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Naïs Micoulin e altri racconti
Naïs Micoulin e altri racconti
Naïs Micoulin e altri racconti
E-book271 pagine4 ore

Naïs Micoulin e altri racconti

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Qui proposto per la prima volta per i lettori italiani nella traduzione di Paolo Fontana, e con il pregio dell’accurata e puntuale Prefazione di Pierluigi Pellini, Naïs Micoulin e altri racconti raccoglie alcune delle novelle originali, scritte «con sorprendente felicità e libertà immaginativa» da Zola per il pubblico russo di «Viestnik Evropy» («Il Messaggero d’Europa»), l’importante rivista pietroburghese cui Zola, su incitamento di Ivan Turgenev, collaborò dal 1875 al 1880. Non banali scritti d’occasione ma ampi racconti in cui Zola è capace «di infondere vita nuova ai più vieti stereotipi narrativi», spesso contravvenendo a quel principio fondamentale della poetica naturalista che consiste «nel rinunciare al personaggio grandeggiante per mettere in scena la banalità quotidiana di figure umane umili, senza qualità». Le sei novelle raccolte da Zola sul finire del 1883 in Naïs Micoulin percorrono registri «tra il ridicolo e il tragico» e hanno ciascuna un eroe, o un anti-eroe, eponimo. A tre novelle drammatiche fanno seguito tre testi ironici; in un paio Zola mette in scena il tema del redivivo: su un registro patetico e nero La Mort d’Olivier Bécaille; in tono amaramente burlesco la non meno bella Jacques Damour. Entrambe fonte sicura del Fu Mattia Pascal di Luigi Pirandello.
Tra le novelle, quella che dà il titolo al libro, Naïs Micoulin (scritta da Zola nel 1877 durante il soggiorno all’Estaque, vicino a Marsiglia, dopo le fatiche dell’Assommoir) – l’amorazzo fra la figlia del mezzadro e l’erede della proprietà; il padre meridionale, violento e possessivo; la canina fedeltà che un uomo deforme vota a una ragazza bellissima – è un racconto formidabile: «grazie alla creazione di un personaggio di donna fra i più memorabili della narrativa francese del secondo Ottocento».
LinguaItaliano
Data di uscita13 ott 2014
ISBN9788868222192
Naïs Micoulin e altri racconti
Autore

Émile Zola

Émile Zola (1840-1902) was a French novelist, journalist, and playwright. Born in Paris to a French mother and Italian father, Zola was raised in Aix-en-Provence. At 18, Zola moved back to Paris, where he befriended Paul Cézanne and began his writing career. During this early period, Zola worked as a clerk for a publisher while writing literary and art reviews as well as political journalism for local newspapers. Following the success of his novel Thérèse Raquin (1867), Zola began a series of twenty novels known as Les Rougon-Macquart, a sprawling collection following the fates of a single family living under the Second Empire of Napoleon III. Zola’s work earned him a reputation as a leading figure in literary naturalism, a style noted for its rejection of Romanticism in favor of detachment, rationalism, and social commentary. Following the infamous Dreyfus affair of 1894, in which a French-Jewish artillery officer was falsely convicted of spying for the German Embassy, Zola wrote a scathing open letter to French President Félix Faure accusing the government and military of antisemitism and obstruction of justice. Having sacrificed his reputation as a writer and intellectual, Zola helped reverse public opinion on the affair, placing pressure on the government that led to Dreyfus’ full exoneration in 1906. Nominated for the Nobel Prize in Literature in 1901 and 1902, Zola is considered one of the most influential and talented writers in French history.

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    Naïs Micoulin e altri racconti - Émile Zola

    Collana

    Itaca Itaca

    diretta da Mauro F. Minervino

    ÉMILE ZOLA

    Prefazione di

    PIERLUIGI PELLINI

    In copertina: Émile Zola di Edouard Manet

    Proprietà letteraria riservata

    © by Pellegrini Editore - Cosenza - Italy

    Edizione eBook 2014

    ISBN: 978-88-6822-219-2

    Via Camposano, 41 (ex via De Rada) - 87100 Cosenza

    Tel. (0984) 795065 - Fax (0984) 792672

    Sito internet: www.pellegrinieditore.com - www.pellegrinilibri.it

    E-mail: info@pellegrinieditore.it

    I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, riproduzione e adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.

