbalordito guardando il miliardario di sopra agli occhiali.

    «Co… ooo… me!... vi affligge…»

    «Cioè…», riprese subito James, con una specie di sorriso «volevo dire che mi è indifferente…».

    «Awful… voi mi sbalordite, sir

    Infatti, il signor Barnett, vecchio e onesto commerciante, che con grandi stenti era riuscito a raggranellare una mediocre fortuna, non poteva davvero comprendere l’orgoglioso disprezzo di quel giovine miliardario per un affare di importanza eccezionale! Un affare di milioni!…

    Vi fu un lungo silenzio. Finalmente il signor Barnett con voce tremula per la commozione, mormorò:

    «Dunque, sir… per quale somma devo iscrivervi?».

    James Wartel, sempre assorto nei suoi calcoli, non rispondeva.

    L’altro ripeté la domanda.

    «Eh?… come dite?…», esclamò improvvisamente James Wartel alzandosi e correndo al telefono che trillava da cinque minuti «voi volete iscrivermi…? Ma io non ho ancora promesso nulla…».

    «Almeno, sir», balbettò il signor Barnett «mi avete fatto sperare…».

    «Permettete… devo rispondere al telefono… non vi spaventate, mister Barnett… per contentarvi, concorrerò alla vostra impresa…»

    «Vorrei conoscere la somma», insisteva il degno Barnett; ma l’altro tagliò corto:

    «Qualunque somma…» e, parlando al telefono: «Pronto! Sì, sono io, James Wartel… Ah! Ho capito… comprate pure se c’è molto rischio… dieci milioni… troppo? no, non è troppo… Arrivederci…».

    James tornò al suo scrittoio, sbuffando.

    «Sentite, mister Barnett… io non ho un minuto libero… non ho capito nemmeno a quale affare abbiate voluto associarmi… non importa… ma adesso vi pregherei…»

    Il telefono squillò nuovamente, James si precipitò all’apparecchio, gridando:

    «Almeno fosse qualche disgrazia!… Servirebbe a rompere la monotonia… Pronto!… Come? Perduto? Proprio perduto? C’è nessuna vittima? Meno male… Quanto? Trecentomila di carico? Sta bene… Vi aspetto domattina…».

    «Che somma allora?», domandò ostinatamente il signor Barnett.

    «Qualunque, ve l’ho già detto… Non ho capito nulla, ma fa lo stesso… Un milione… due… tre… cinque. Immaginate, caro Barnett, che è affondato un mio steamer che era assicurato per il doppio del suo valore effettivo. Cose dell’altro mondo!… Perché non debbo mai provare la soddisfazione di una grossa perdita finanziaria? Un rovescio, per me, sarebbe una piccola fortuna!… Invece nulla! Da oggi non assicurerò più nessuno dei miei legni mercantili».

    L’ottimo signor Barnett, sempre più sbalordito, segnò frettolosamente alcuni appunti sul suo taccuino, s’inchinò e uscì.

    «Che peccato!…», mormorava, scendendo lo splendido scalone di marmo «un così bravo giovane, erede di una fortuna simile!… Ah!… l’avessi io nelle mani, vorrei centuplicarla!… Basta: è proprio vero: chi ha denti non ha pane, chi ha pane non ha…».

    James, intanto, passeggiava nervosamente per il suo studio. Guardò il cronometro. Erano le venti e ventidue. Alle ventuno, al Club dei miliardari, aveva luogo il banchetto offerto da James Wartel stesso agli amici, per celebrare il cinquantesimo anniversario della fondazione della sua banca. Non c’era tempo da perdere. Chiuse i libri e gli scartafacci nel cassetto della scrivania e suonò il campanello elettrico.

    Un domestico apparve.

    «Chiamatemi Harry Falkeston», ordinò James.

    Harry Falkeston era il primo segretario di James Wartel: un ometto sui quaranta, piuttosto pingue, cosa notevole in un americano; portava una foltissima barba bionda, e i capelli spioventi sul bavero del vestito a scacchi. L’aspetto distinto, la dolcezza del carattere, e la meravigliosa sicurezza negli affari lo avevano reso particolarmente simpatico a James Wartel, che, da semplice scrivano, lo aveva elevato al grado di suo segretario particolare.

    Harry entrando nel gabinetto del miliardario chiese con voce soavissima: «Avete ordini, sir?».

