D'Annunzio erotico
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Osceno, disinibito, irriverente, erotomane: sono molti gli aggettivi per descrivere d'Annunzio quando si entra nell'intimo della sua sfera sessuale.
Quest’opera, che l’autore definisce "per non educande", svela un’altra dimensione letteraria del poeta di Fiume, quella relativa alle lettere erotiche che l’autore di Alcione e di La figlia di Iorio inviò alle sue conquiste femminili, mettendo nero su bianco, senza pudore, i pensieri ed i desideri carnali più arditi.
La Chiesa mise all’indice diverse opere del poeta. Cosa avrebbe detto se avesse dovuto giudicare le sue lettere personali o i versi legati al sesso? Possiamo solo immaginarlo.
Corredato da splendide foto di archivio, questo saggio ci conduce nella recondita intimità di d’Annunzio, svelando un altro aspetto della sua personalità contraddittoria e conturbante.
Costanzo Gatta
Giornalista, musicista e regista teatrale (oltre venti i copioni portati in scena, fra gli altri, allo Stabile di Brescia), Costanzo Gatta è uno dei più profondi conoscitori del Vate. Ha pubblicato, tra gli altri, D'Annunzio da Fiume a Cargnacco (2021), Gabriele d’Annunzio zoofilo (2021) e Gabriele d’Annunzio umorista (2019) tutti con la casa editrice Ianieri.
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Anteprima del libro
D'Annunzio erotico - Costanzo Gatta
Costanzo Gatta
D’Annunzio erotico
Introduzione di
Angelo Piero Cappello
© Bibliotheka Edizioni
Piazza Antonio Mancini, 4 – 00196 Roma
tel: (+39) 06. 4543 2424
info@bibliotheka.it
www.bibliotheka.it
I edizione, giugno 2023
e-Isbn 9788869348785
Tutti i diritti riservati.
Foto di copertina e interne per gentile concessione della:
Fondazione Il Vittoriale degli Italiani – Archivio Iconografico
Costanzo Gatta
Costanzo Gatta è un bresciano che nella vita ha avuto la fortuna di fare ciò che ama: il giornalista, il regista ed il musicista.
Da corrispondente di provincia per il quotidiano La Notte è divenuto caposervizio, poi inviato e infine caporedattore centrale.
Nel ‘95, chiuso il capitolo milanese, ha diretto per cinque anni un giornale del Piemonte ed ora collabora con il Corriere. Mezzo secolo di giornalismo.
Per il teatro ha scritto una ventina di copioni, messi in scena dalla compagnia della Loggetta, dal teatro Il Ventaglio e dallo Stabile di Brescia. Sue, inoltre, le musiche di scena per opere di Goldoni, Büchner, Beckett e del Valle-Inclán (Luces de Bohemia, in prima alla Biennale di Venezia, poi ripreso dallo stabile di Sardegna).
Dopo aver scritto una decina di volumi legati a Brescia, i bresciani eccellenti e la cultura della sua città, lo ha catturato il mondo dannunziano.
Anno dopo anno sono usciti cinque libri legati a diversi aspetti della vita del poeta: pittore, umorista, zoofilo, uscocco. E infine D’Annunzio da Fiume a Cargnacco.
A questi si devono aggiungere I voli di d’Annunzio e I piaceri di d’Annunzio scritti a quattro mani con Attilio Mazza.
Introduzione
Gabriele d’Annunzio, l’«amare» sopra ogni cosa
Quello che si è sviluppato, per molti anni, intorno a d’Annunzio non è stato – se non a tratti – un «discorso critico» (come invece è toccato a molti, meno meritevoli, autori del Novecento letterario), più o meno coerente e prolungato. Intorno a Gabriele d’Annunzio si è piuttosto aggrovigliato un grumo, un nodo, uno «gliuòmmero» costituito dalle molte leggende legate di più al personaggio
che alla verità biografico-letteraria dello scrittore
.
