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Il codice perduto dei massoni
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E-book623 pagine8 ore

Il codice perduto dei massoni

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Info su questo ebook

Un thriller che non finisce mai di stupire

Azione, mistero e storia sulle tracce di una cospirazione millenaria

Jack Monroe è un cacciatore di preziosi oggetti d’arte. Dopo aver tenuto una lezione al Metropolitan Museum di New York, un terribile evento lo sconvolge: assiste all’omicidio del suo amico Urie Roskopf. Il delitto sembra collegato in qualche modo alla cosiddetta “ottava meraviglia del mondo”, la Camera d’Ambra: una leggendaria stanza dalle pareti rivestite d’ambra e oro, scomparsa dalla Russia dopo la seconda guerra mondiale. Roskopf era da anni uno dei massimi conoscitori della sua storia e uno studioso dei documenti relativi a un tesoro incredibile in essa contenuto. Fortunatamente Jack Monroe non sarà solo a cercare di risolvere l’enigma più complicato che abbia mai affrontato, perché Kira, la nipote di Roskopf, intende aiutarlo a fare luce sulla morte del nonno. Se i loro sospetti si rivelassero fondati, la scia di sangue risalirebbe fino all’inquietante società segreta degli Illuminati. Ma non sarà per niente facile sventare i piani di chi da secoli si prepara a una resa dei conti…

La ricerca della camera d’ambra condurrà un cacciatore di antichità sulle tracce di una cospirazione millenaria

«Questo romanzo è vivido come un film. Un perfetto mix di storia, religione e avventura. Prende una storia classica e le restituisce freschezza.»

«Se Dan Brown e Robert Ludlum avessero avuto un allievo, sarebbe stato Gil Cope.»
Gil Cope
Fotografo e regista, ha girato il mondo per immortalare sensazionali immagini. Dalle sabbie dell’Africa fino alla Grande barriera corallina, i suoi scatti per alcuni tra i più importanti brand internazionali si alternano a testimonianze sulle condizioni di vita difficili delle popolazioni più povere. La sua curiosità l’ha fatto finire spesso nei guai, ma ha alimentato la sua fervida immaginazione e l’attenzione ai dettagli grazie alle quali si è deciso a scrivere il suo primo romanzo, Il codice perduto dei massoni, che è stato un grandissimo successo negli Stati Uniti.
LinguaItaliano
Data di uscita14 feb 2018
ISBN9788822718983
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    Anteprima del libro

    Il codice perduto dei massoni - Gil Cope

    PROLOGO

    Santa Sofia, Costantinopoli 18 luglio 1204

    Il prete accettò malvolentieri la morte imminente.

    Inginocchiandosi davanti all’antica cripta, chiuse gli occhi e pregò, non per la sua vita ma per qualcosa di infinitamente più importante: di certo, Dio gli avrebbe concesso il tempo di mettere in salvo la Reliquia. Presto, le orde di crociati veneziani e francesi avrebbero scoperto il suo sotterfugio, trovando l’ingresso delle catacombe. Poi, sarebbe arrivata la profanazione di tutto ciò che era sacro.

    Il prete sapeva fin troppo bene che i barbari erano capaci di tutto. Aveva mani e paramenti ricoperti del sangue dei suoi parrocchiani, massacrati dagli invasori di fede che avevano causato una tale devastazione nella più grande culla della cristianità. Il prete sentì la rabbia montare quando i suoi pensieri andarono a quello che aveva visto negli occhi dei sopravvissuti, perché fu lì che la vera devastazione dei crociati si era manifestata. Nel loro sguardo assente giacevano le vestigia distrutte dello Spirito Umano. Che razza di uomo che considera Cristo il suo Salvatore entrerebbe in un convento per appagare la sua lussuria? O ucciderebbe un bambino per puro divertimento? In quel preciso momento sotto la grande cupola, una delle loro puttane era seduta, nuda, sul trono del patriarca a insultare Dio con i suoi seni nudi, offrendo se stessa in cambio di qualche ricchezza depredata. Dove sarebbero arrivati se avessero messo le mani su quella, la Reliquia più sacra?

    Facendosi il segno della croce, il prete si inoltrò nell’oscurità della camera funeraria e disse con la voce ridotta quasi a un bisbiglio rauco: «Dioniso. Affrettati, non abbiamo tempo».