    «Yes: a mezzanotte e trenta il mio treno deve esser pronto in stazione!»

    «Ah!…», fece sorridendo il segretario particolare.

    «Caro Harry, non sorridete… Vi assicuro che siete ben lontano dal supporre che cosa vada a fare a Chicago…»

    «Via… sir!… voi stesso mi onoraste di alcune confidenze in proposito…»

    «È vero, yes! Ora, figuratevi un po’… dopo mature riflessioni… ho cambiato le mie idee».

    «Cioè?»

    «Mister Harry…» e a questo punto il tono di voce di James divenne grave «io vado a restituire la mia parola a miss Annie…».

    «Eh!…»

    «Non credetemi pazzo, mister. Io amo sempre quella fanciulla; e forse il mio affetto si è accresciuto in questi ultimi tempi… ma l’affetto non mi accieca. Miss Annie Bamermann non può contraccambiarmi…»

    «Non può

    «Non si può amare un miliardario, mister Harry! Ella sarebbe costretta a mentire con me. Io voglio impedirglielo».

    «Credo… con tutto il rispetto dovuto a Vostro Onore… che voi giudichiate male miss Annie».

    «Forse!… A ogni modo… io ho preso irrevocabilmente la mia decisione. L’altro giorno, dopo pranzo, ho interrogato il mio cuore e ho sentito, con un sommo terrore, che l’affetto per miss Annie ingigantiva… io correvo a occhi chiusi verso l’orlo di un precipizio!… Causare l’infelicità di quella cara giovinetta… Sarebbe stata una cosa terribile! Ho giurato subito a me stesso di restituire a miss Annie la sua libertà. Vedete, mister Harry, è questo il mio fatale destino, il destino degli uomini afflitti da una ricchezza eccessiva… noi non siamo, non possiamo essere amati per noi stessi!»

    James soffocò un sospiro, e, cercando di assumere un’aria disinvolta, si tolse di tasca un grosso sigaro e lo accese, poi, volgendosi a Harry che lo guardava in silenzio, con la faccia meravigliata, disse seccamente:

    «Trovatevi anche voi alla stazione, Harry: desidero che mi accompagniate».

    II.

    Breve storia di un re dell’oro

    George William James Wartel avrebbe potuto vantarsi di essere il più ricco miliardario della libera America.

    Le sue origini non si perdevano davvero nell’oscurità della storia. Suo padre, William Wartel, mozzo a bordo di una nave inglese, era sbarcato per la prima volta sul suolo americano nel 1816, un anno dopo la terribile guerra d’indipendenza.

    Un giorno, William, mentre fumava con olimpica tranquillità la sua corta pipa da marinaio nel porto di Boston, sentì alcuni colleghi che discutevano animatamente fra loro di un vascello spagnolo colato a fondo dai pirati nei pressi di Bahama, con un grosso carico, si diceva, di oro e d’argento.

    William non ascoltò invano! Raccolse in fretta un equipaggio composto della più celebre canaglia marinaresca di Boston e una notte, sopra un piccolo veliero, prese il largo con i compagni.

    La sua impresa ebbe ottimo successo. In un solo giorno di esplorazioni sottomarine egli e i suoi accoliti raccolsero per più di centomila dollari in verghe d’oro!…

    A conti fatti, quelle prime speculazioni fruttarono a William Wartel sette milioni in verghe d’oro e d’argento.

    Fu la base della sua fortuna.

    In breve le miniere, le ferrovie, le navi che egli acquistò a forza di cambiali e di colpi in borsa, centuplicarono il suo patrimonio. A trentacinque anni sposò per amore la figlia di un semplice milionario, un disperataccio la cui rendita non superava le centomila lire; ma la fanciulla era buona e graziosa, e seppe render felice lo sposo. Il quale, per altro, non osò mai di vantarsi, con gli amici, di aver concluso uno splendido affare!

    Dall’unione di miss Anna Jowerton con William nacque James.

    Quando William Wartel morì, aveva appena sessantasette anni e un miliardo e seicento milioni di patrimonio.

    James Wartel trasferì la sede della sua casa da Boston a New York. Educato alla scuola paterna, il nostro amico si pose all’opera e in pochi anni, assistito da una prodigiosa fortuna, raddoppiò il suo patrimonio.