Controverso, contraddittorio a volte, discusso e perfino discutibile come personaggio, fu invece indiscutibile il grande contributo apportato alla storia della letteratura tra Otto e Novecento, arrivando ad aprire le strade, sia nella prosa, sia nella poesia e nel teatro, ma anche nel cinema e nel giornalismo, della più autentica e valida modernità novecentesca che lo fece interprete ed anticipatore di tutte le correnti e stili artistici del secolo nuovo. E, purtuttavia, ancor oggi quando si parla di Gabriele d’Annunzio la curiosità s’accende intorno a fatti minimi, marginali rispetto all’opera, forse nemmeno integrativi d’essa: forse è finita la stagione della curiosità intorno al vero nome
(Rapagnetta? d’Annunzio? D’Annunzio?) o intorno ai plagi (copiava dai naturalisti? Dai classici? Dai contemporanei decadenti e parnassiani o dai russi?), sulle stravaganze estetico-mondane (arrivò a possedere oltre 500 capi d’abbigliamento) o sulle pose scandalistiche (cavalcava nudo? Ignorava cosa fosse il pudore intimo?) ma certo non si è mai spenta la curiosità rispetto alle sue vicende erotico amorose.
Gabriele riuscì ad infiammare gli animi e a conquistare migliaia di donne grazie ad un fascino magnetico ed irresistibile. Non fu mai però un buon marito, né un buon padre: troppo tumultuosa la sua esistenza, al cui centro restarono sempre la scrittura, l’arte, la passione per tutto ciò che fosse bello ed elegante. Donne comprese. Migliaia, si disse, le amanti occasionali, ma poche quelle veramente amate e tutte trasfigurate in Muse, tutte eternate nei suoi capolavori.
«Il mio cervello è alimentato dal fuoco degli inguini», soleva ripetere, ribadendo quanto il trasporto sentimentale ed erotico fosse propellente necessario alla sua creatività. Tra le prime e più famose sue muse, allora, ci fu Giselda Zucconi, l’amore della sua «adolescenza anelante e furiante», eternata col nome di Lalla
nella sua seconda raccolta poetica Canto Novo, e poi Elvira Fraternali, sposata Leoni, ma amata dal poeta con il nome di Barbara
, e immortalata nella figura di Ippolita Sanzio del suo romanzo Il trionfo della morte. Dopo l’abbandono del Poeta, morirà sola in un pensionato gestito da suore.
Nonostante le moltissime amanti, fu sposato con una sola moglie, Maria Hardouin di Gallese, immortalata nella poesia Peccato di maggio e che poi gli diede tre figli: Mario, Gabriellino e Veniero. Un’altra figlia, Renata, l’ebbe da Maria Gravina Cruyllas Ramacca Anguissola di San Damiano, principessa siciliana che per lui lasciò la famiglia e alla quale dedicò il suo romanzo capolavoro L’innocente.
Tra le tante muse dannunziane, una però spicca per grandezza e bellezza: Eleonora Duse. Di cinque anni più vecchia di lui, tisica, bisessuale, appassionata e di inarrivabile talento, lo proiettò sull’empireo della drammaturgia europea: fu lei l’ispiratrice di tutti i suoi capolavori teatrali. Lui l’amò senz’altro, ma poi la descrisse impietosamente ne Il fuoco e la lasciò comunicandole, spietato: «Sento nelle fibre più profonde il bisogno imperioso del piacere, della vita carnale, del pericolo fisico, dell’allegrezza». Fine di un grande amore. E in realtà, quella fine era dovuta ad una nuova musa
, la giovane e avvenente Alessandra Starabba di Rudinì, bella e statuaria (che ribattezzerà Nike
, come la Nike di Samotracia), la quale, quando sarà da lui abbandonata, fuggirà in Francia, si farà suora, ma conserverà sempre, tra le biografie dei Santi e i libri di preghiera, le audacissime lettere del suo mai dimenticato amante.