    Prefazione

    Dei venti romanzi che compongono la serie dei Rougon-Macquart, quattro soltanto esibiscono nel titolo il nome del protagonista: La Faute de l’abbé Mouret (La colpa di don Mouret, 1875), Son Excellence Eugène Rougon (Sua Eccellenza Eugène Rougon, 1876), Nana (1880), Le Docteur Pascal (Il dottor Pascal, 1893); e soltanto nell’ultimo il protagonista è un eroe, della scienza e del progresso. Anche uno sguardo superficiale alle soglie dei testi conferma perciò che, in generale, Zola rispetta quel principio fondamentale della poetica naturalista che consiste nel rinunciare al personaggio grandeggiante (il romanziere «uccide gli eroi»: così il grande saggio su Gustave Flaubert del 1875), per mettere in scena la banalità quotidiana di personaggi umili, senza qualità. Personaggi spesso costretti a assumere un ruolo narrativo del tutto secondario rispetto a quello delle cose che li circondano: il milieu sociale, l’ambiente urbano, le merci moderne, la cui descrizione occupa infatti gran parte dei romanzi. Le sei novelle raccolte sul finire del 1883 in Naïs Micoulin – il volume dell’editore Charpentier porta sul frontespizio la data del 1884, ma in realtà è in libreria già nel novembre dell’anno precedente – hanno al contrario ciascuna un eroe, o un anti-eroe, eponimo; e dei tre principi fondamentali della poetica naturalista – abolizione del romanesque (casi rocamboleschi, avventure inverosimili, colpi di scena), morte dell’eroe e impersonalità – rispettano con qualche rigore soltanto l’ultimo.

    Il libro, esattamente come Le Capitaine Burle, uscito l’anno precedente (e disponibile in italiano, nella traduzione di Paolo Fontana e con mia prefazione, per Monte Università Parma, 2012, con il titolo Per una notte d’amore e altri racconti), è interamente composto di testi scritti originariamente per il pubblico russo di «Viestnik Evropy» («Il Messaggero d’Europa»), l’importante rivista pietroburghese cui Zola, grazie all’intermediazione di Ivan Turgenev, ha collaborato mensilmente dal 1875 al 1880, con pezzi ampi (ventiquattro pagine), ben pagati, e di argomento libero – prevalgono i saggi su politica, società e cultura francesi, e gli interventi di critica letteraria; meno frequenti i racconti, che di norma svolgono la funzione di ‘tappabuchi’ per i mesi estivi, quando l’attualità offre poco, o lo scrittore, in villeggiatura al mare, ha difficoltà a seguirne gli sviluppi. Non a caso, due dei sei racconti di Naïs Micoulin hanno ambientazione marina, e sono scritti in loco: Les Coquillages de Monsieur Chabre a Piriac, in Bretagna, nel 1876 (mentre Zola, ai bagni di mare in compagnia della famiglia dell’editore Charpentier, si abbuffa di crostacei non meno del suo ridicolo personaggio), e Naïs Micoulin durante il soggiorno all’Estaque, vicino a Marsiglia, del 1877 (meritato riposo dopo le fatiche dell’Assommoir). Da tutti i punti di vista, dunque, scritture balneari.