    Ben presto, però, si accorse che il denaro, se poteva procurargli il modo di godere tutti gli agi della vita o elevarlo materialmente al livello di un potente sovrano, non poteva restituirgli un’oncia di quella tranquilla e noncurante felicità che aveva goduto, senza apprezzarne il valore, nei primi anni della sua giovinezza. A trent’anni, pieno di salute e di forza, possessore di ricchezze favolose, proprietario di una gran parte di New York, e di quasi tutto il territorio della repubblica di Honduras, arbitro del pane quotidiano di migliaia di uomini che lavoravano per lui nelle miniere, nelle piantagioni, nelle fabbriche, sulle ferrovie, sugli steamers e negli uffici delle sue case; capace di poter da solo disporre del mercato di Londra, di New York e di Parigi, James sentiva di non esser felice, sentiva di trovarsi solo in mezzo a quelle turbe di uomini che s’inchinavano rispettosamente al suo passaggio, di non avere un amico tra le migliaia di persone che si chiamavano fortunate di conoscerlo, che sedevano giocondamente alla sua mensa, che lo seguivano ovunque… Essendo ciò che i moderni chiamano un intelletto raffinato, egli capiva benissimo la sfortuna… della sua fortuna, e, a volte annoiato della condizione anormale nella quale si trovava rispetto agli altri uomini, malediceva le sue ricchezze, e invidiava la vita tranquilla e felice dell’ultimo dei suoi sottoposti. E si gettava in imprese audaci, pazze, ove la perdita sembrasse molto più probabile del guadagno!

    Avrebbe desiderato di cambiare, di finire una buona volta di lambiccarsi il cervello sui listini della borsa, di essere il capo involontario e responsabile di tutti i trust, di tutte le imprese commerciali che si intraprendevano nel mondo…

    Ma il pensiero che se si fosse ritirato dagli affari avrebbe messo sul lastrico decine di migliaia di lavoratori, rovinato tante industrie fiorenti, provocato il fallimento di mezza dozzina di banche, che si reggevano per merito suo… il pensiero di tante catastrofi lo tratteneva; e James Wartel continuava, suo malgrado, in quella esistenza, che, come diceva egli stesso nei rarissimi istanti di buon umore, avrebbe finito col ridurlo nello stato di un perfetto imbecille.

    «Quando sarò un cretino completo… mi sentirò felice!», soggiungeva con il suo leggero sorriso, pieno di malinconico sarcasmo.

    Il Club metropolitano è il luogo dove vanno ad annoiarsi tutti i milionari di New York. Non è raro vedere uno di questi re del denaro sbadigliare per ore e ore innanzi a un bicchiere d’acqua inzuccherata, o rimanere con gli occhi sbarrati come un idiota dietro i vetri di una finestra, a osservar coloro che sdrucciolano sulla neve. Entrando in quelle sale, dinanzi a quelle facce aristocraticamente annoiate, c’è subito da rimpiangere la spensierata allegria, quasi sempre compagna indivisibile della onesta disperazione.

    Quella sera, il gran salone centrale del Club dei miliardari presentava un aspeto meraviglioso! Dal soffitto, costellato di lampade elettrichiche di ogni forma e dimensione, piovevano fasci di luce multicolore, sopra una lunga tavola splendidamente imbandita, per cinquanta convitati. I vasellami di porcellana artistica, i bicchieri di cristallo di Murano, le tazze, le fruttiere d’argento cesellato, le posate d’oro massiccio gettavano scintillii abbaglianti. Le pareti della sala erano ricoperte di arazzi antichi, rappresentanti episodi di caccia.

    Il nostro amico James Wartel aveva, come sappiamo, dato convegno alle notabilità politico-finanziarie di New York, nella gran sala degli arazzi del Club dei miliardari, per festeggiare regalmente il cinquantesimo anniversario della fondazione della sua casa.

    III.

    La scommessa di Frederik Felton

    L’appuntamento era stato dato per le nove. Una dote precipua degli americani è certo la puntualità. Alle otto e cinquantanove minuti precisi, James Wartel arriva al Club per ricevere gli invitati. Morgan, Gould, Vanderbilt, Stewart, Rokefeller arrivarono alcuni secondi dopo di lui, sopra le loro automobili o nelle loro splendide carrozze; e alle nove precise giunsero, in comitiva, Mackaj, Astor, Runel, Sage, e una quantità di altri semplici milionari, seguiti da deputati, scrittori di gran fama, giornalisti, poeti illustri… o quasi…

    Alle nove e trenta tutti i commensali erano seduti a tavola.