E poi via via fino ad uno dei più brucianti amori della sua Vita, quella contessa fiorentina, che di nome faceva Giuseppina Giorgi Mancini, ma che lui appellerà Giusini
nello splendido Solus ad Solam, una sorta di struggente diario scritto da Gabriele quando la sua appassionata amante finirà nel gorgo della follia, per arrivare a quella che fu la sua ultima Ninfa Egeria: l’attrice del muto Elena Sangro, nome d’arte della vastese Maria Antonietta Bartoli Avveduti che divenne la protagonista del torrido e senile poemetto Carmen Votivum.
Anche quando varcò la soglia della prima senescenza, d’Annunzio non poté smettere di avere al centro del suo universo sensoriale la passione carnale, l’amore nelle sue forme anche più tristi e banali, l’amore mercenario: dopo l’esperienza di Fiume, conclusasi in un tragico Natale di sangue del 1920, si ritirò a Villa Cargnacco sul Lago di Garda, dimora di campagna appartenuta a Henri Thode e che, trasformata e trasfigurata, diventerà il celebre e celebrato Vittoriale degli Italiani. All’interno di quella che fu l’ultima sua opera d’arte, libro di pietre vive
, ancora oggi monumento nazionale al suo genio e alla sua indomita personalità, tra viuzze, slarghi, piazzette e meravigliosi giardini interamente pensati da Gabriele d’Annunzio e realizzati dall’architetto Maroni, l’anziano e ormai stanco poeta fu risucchiato in un gorgo erotico senza fine, vittima di un predace e patetico delirio sessuale aumentato dall’uso smodato della cocaina. E la successione di nomi e volti di muse, ora adorate ora usate per qualche gioco d’amore passeggero, potrebbe essere assai lungo: da una favola d’amore con Angèle Virginie Lager alla mancata relazione a tre con Consuelo Gomez Carrillo Suncin de Sandoval e la domestica, fino ai giochi a tre realizzati con Amelie Mazoyer e alcune altre badesse al passo
, dagli sfoghi sensuali con Angioletta Panizza al rapporto con quella che oggi chiameremmo una escort, Ester Pizzutti. E nella ubriacatura orgiastica degli ultimi anni, una giovane donna spicca su tutte: la Contessa Scapinelli Morasso, Titti
, l’«ultima Clemàtide», fresca e splendente creatura, che gli destò un ultimo singulto d’amore.
Insomma, nelle resistenti trame leggendarie del Vate nazionale quelle amorose ed erotiche spiccano su tutte le altre: e non tanto perché siano storie in qualche modo pruriginose
, utili solo a stimolare una piccante curiosità, ma soprattutto perché d’Annunzio attribuì a tutti quegli incontri uno straordinario valore mitopoietico, l’amare (più che l’amore) come atto generativo della produzione letteraria.
È per questo che, le pagine che seguono, non hanno il valore che si può immaginare, ovvero quello di una rassegna curiosa (benché esperta e documentatissima) intorno all’erotismo dannunziano vissuto in tutte le sue declinazioni; no, il lavoro di Costanzo Gatta che qui segue può e deve essere usato come documento integrativo alla comprensione dell’opera del grande scrittore.
Gabriele d’Annunzio, il vate, l’eroe, l’amante, il venturiero, l’artifex imaginifico di capolavori e di vite inimitabili, non avrebbe potuto produrre l’opera che ha prodotto senza la sua lunga esperienza nell’amare: l’amare i giorni, le donne, i cani, i cavalli, il lusso, le case, l’arte, la musica, l’azione, l’eroismo e l’erotismo. L’amare, insomma, sopra ogni cosa e verso ogni cosa che la vita gli diede: questo fu il segreto del grande scrittore, dell’uomo munifico e dell’artista imaginifico, dell’eroe, dell’amante, del combattente.
Moriva, ottantacinque anni fa, dopo aver scritto di amare la vita, di odiare la decrepita vecchiezza, intento comunque a «capolavorare» alla sua scrivania.