    È innegabile: per l’autore dei Rougon-Macquart la narrativa breve è attività ancillare, legata agli obblighi alimentari della letteratura a un tanto la riga. Non a caso, dopo il congedo dal giornalismo del 1881 – un congedo parziale e non definitivo, ambiguamente intessuto di sollievo e rimpianti, e che tuttavia segna una svolta importante nella carriera dello scrittore –, usciranno a firma di Zola solo due racconti inediti in più di vent’anni. Nei due decenni precedenti, quando i diritti d’autore dei romanzi erano ancora ben lungi dal garantirgli la tranquillità economica, ne aveva scritti invece un’ottantina. Di rado, tuttavia, coazione mercenaria e libertà immaginativa si sono sposate con altrettanta, sorprendente felicità come nei racconti pubblicati sul «Messaggero d’Europa»: ai lettori russi, il cui orizzonte d’attesa è ancora dominato dal modello balzachiano, Zola non si fa scrupolo di propinare drammi romantici, farse rabelaisiane, divertimenti buffoneschi, proiezioni autobiografiche – non si fa scrupolo, cioè, di dispiegare una vena di volta in volta giocosa o sentimentale, comica o drammatica, che i dettami della poetica naturalista (o, se vogliamo, il super-io flaubertiano, inaggirabile almeno fino alla morte dell’autore dell’Éducation sentimentale, nel 1880) inibivano, o quantomeno limitavano, nei romanzi della serie maggiore.

    E se nel Capitaine Burle questa libertà si manifestava innanzitutto nella natura miscellanea del libro, nel suo svariare fra generi e tonalità diversi – dalla divagazione autobiografica, alla farsa, alla novella tragica –, la nuova raccolta ha due sole note dominanti, il pathos melodrammatico e il divertimento ironico, ma di entrambe esplora con inusitata disinvoltura, e con innegabile riuscita, le possibilità più oltranziste. Per esser composta di testi d’occasione, Naïs Micoulin è infatti raccolta singolarmente compatta: contiene solo nouvelles (novelle a intreccio di ambientazione realistica), rinunciando alla levità del conte (racconto fantastico, bozzetto, capriccio favolistico, ecc.), ben attestata nel Capitaine Burle; e si divide in due parti nettamente distinte, e al tempo stesso collegate da molteplici richiami interni: a tre novelle drammatiche fanno seguito tre testi ironici; in entrambi i gruppi, una novella ha ambientazione marina (s’è già detto), una politico-mondana (Nantas e Madame Neigeon), una mette in scena il tema del redivivo: su un registro patetico e nero La Mort d’Olivier Bécaille; in tono amaramente burlesco la non meno bella Jacques Damour. Entrambe fonte sicura – insieme al comune, grande archetipo balzachiano: ovviamente, Le Colonel Chabert (Il colonnello Chabert, 1844) – del Fu Mattia Pascal di Luigi Pirandello.

    La centralità del personaggio, che caratterizza l’intera raccolta, è evidente nel testo eponimo, Naïs Micoulin, capace di infondere vita nuova ai più vieti stereotipi – l’amorazzo fra la figlia del mezzadro e l’erede della proprietà; il padre meridionale, violento e possessivo; la canina fedeltà che un uomo deforme vota a una ragazza bellissima –, grazie alla creazione di un personaggio di donna fra i più memorabili della narrativa francese del secondo Ottocento. Se il giovane Frédéric, ante litteram vitellone di provincia, studente scansafatiche, giocatore incallito e svaccato puttaniere, è convinto di condurre il gioco, concedendosi, come uno sfizio da spiaggia, la bella contadinotta (pronto poi a piantarla ai primi venti d’autunno, spezzandole il cuore con tranquillo cinismo), in realtà è Naïs, quasi figura metaletteraria del narratore onnisciente, a tenere costantemente le fila della vicenda. Della fanciulla ingenua, sedotta e abbandonata, a dispetto delle apparenze, la protagonista non ha proprio nulla: per Frédéric prova una passione non meno travolgente perché esclusivamente fisica; una passione che deliberatamente soddisfa, ma che non la illude nemmeno un istante sulle intenzioni del giovane: la figlia del mezzadro sa benissimo che, finite le vacanze, l’erede dell’avvocato si dimenticherà di lei; non solo: ne indovina lucidamente la fatua viltà.