    Rannicchiato nello stretto passaggio, il bambino tremava dalla paura. Le ombre baluginanti dalla sua lampada a olio riportavano in vita i sacri martiri che con i loro teschi e gli arti spezzati occupavano le nicchie accanto a lui. Spaventato com’era, non voleva lasciare le catacombe poiché anche lui aveva visto quel male venuto dall’inferno. Contando attentamente i tunnel, il bambino si infilò in uno simile a quelli che aveva superato, fermandosi di fronte a una crepa vicino al pavimento. Sapeva cosa c’era ad attenderlo e ne era terrorizzato.

    A pancia in giù, strisciò nella piccola apertura, la testa a pochi millimetri dal tetto irregolare. Con esitazione, sollevò la lampada verso lo spazio cesellato alla fine della fessura. Avvicinandosi, si bloccò a fissare i resti scheletrici del neonato. Facendosi coraggio, spinse da un lato le ossa e perlustrò la pietra liscia con le mani fino a trovare la fenditura. Infilandoci le dita, staccò la pietra, scoprendo una nicchia segreta. Il sale marino gli bruciava nelle ferite aperte sulle mani tremanti, mentre perlustrava la profonda cavità.

    Sollevando il reliquario dalla protezione si domandò perché un oggetto tanto innocuo fosse così importante per il prete. Riponendo la scatola d’argento ossidata in un sacco di tela, il ragazzo se ne andò alla svelta e, non appena emerse dalla crepa, un urlo raccapricciante riecheggiò per tutto il labirinto. In silenzio si insinuò di nuovo nel tunnel, lui si fermò molto lontano dall’entrata e spense la fiamma. Dal suo nascondiglio, scorgeva l’anticamera scarsamente illuminata dove un’ombra imponente svettava sulla figura grinzosa del prete. Si coprì la bocca per soffocare un urlo debole alla vista del sangue che scorreva da un taglio sul collo del prete.

    «Forse questo ti farà aprire quella bocca devota». Il crociato inclinò la grande spada, spingendo la punta affilata sulla ferita aperta. Il prete restò in silenzio. La rabbia si trasformò in collera. Attaccando, il cavaliere colpì il prete, stavolta spezzandogli il braccio e facendolo cadere di faccia sul pavimento.

    «Mostrami dov’è», intimò, spingendolo a terra con la spada.

    Afferrando la torcia del prete, il crociato la agitò verso l’entrata della cripta buia, facendo indietreggiare ancora di più il ragazzo nel tunnel.

    «Ah. E questo cos’è, un topo?», disse ridendo. «Vieni fuori, ragazzo, non devi aver paura di me». Al rifiuto del ragazzo, il soldato afferrò il prete ferito dal braccio fratturato e avvicinò la torcia al suo viso, perché il ragazzo potesse vedere. «Se non vieni lo uccido».

    «Resta dove sei, ragazzo», ordinò il prete. «Sono con Dio adesso».

    Accettando l’inevitabile, il prete si accasciò sulle ginocchia e chiese al suo Signore di proteggere il bambino dal pericolo, poi chiese perdono per i suoi peccati. Il suo sacrificio non sarebbe bastato a sottrarre le Sacre Reliquie della cristianità dalle mani del diavolo.

    Scivolando nel nartece dell’immensa chiesa, Guglielmo di Chartres si riparò dalla massa di invasori confondendosi con le ombre lungo le mura svettanti, rivestite di marmo. Cercando di non respirare il puzzo acre di carcasse putrefatte, escrementi e morte, condusse i suoi uomini verso la galleria perché si rifugiassero dietro una delle quattro colonne centrali su cui poggiava la cupola imponente. Mentre era accovacciato nell’oscurità, una nuova e più violenta ondata di rabbia investì il suo corpo mentre osservava la devastazione. A poca distanza, con indosso vesti lacerate, un serraglio si attardava intorno al prezioso altare, ormai ridotto in pezzi sul pavimento intarsiato.

    Più lontano, una miriade di statue di legno, affreschi e infissi alimentavano un fuoco sormontato da due corpi senza vita, appesi a delle funi. Sul lato, tre uomini gettavano monete sul pavimento, scommettendo su quale dei due corpi anneriti avrebbe preso fuoco prima. Distogliendo lo sguardo, de Chartres si rivolse ai suoi, ordinando a diversi di loro di sorvegliare la sua fuga mentre percorreva i gradini di pietra che lo avrebbero condotto alle catacombe sottostanti.