Angelo Piero Cappello
I peccati
«Cinque le dita e cinque le peccata». Il motto orna il cornicione della stanza delle reliquie al Vittoriale. Accanto c’è l’immagine di una mano aperta. Per il padrone di casa i vizi capitali sono cinque, non sette. Avarizia e lussuria non contano, tanto che da loro si è lasciato accompagnare per tutta la vita senza mai ravvedersi né avvertire un senso di colpa. A proposito della lussuria, se è vero che ha brillato nella fornicazione e nell’adulterio non è mai caduto nell’errore del ratto, dello stupro, dell’incesto. E non v’è alcuna traccia di atti d’omosessualità che – parole di Santa Caterina da Siena – «fanno schifo persino ai demoni»(1). Non insospettisca la copia del prigione michelangiolesco che campeggia nella stanza della Leda. Il corpo ricoperto da una tunica femminile non è fantasia sessuale del Comandante. Solo scelta estetica: «Pensa a quel povero Prigione esposto alle intemperie – dice a Maroni(2) – . Credo sia necessario, prima velarlo d’una leggera patina per la quale ho l’esempio della testa calcata al Louvre. Ora è troppo gessoso»(3). E lo schiavo venne ricoperto con un tessuto ricamato in oro.
D’ Annunzio non ha certo risparmiato
le donne che gli son capitate a tiro. Se una era carina ecco che Don Giovanni sfoderava le sue armi. E quasi sempre aveva successo. Eccezione – ma sarà vero? – le minorenni. Almeno a dar retta a Tom Antongini, suo segretario per 40 anni: «Mi si potrà accusare d’aver molto peccato con le femmine, ma mai d’aver amato il fieno in erba»(4).
A Gardone, nel maggio del 1936, un tipo poco raccomandabile cercò di intrappolarlo, assicurandogli che una «donzella del borgo selvaggio», era una navigata puttanella adulta. In realtà era minorenne. A fatto compiuto lo avrebbe ricattato. L’orbo veggente stavolta ci vide chiaro subito. Lo spiega alla Baccara premettendo d’essere «in uno stato di estrema esasperazione». Dice che subito notò nella ragazzina «tutti i caratteri dell’infantilismo». Lampante un episodio: «Era riuscita a scoprire in un angolo scuro della stanza del Lebbroso, una grossa bambola negra. Era frenetica. Cullò, allattò (cercando di schiarirla) la negra, si rotolò con lei sul tappeto, tentò di farla camminare, col rischio di staccarle un braccio, e si abbandonò alle più stravaganti mosse fino al giorno chiaro [...] Allora, io le feci dare la colazione, perché aveva fame. Nascosi la bambola. E, come verso le due l’andava cercando, ordinai bruscamente l’automobile e la rimandai al «natio borgo selvaggio». Ultima considerazione: «io sono malato, vecchio e stravecchio, decrepito, squarquaiolo; ma in questa strana specie di rammollimento cronico (che non è se non un indurimento intempestivo) serbo sottilissimo il senso de ridicolo»(5).
Femmine fino alla morte. Con sottile ironia Franco Di Tizio, squisito dannunzista, annota: «Il poeta non riceveva ormai più nessuno, salvo le donne, che erano l’ultimo tentativo d’ingannare la morte»(6). Si riferisce al 12 settembre 1937 quando, stanco, scrive al buon Maroni: «Giancarlo, ordina a Cama di sparare 21 colpi di cannone dalla Nave mentre il Rogo arde. O malinconia»(7). Passato l’umor nero il settantenne scrive ad Angioletta Panizza,(8) (25 anni): «Se sei tuttora disposta a salire nel covo della belva ti aspetto»(9).
Quanto al peccato di avarizia non s’è macchiato di usura e simonia. In compenso ha brillato nel frodare i creditori. Così come ha ecceduto nella prodigalità, che è poi il vizio di spendere fuori misura o donare con larghezza e senza alcuna riflessione. Dei conti non pagati e dei debiti accumulati, ci rideva. E si riempiva la casa di cose lussuose e spesso più che superflue, per fortuna di buon gusto, visto che gli italiani hanno ereditato tutto. Gli sta a pennello quella locuzione latina – horror vacui – come dire terrore del vuoto. Chi oggi