    Zola scrive la novella su incitazione di Turgenev, che in una lettera del 21 giugno 1877 gli chiede per il «Messaggero d’Europa» qualcosa come «un idillio sul Midi della Francia». E certo nel testo sono frequenti, e commosse, le descrizioni del paesaggio marino, delle luci di Marsiglia nella notte, degli odori della macchia mediterranea, dell’entroterra in parte industriale (le fabbriche di tegole), in parte solcato da gole ancora selvagge (dove è ambientata una scena di caccia degna di un roman-feuilleton esotistico): all’esperienza del villeggiante, trasposta quasi in presa diretta, si sovrappongono i ricordi dell’adolescenza provenzale, delle scorribande nella natura incontaminata in compagnia di Paul Cézanne – anche il pittore, come è noto, ha trascorso a più riprese lunghi periodi all’Estaque, dipingendone negli anni Ottanta alcune celebri vedute. Zola lo dice esplicitamente in una lettera a Huysmans del 3 agosto: «il paesaggio è per me pieno di ricordi, il sole e il cielo sono i miei vecchi amici, l’odore di certe erbe mi ricorda antiche gioie: capirete che la bestia in me è straordinariamente felice». L’autore condivide con i personaggi quella felicità puramente animale cui la narrativa naturalista, per prima, conferisce piena dignità letteraria (e esistenziale): basterebbe questo a stabilire il valore del racconto.

    Ma tutto è, Naïs Micoulin, fuorché un idillio: la protagonista sa che, per liberarsi dal giogo inumano della violenza paterna (peraltro motivata da una brutale gelosia, evidentemente mossa da pulsioni incestuose), non può ricorrere all’aiuto dell’inconsistente Frédéric. Se veglia sull’amante, se riesce a sviare rocambolescamente il colpo sparato da Micoulin con l’intenzione di ucciderlo, lo tiene sempre all’oscuro del dramma: per calcolo assai più che per delicatezza. Si confida invece – come il lettore intuisce alla luce del tragico finale – con Toine, il gobbo, sulla cui passione cieca e masochista sa di poter contare. Con lui stringe un patto di sangue, capace di assicurarle un futuro di libertà, ma agli antipodi di ogni idillica conciliazione, di ogni ottimistico lieto fine. Precocemente sfiorita, moglie di un uomo deforme che ovviamente non può amare (ma che può comandare a bacchetta), Naïs, oggettivamente, non può che essere considerata una miserabile eroina del male: pronta a vendere se stessa per dar corpo all’orrore del parricidio (prima ancora che per dare un padre al figlio eventualmente concepito con Frédéric: ironicamente, le «buone ragioni» del matrimonio con il gobbo sono lasciate alle supposizioni del lettore). Eppure, nello spazio brevissimo di un’estate, la protagonista è splendida di sensuale giovinezza; tenerissima nel suo anelito di felicità; forte e emancipata nella capacità di soddisfare prima il desiderio di piacere fisico, poi quello di libertà. Insieme al padre, che però è chiuso nel bozzolo della sua ferina primitività, Naïs è l’unico personaggio, in tutta la novella, in grado di provare passione, di volere, di agire. Al tempo stesso, e inscindibilmente, è umanissima e «bestia», criminale e innocente: come tutti i più memorabili personaggi di Zola.

    L’amore di Toine per Naïs, invece, prefigura quello di Saturnin, in Pot-Bouille, per la sorella Berthe: pur di essere vicini all’amata, entrambi sono pronti a reggere il moccolo, proteggendo, come cani da guardia, gli amori proibiti delle due ragazze. Ma Toine non è un innocuo alienato come il giovane Vabre: operaio abile, sa provocare la frana della scogliera, al momento giusto per ammazzare Micoulin; agisce da esperto sabotatore, quasi anticipazione del Souvarine di Germinal. Come in altri racconti, anche in Naïs Micoulin una lettura retrospettiva può dunque individuare dettagli che serviranno come materiale da costruzione per i futuri Rougon-Macquart. Ma l’autonomia e l’importanza della novella stanno tutte nella protagonista: solo con la Séverine della Bête humaine Zola saprà (o vorrà) dar vita a un’eroina maledetta, affascinante e complessa, per certi versi paragonabile a Naïs.