    Quando il crociato vide de Chartres, stava già indietreggiando, con la testa quasi recisa dal tronco muscoloso. Appena il prete ferito guardò l’uomo che svettava sopra di lui, un’ombra di sollievo attraversò i suoi occhi colmi di dolore.

    «Che Dio ti benedica, Guglielmo. Che Dio ti benedica». Voltandosi verso la cripta, disse: «Va tutto bene. Vieni da me».

    De Chartres rinfoderò la spada e restò in silenzio mentre il ragazzo spaventato emergeva dal tunnel e strisciava verso il prete morente.

    Prendendo per mano il ragazzo, il prete trattenne un respiro forte e profondo quando un’ondata di dolore gli dilaniò il corpo. «Shhh. Sei stato bravo», continuò con voce flebile. «Non c’è motivo di temere quest’uomo». Sentendo la vita sfuggirgli, il vecchio faticò a finire ciò che doveva dire al suo protetto.

    «Dioniso, ora devi ascoltare e comprendere quello che dico. Lui ti porterà alla tua nuova casa, lontano da qui. Non aver paura, vai con lui». Senza curarsi del dolore delle ferite, mise a tacere le proteste del bambino con le ultime forze. «Sii coraggioso, figliolo».

    De Chartres recuperò il sacco di tela e tirò fuori l’umile reliquiario. Finalmente, la Vera Reliquia era di nuovo nelle mani di coloro che avevano il compito di proteggerla. L’Ordine avrebbe assicurato che fosse nascosta al papa, impedendogli così di distribuirne i pezzi a quanti, grazie al proprio rango, si sentivano autorizzati a credere di poter ottenere la salvezza gettando oro ai piedi del pontefice.

    Tenendo fra le mani la Sacra Reliquia, si stupì di quanto fosse simile alla copia che i suoi artigiani avevano creato molti anni prima a Damasco. Restituendo la Reliquia alla protezione della teca, Guglielmo di Chartres sapeva che sarebbe passato ancora tanto tempo prima di percorrere strade familiari. Una volta trovata, gli assicurarono le spie, avrebbero restituito la Sacra Reliquia al Vaticano; era suo dovere assicurare che, al suo posto, inviassero la copia falsificata.

    CAPITOLO 1

    Metropolitan Museum of Art, New York 25 giugno, ore 20:43

    «Niente male».

    L’esternazione inequivocabile arrivava da un onesto gentiluomo di mezza età, curato alla perfezione, in fondo all’auditorium oscurato.

    «Niente di quello che ho sentito stasera cambia la mia opinione su di lui». La replica era del direttore del Met, profondamente sdegnato, ma sempre distinto nell’aspetto, un aristocratico di Boston che rispondeva al nome di Edward Gans. «Semmai, la sua conferenza ha solo inasprito le mie riserve. È una follia bella e buona».

    «Follia o meno, se lo trova, tu farai la parte dell’eroe, Edward».

    Gans si fermò un momento a riflettere sull’affermazione dell’uomo, poi disse in tono compiaciuto: «È un grande se, Morty. Bello grande». Detto ciò, girò i tacchi e andò via.

    Morty Goldman sapeva bene che il direttore disprezzava l’uomo sul palco ma la cosa non gli interessava. Lo scontro in merito alla sua assunzione era stato una battaglia aspramente contestata, conclusasi solo dopo che l’intero consiglio di amministrazione si era riunito per dirimere la questione. La decisione di assumere il famigerato cacciatore di reliquie, Jack Monroe, aveva poco a che fare con i suoi titoli – o con il fatto che fosse, apparentemente, intenzionato a dimostrare di avere nove vite – ma si fondava tutta sulla futura direzione del museo. Goldman sapeva che se qualcuno era in grado di riportare il Met ai fasti di un tempo, quello era l’uomo avventuroso di fronte a lui.

    Credeva che per il museo fosse arrivato il momento di concentrare gli sforzi sul ritrovamento dei tesori del mondo che avrebbero catturato l’immaginazione del pubblico. Quello che il presuntuoso Gans non capiva era che il museo avrebbe continuato su quella brutta china, se non avesse attirato l’interesse della prossima generazione. I bambini cresciuti a mtv e Xbox volevano vedere mostre come Body Worlds di Gunther von Hagens, umani scuoiati e congelati in un polimero trasparente. A loro non fregava niente dell’ultima scultura acquistata a Bougouni o della Valle dell’Indo. Diamine, non importava neanche a lui; era solo robaccia da quattro soldi. Sapeva che per mantenere il prestigio dovevano smetterla di agire come un magazzino incensato e usare più creatività con le mostre. Esposizioni che facevano luce su alcuni dei luoghi e dei periodi più bui della storia, come la vita decadente del Marchese de Sade o le torture dell’Inquisizione spagnola. Era dell’opinione che il museo dovesse svecchiarsi e tirare fuori le palle, per la miseria.