    James Wartel scambiava qualche parola con Vanderbilt, che gli sedeva vicino, mentre il reporter del New-York-Herald, il valentissimo Frederik Felton, avendo già divorata la sua porzione, guardava con occhio languido le cosce di pollo in galantina che giacevano, disprezzate, sui piatti dei due miliardari.

    Signore Iddio!… dove finiranno quelle cosce di pollo?, pensava il buon giovinotto. Quanto sarebbero state meglio qui… nel mio insaziabile stomaco!…

    I camerieri girarono intorno alle tavole e tolsero i piatti; quando giunse la volta di quelli di James e di Vanderbilt, il reporter sospirò:

    «Addio per sempre!…».

    Stewart, un disgraziato le cui risorse, forse, non ascendevano a novecento milioni, si alzò per fare un brindisi. Non era molto istruito, ma in compenso era un dignitoso imbecille, e amava parlare in pubblico, e lardellare i suoi discorsi con vocaboli molto difficili, che aveva letto chissà dove, e che molte volte non comprendeva nemmeno.

    «Signori», disse Stewart «non farò un discorso scientifico e tanto meno con circonlocuzioni artificiosamente passate nel lambicco della retorica eteroclita, perché qui, alla vostra faccia di amici deve parlare il cuore, e la natura allo stato primordiale; deve parlare il linguaggio vero, santo, come quando l’uomo dell’età della pietra parlava a un suo collega. Le dolorose necessità del commercio potrebbero costringerci a rovinare James Wartel, a gettarlo in mezzo a una strada; ma egli sa che un posto alla mia tavola, che non è quella di Lucullo, ma neanche quella di Catone, non gli mancherebbe mai!… A parte questo incidente altruistico, voglio finire augurando fortuna alla Casa Wartel per il prossimo e futuro avvenire del XXI secolo!… Beviamo!…».

    Inutile dire che il memorabile discorso finì tra gli applausi entusiastici dei commensali. Stewart si chinò verso il reporter del New-York-Herald, e sussurrò:

    «Le è sfuggita qualche parola?».

    «No… no… stia tranquillo…»

    Si alzò a parlare Gordon Bennett, il quale pronunziò un brevissimo, affettuoso e applaudito brindisi, quindi James Wartel si alzò per ringraziare.

    «Scommetto che l’amico Bennett, nell’augurarmi fortuna ha inteso accennare alla prosperità sempre crescente della mia casa e del mio patrimonio. Ebbene… in tal caso… lo invito a ritirare l’augurio. Io sono nauseato, sì, o signori… di quest’oro che cresce intorno a me, come una marea fiammeggiante, e minaccia di coprirmi, di soffocarmi. lo vorrei che, almeno una volta… una sola… la sventura mi colpisse…»

    Un oooooh!… di meraviglia e di sbalordimento uscì dai petti dei convitati, i quali credettero, lì per lì, che a James Wartel avesse dato di volta il cervello.

    «Ma ditemi sinceramente, signori», proseguì il giovine miliardario «chi di voi, nonostante i denari che possiede, può chiamarsi veramente felice? Sembrerà un paradosso, un’assurdità e peggio; eppure, non c’è al mondo maggiore ostacolo al libero godimento della vita, del vile metallo. A me sono negate, per esempio, le dolci commozioni del lavoratore che porta alla famigliola la sua modesta mercede e lotta contro le difficoltà quotidiane per l’amore dei suoi cari!… Io non ho mercede, non ho difficoltà quotidiane, i milioni si accumulano quasi per una fatalità ostinata nelle mie casse… A me è negato anche il soave piacere di compiere un sacrificio per il mio prossimo! Se incontro un povero per la via, qual sacrificio faccio a regalargli un dollaro? A me, infine, sono negate le dolcezze sublimi dell’amore nato dal contrasto, dall’abnegazione, dalla fede. Ho comprato a prezzi favolosi tutto quello che poteva attirare la curiosità e l’ammirazione della folla: mi son messo in testa di avere il più veloce cavallo del mondo: l’ho avuto; ho preteso un’automobile che sfidasse e vincesse le più rapide vetture, l’ho avuta; ho organizzato corse, ho corso io stesso per il globo come un pazzo, ho comprato dieci ville in Italia, un museo in Grecia, un’isola nelle Indie, un vulcano in Oceania, due porti in Cina; ho attraversato tutti i mari del nostro pianeta, seguito da una flottiglia di navi le quali rivaleggiavano per lusso e per velocità con quelle dei più potenti monarchi; e credete con questo che sia riuscito a divertirmi?».