    Assai diversa la posizione di Nantas nell’insieme dell’opera zoliana: anziché sinopia di futuro romanzo – come spesso sono le novelle di Verga; come più raramente e parzialmente possono essere anche quelle di Zola –, è smaccato remake di situazioni e temi già sfruttati nei Rougon-Macquart: l’ambientazione nelle alte sfere politiche del Secondo Impero (l’anonimo presidente del Corpo legislativo, che nel testo fa visita al protagonista, è il duca di Morny) riprende Son Excellence Eugène Rougon, mentre il canovaccio della trama è esattamente quello della Curée (1872). Scritto nel settembre del 1878, il racconto è l’anello di congiunzione fra il romanzo delle speculazioni immobiliari (dove il matrimonio di Aristide Rougon, detto Saccard, con Renée Béraud du Châtel è frutto di una transazione mercantile simile a quella che conduce all’unione dello spiantato Nantas con la ricca e nobile, ma compromessa, Flavie) e Renée, la pièce teatrale scritta per Sarah Bernhardt nel 1880 e proposta senza successo nel 1881 alla Comédie Française (andrà in scena solo nel 1887, al Vaudeville, ma senza la diva). Che alcune scene del dramma provengano dalla novella assai più che dal romanzo, è evidente; che il testo narrativo breve sia stato scritto già con l’idea di trasporlo sulle scene, come suppongono alcuni critici, pare invece meno certo.

    Nantas riprende in realtà un’idea esposta, e subito scartata, nel dossier preparatorio della Curée: «Si potrebbe forse introdurre uno studio psicologico. Aristide che s’innamora follemente di sua moglie dopo un certo fatto». Il romanziere precisa immediatamente: «non è nella logica del suo carattere»; e non ne fa nulla. Il Saccard del romanzo è nient’altro che un cinico, impenetrabile a ogni sentimento elevato; è invece Nantas a coniugare avidità di denaro, ambizione politica e passione erotica: realizzando così l’ipotesi narrativa formulata da Zola anni prima, ma rimasta allo stato larvale, nel segreto degli scartafacci preparatori. Rispetto ai Rougon-Macquart, ancora una volta, la novella oblitera il contesto storico: economia e politica passano in secondo piano rispetto al dramma del protagonista, che non è più (soltanto) uno spregevole arrivista, ma un personaggio complesso, non incapace di autenticità sentimentale.

    I topoi cui il testo attinge sono quelli del romanzo di formazione: Nantas è roso da «un’ostinata ambizione di far fortuna»; come il Rastignac delle ultime pagine del Père Goriot balzachiano (Il vecchio Goriot, 1835), lancia la sua sfida direttamente a quella Parigi furiosamente vagheggiata nei lunghi anni in cui, per assistere il padre malato, è dovuto rimanere a Marsiglia a vegetare nello squallore. «Adesso sei mia!», dice il protagonista alla grande metropoli, dopo aver concluso l’ignobile patto che gli darà i mezzi per iniziare la scalata sociale. Da ogni punto di vista, tuttavia, Nantas è un eroe di Bildingsroman fuori tempo massimo: «a trent’anni non era ancora nessuno»; ed è lontana l’epoca – quella, appunto, della Comédie humaine – in cui il percorso ascendente del self-made man era (relativamente) agevole: abbastanza frequente nella realtà storica e, soprattutto, canonico nel romanzo. Nel secondo Ottocento, periodo di concentrazioni industriali e speculazioni finanziarie, gli spazi aperti dalla rivoluzione borghese all’intraprendenza dei singoli tendono, nei paesi economicamente più avanzati, a restringersi progressivamente; e la letteratura, Zola in primis, esibisce di norma sospetto nei confronti delle parabole lineari e vincenti degli uomini che si fanno da sé. Da questo punto di vista, Nantas è l’esatto rovescio dei Rougon-Macquart: il protagonista, come molti eroi di Balzac, è mascalzone per necessità, non per natura o per scelta; non è privo di qualità, non è immune da cedimenti sentimentali; insomma chiede senz’altro al lettore un qualche tributo di empatia.