    Morty Goldman si stava giocando la carriera sul fatto di aver trovato l’uomo che poteva farlo.

    L’oratore era bello, nel modo in cui molte donne trovavano attraenti Mick o Bono alla sua età. Doveva avere circa trent’anni, difficile dirlo. I capelli scuri, piuttosto lunghi, ricadevano sul colletto della camicia sbottonato, occhi neri incastonati in un viso abbronzato, con un sorriso che poteva disarmare i suoi tanti critici, e spesso ci riusciva. L’abbigliamento casual rispecchiava i suoi modi, mentre raggiungeva il corridoio centrale dell’auditorium strapieno, con un microfono senza fili tra le mani. Nessuno notò che avanzava con una leggera rigidità, il risultato di un colpo di pistola ricevuto sei mesi prima.

    Jack Monroe era uno dei pochi oratori che avessero mai riempito la sala da trecento posti, in parte grazie al successo inaspettato del suo libro, The Red Merchant, il racconto diretto del recupero di un’inestimabile collezione di opere trafugate alla Germania dalla Brigata dei trofei dell’Armata Rossa, all’indomani della seconda guerra mondiale. Il thriller, tra i best-seller del «New York Times», raccontava nei minimi dettagli il suo sequestro e la successiva fuga dalla mafia russa dopo aver rintracciato le opere presso un mercante di armi a San Pietroburgo. Il secondo motivo di tutte quelle presenze era il film, altrettanto acclamato, basato sul libro, con George Clooney. Sia il libro che il film avevano catturato l’immaginazione del pubblico pagante, ma erano la bellezza e l’arguzia di Monroe ad averlo reso una celebrità.

    La conferenza di quella sera aveva suscitato l’enorme interesse della stampa e del pubblico. I biglietti per La ricerca della Camera d’ambra erano andati esauriti con tre mesi d’anticipo. Il mistero sulla collocazione dell’ottava meraviglia del mondo era il tipo di storia che pungolava l’immaginazione; per Morty Goldman, era il Sacro Graal.

    Nella sala conferenze oscurata, un faretto da teatro seguiva Jack mentre girovagava in quel grande spazio. Su uno schermo che sovrastava il palco vuoto, una presentazione multimediale faceva da supporto visivo alla conferenza, mentre la colonna sonora fatta di canti antichi, diffusi da altoparlanti invisibili, conferiva un senso di intrigo e mistero alla serata.

    «Arriviamo al gennaio del 1945. La Camera d’ambra era rimasta al castello di Königsberg da quando i nazisti l’avevano rubata, nel ’41. Goering è agitato per il suo prezioso possedimento. Gli Alleati bombardano giorno e notte, avvicinandosi sempre più al castello. Dal momento che era comandante della Luftwaffe, sapeva che non c’era modo di fermarli e ordinò che la camera fosse posta in salvo. L’inverno si preannunciava come uno dei più freddi mai visti ma questo non rallentò il gruppo di soldati scelti di Goering.

    All’alba del 15 gennaio, raggiunsero il campo di concentramento più vicino, radunarono alcuni prigionieri e fecero ritorno al castello, dove in poche ore riuscirono a imballare la stanza in ventisette casse di legno. Dopo averle numerate ed etichettate tutte con una svastica, gli uomini caricarono le casse sui camion in attesa, che svanirono nel nulla. Da allora nessuno le ha più viste. Ma il punto è un altro: Goering affidò l’operazione alla direzione delle guardie del corpo di Hitler, le Waffen-ss. La presenza delle ss è importante. Qualcuno sa perché?».

    Aspettò qualche secondo prima di prendere in contropiede con il microfono un anziano signore seduto accanto al corridoio. «Lei che ne pensa, signore? Cosa stava succedendo ai nazisti nell’inverno del ’45?». Il vecchio afferrò la mano di Jack, avvicinando il microfono alla bocca. «Li hanno presi a calci nel sedere, proprio così», disse con un forte accento texano.