    Qui James scosse il capo, energicamente: poi, stringendosi nelle spalle, seguitò: «Che cosa mi resta da fare? lo domando a voi… Dovrei aspettare la morte, appiattato fra i sacchi dei miei milioni? Ah!… no!… signori miei, questa sera stessa ho preso una grande risoluzione. Amo troppo la vita! Il mio ideale è di rimanere con cinque o seicento mila dollari solamente, cioè con il pane quotidiano assicurato, e di costituire le numerose industrie di cui sono proprietario in una società cooperativa riconosciuta e sorvegliata dallo Stato, una società i cui redditi siano ripartiti proporzionalmente fra tutti i suoi componenti. In questo modo solo, forse, riuscirò a procurarmi un giorno, un’ora di distrazione e di felicità!».

    I miliardari si guardarono in faccia, sempre più storditi. Ragionava sul serio l’illustre James Wartel? O si pigliava gioco di loro?

    Robert Arwil, l’insigne letterato, si alzò per rispondere al nostro eroe, ma invece ruzzolò sotto la tavola. Era uno spettacolo non nuovo, quello, per i miliardari del Club metropolitano.

    «Un momento», tuonò la voce formidabile del reporter del New-York-Herald «se questi signori me lo permettono, vorrei fare una proposta a James Wartel!…».

    «Parli… parli…», strillarono cinquanta voci.

    «Parli… il New-York-Herald…!»

    «La parola alla stampa!…»

    «Intanto comincio col dichiarare che se avessi i denari di sir James Wartel, troverei subito da distrarmi…»

    «Non credo!», interruppe James, sorridendo.

    «Io credo invece… che voi non sappiate divertirvi!»

    «Suggeritemi allora che cosa devo fare!», ribatté il miliardario.

    «A quale scopo, se tanto non seguireste i miei consigli?»

    «Chissà?…Vi metto alla prova!…»

    «Prima dovreste permettermi di accettare ciecamente le mie proposte… tendenti a questo unico scopo: farvi divertire!…»

    «Le accetto!…»

    «E dovreste rimandare a epoca indeterminata la costituzione di quella tale società…»

    «Ah! ah! Quanto dovrebbe durare questo esperimento?»

    «Un anno!… non più… E scommetto che a capo a un anno vi sarete divertito anche troppo e finirete con l’apprezzare le vostre ricchezze… e col benedire la vostra fortuna. Forse anche… benché la riconoscenza non sia umana cosa, mi ringrazierete».

    «Mi dispiace dovervi dire, mio bravo Frederik Felton, che voi non riuscirete nel vostro nobile intento!»

    «Scommettiamo!…»

    «Riflettete bene, Frederik…»

    «Ho riflettuto!»

    «Ebbene: per contentarvi, scommetterò cinquecentomila dollari! Ma siccome son certo di guadagnar la partita vi prego di mettere, da parte vostra, una piccolissima posta… per risparmiarmi il dolore di dover guadagnare senza fatica altro denaro… Yes! mettete un dollaro!…»

    «È troppo poco», disse dignitosamente Frederik Felton, l’audace reporter del New-York-Herald. «Scommetto milleduecento dollari: il mio stipendio di un anno che mister Gordon Bennett può garantirvi…»

    «Sia pure!…»

    «Accettato?…»

    «Accettato».

    «Allora brindiamo alle nostre prossime disgrazie, sir James Wartel!», gridò Felton alzando il calice colmo di champagne.

    «Evviva!… Hurrà!…», urlarono i commensali, colti da un accesso di improvviso entusiasmo per la singolarissima scommessa «evviva Frederik Felton!… evviva James Wartel!… evviva il Club dei miliardari… Hip!… Hip!… Hurrà!…».

    «Assegno cinquecento dollari al mese al mio reporter, per le spese straordinarie che incontrerà in questo anno

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