    Secondo una testimonianza di Jules Vallès – a dire il vero un po’ sospetta, perché posteriore alla novella; ma nella sostanza senz’altro verosimile – il Leitmotiv di Nantas («Io sono una forza») riproduce una convinzione esposta a suo tempo dal giovane Zola, ancora oscuro giornalista di origini provenzali nella Parigi degli anni Sessanta. Oltre che un Rastignac degradato, oltre che un Faust di provincia («Oh! Mi venderei, mi venderei, se qualcuno mi desse i primi cento soldi della mia futura fortuna»), Nantas, il cui nome è imperfetto anagramma di Satan (Satana), può perciò essere considerato anche proiezione autobiografia del suo autore: a condizione di precisare che il semplicistico darwinismo del personaggio, sicuro che «i forti sono comunque vittoriosi», corrisponde forse a una superficiale convinzione dell’uomo Zola, ma è sistematicamente smentito dai migliori Rougon-Macquart; e che l’improbabile lieto fine – Flavie, che per anni nei confronti del marito ha ostentato disprezzo e disgusto, sventa il suicidio di Nantas e gli confessa: «Ti amo perché sei forte» – realizza una fantasia maschile (e, va da sé, spudoratamente maschilista) di appagamento e potere, sempre negata ai personaggi della serie maggiore.

    Nella novella, sembra sospeso ogni principio di realtà, affievolito ogni effetto inibitorio dell’angoscia dell’influenza: per il pubblico russo, Zola può proiettare in una trama balzachiana desideri frustrati e moduli narrativi desueti. Può impunemente riproporre alla fine degli anni Settanta dell’Ottocento la coincidenza in un solo personaggio di ambizione sfrenata e passione romantica; e imporre il trionfo della forza virile in un lieto fine che nulla concede a quelle ambiguità desublimate e frustranti dell’esistenza quotidiana che sono, di norma, la materia prima della narrativa naturalista.

    Del carattere decisamente non naturalista della novella, del resto, sono prova le scelte di tecnica narrativa, tutte riconducibili all’estetica del roman-feuilleton. Non c’è altro testo di Zola in cui i colpi di scena, stupefacenti e smaccatamente inverosimili, si susseguano con altrettanta, sistematica frequenza. Nantas è per due volte salvato in extremis dal suicidio: prima nella sua miserabile soffitta, dall’intervento diabolico della governante-mezzana che gli propone il vergognoso matrimonio; poi, s’è già detto, dall’irruzione salvifica di Flavie, all’explicit. Quando ottiene l’agognata nomina a ministro delle finanze, cancella con «calde lacrime» d’amore la missiva scritta di pugno dell’imperatore: in una scena degna del più stantio mélo. Come in un vaudeville di quart’ordine, il protagonista fa irruzione nella camera della moglie e ci trova, nascosto, l’ex amante della donna: per soprammercato di sensazionalistica inverosimiglianza, del tutto all’insaputa di Flavie. Si potrebbero moltiplicare gli esempi: non senza sottolineare, però, che il riuso di schemi balzachiani e di artifici da romanzo d’appendice non per forza inficia la riuscita estetica del testo; né la sua appartenenza a un immaginario schiettamente zoliano: evidente, quest’ultima, laddove Nantas, alla sua scrivania di grande uomo d’affari e di politico influente, «si sentiva il motore intelligente di una colossale macchina che scuoteva regni e imperi». Se quasi tutte le macchine che campeggiano al centro di molti Rougon-Macquart sono minate dall’entropia e votate all’esplosione, anche sub specie metaforica Nantas offre perciò il rovescio euforico – e forse, in un certo senso, la chiave psicologica – dello Zola maggiore.

    Non meno importante, ma di segno assai diverso, la suggestione autobiografica che è verosimilmente all’origine della Mort d’Olivier Bécaille – senza peraltro escludere l’incidenza non meno importante di numerose fonti letterarie, dal già citato Colonel Chabert, a un racconto di Théophile Gautier, Onuphrius (1832), a un episodio dei Misérables di Victor Hugo (I miserabili, 1862, libro VIII, capitolo vi), in cui è Jean Valejan a provare in vita l’esperienza del seppellimento. Verosimilmente, la storia di Olivier Bécaille attinge il suo nucleo più sinistro a una visione delirante del giovanissimo Zola, colpito, nel 1858, da una violenta e pericolosa febbre tifoidea. Stando a un testo di qualche anno più tardo, Printemps (journal d’un convalescent) Primavera (diario di un convalescente), 1866 circa –, il delirio febbrile era caratterizzato dall’incubo ricorrente di trovarsi imprigionato in una galleria. Di certo, l’angoscia del seppellimento sarà tema decisivo, e memorabile, degli ultimi capitoli di Germinal (1885), dove Étienne e Catherine rimarranno murati per due settimane nelle viscere della miniera inondata; e l’incidente ferroviario tornerà nella Bête humaine (La bestia umana, 1890). La vicenda di Olivier Bécaille, colpito da una sincope, sepolto vivo, e visitato dall’incubo della reclusione ferroviaria (sogna di essere su un treno bloccato in una galleria di cui entrambe le estremità sono ostruite da frane), sembra costituire, almeno in parte, una prima grande orchestrazione narrativa di un motivo claustrofobico i cui esiti, tuttavia, appaiono radicalmente diversi nella novella e nel romanzo: se in Germinal quella di Étienne sarà vera e propria catabasi, discesa nell’universo ctonio della morte, funzionale a una resurrezione simbolica (del personaggio e dell’utopia rivoluzionaria), la sorte di Olivier Bécaille non prevede riscatti – all’insopportabile soffocamento nella bara, segue l’esclusione non meno atroce da ogni consesso umano. Per non distogliere la moglie da un nuovo, vantaggioso matrimonio, il protagonista accetta la sentenza della pettegola madame Gabin («ha fatto bene a morire»), e si rassegna a perdere definitivamente ogni identità sociale: non gli resterà che l’inanità di un’esistenza larvale, nemmeno alleviata dalla disincantata, ma a suo modo quasi giocosa, accettazione ironica, esibita in analoghe circostanze da quel suo discendente diretto che sarà il Mattia Pascal pirandelliano.

    Il fatto è che la novella di Zola, più che all’immaginario sociale, tragico ma aperto alla speranza, di Germinal, è collegata a quello esistenziale, e disperatamente pessimista, della Joie de vivre (La gioia di vivere, 1884): il cui protagonista, Lazare, erediterà il tormentoso terrore della morte che perseguita il fragile Olivier e, prima di entrambi, il loro autore. Zola confessa a più riprese agli amici di essere perseguitato ossessivamente dalla paura di morire; e naturalmente Edmond de Goncourt non si priva del piacere di lasciarne testimonianza scritta nel Journal, per esempio, il 14 dicembre 1880, o il 20 febbraio 1883: dove appare evidente la parentela fra le fobie di Olivier (e di Lazare) e quelle dello scrittore. Parlando di angosciose insonnie accanto alla moglie Alexandrine, Zola confessa che la morte «è sempre al fondo dei nostri pensieri e molto spesso – adesso abbiamo una veilleuse nella nostra camera da letto – molto spesso, la notte, guardando mia moglie, che non dorme, sento che ci pensa, come me; e ce ne restiamo così tutti e due, senza mai fare allusione a quel che pensiamo, … per pudore, sì, per una sorta di pudore… Oh! è terribile, questo pensiero!». Addirittura, «dichiara che per lui è impossibile, a luce spenta, coricarsi fra le quattro colonne del suo letto senza pensare di essere dentro a una bara».

    Del resto, è nota la contraddizione fra il razionalismo positivista del romanziere e le innumerevoli superstizioni, in specie numerologiche, che scandiscono ogni sua giornata: la fiducia nella scienza ha il suo rovescio – sempre distanziato e negato, ma non per questo meno ingombrante – in un assedio dell’irrazionale. Perciò Olivier Bécaille, come già Lazare, si rivela proiezione di un’autobiografia rifiutata. Ma dà anche testimonianza di quel progressivo occultamento della morte che caratterizza, nelle società occidentali, tutta la nostra modernità: nel racconto, quelle che dicono la paura di scomparire sono esplicitamente assimilate a «parole oscene»; e

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