    «Di brutto? Come in una cara, vecchia rissa texana, giusto?». Il pubblico rise, essendosi abituato da tempo al suo umorismo asciutto e sarcastico. «Proprio così, le stavano prendendo di santa ragione, esatto», ripeté con una risatina. «I nazisti stavano perdendo la guerra e Goering lo sapeva. Hitler era asserragliato a Berlino, così ordinò alle truppe che lo proteggevano di spostare la Camera d’ambra, fu lì che iniziò la baruffa».

    Guardando il texano con un sorriso, disse: «Mi piace quella parola, baruffa». Percorrendo il corridoio, continuò. «Bene, dunque stanno perdendo la guerra, ma danno la priorità al trasferimento della Camera d’ambra. Ma perché? Che accidenti dovevano farci con quell’ingombrante camera fatta di ambra? Certo era preziosa, ma non era come un quadro o come l’oro, qualcosa che potevano vendere e portare via dalla Germania con il minimo sforzo. Chi avrebbe mai comprato la Camera d’ambra?».

    Jack si fermò a chiedere a una ragazza sorpresa. «Qualche idea?»

    «Uh, no».

    «No? Non sei la sola, niente panico», disse, facendola rilassare con un sorriso.

    «I russi?», gridò una voce indistinta.

    Nel voltarsi, Jack si parò gli occhi con la mano libera e guardò verso il centro dell’auditorium, facendo un cenno del capo all’uomo che aveva posto la domanda.

    «Venderla alle persone a cui l’avevano rubata? Bella pensata. I russi erano molto agitati dal tentativo di ritrovarla. In effetti, fecero arrivare un team di storici al castello di Königsberg dopo una settimana dalla resa dei tedeschi, quindi certo, riaverla era una priorità assoluta per loro. Ma no. L’odio di Hitler per i russi era viscerale. E soprattutto, lui si considerava il protettore della cultura tedesca; non avrebbe lasciato che la camera tornasse in loro possesso. No, io non credo che lo scopo fosse il denaro. Quindi? La camera poteva avere un altro valore? Un valore che non era monetario o culturale?».

    Schiacciò un pulsante sul telecomando, cambiando la foto sullo schermo. Dall’oscurità emersero la famosa squadra e il compasso simboli della massoneria.

    «Credo che la camera non fu costruita soltanto per la sua bellezza. Ma per quale motivo? Ricordate che Spielberg non era ancora nato, i nazisti non cercavano di riportare in vita i dinosauri da una mosca imprigionata nell’ambra».

    Mentre la platea rideva, Jack tornò sul palco e si fermò sotto il grande simbolo di uno degli ordini più segreti del mondo. Oltre a conoscere gli Shriners, con le loro macchine sgangherate e i fez dorati con le nappe, immaginava che le persone non sapessero molto sui massoni. Si chiedeva cosa avrebbero pensato sapendo che un simbolo massonico, simile a quello sopra la sua testa, era stato scoperto in dipinti risalenti a prima di Cristo.

    «Non è un segreto che Hitler e i suoi seguaci fossero attrattati dall’occulto. Quello che forse non sapete è che tra i primi sostenitori di Hitler c’erano membri di una società segreta chiamata La Confraternita della società della morte o Società Thule. Quest’ordine aveva forti legami con i massoni. E ora viene il bello, gente: i massoni ci hanno portato dritti agli Illuminati, che alcuni considerano l’organizzazione segreta più importante del mondo. Per chi non hai mai sentito parlare degli Illuminati, sembrerà un tantino assurdo, ma vi assicuro che è vero.

    Riunitisi nel xviii secolo, i membri fondatori degli Illuminati erano persone di scienza e accademici che formarono l’ordine segreto dopo essere stati perseguitati dalla Chiesa cattolica. Questi intellettuali di una nuova epoca costituivano una forte minaccia al potere della Chiesa e così furono processati come eretici, per aver esposto idee contrapposte agli insegnamenti della Bibbia. Il più illustre era Galileo. Dopo una persecuzione implacabile, fuggirono dall’Italia e trovarono rifugio presso i massoni, assumendo ben presto il controllo del gruppo, ottenendo l’accesso a ogni livello della società. Con il tempo sono diventati molto potenti. Molti credono che gli Illuminati esercitino tuttora un’influenza, persino un controllo, su quasi tutti i media del mondo nonché sui gruppi bancari internazionali e sulle politiche governative, compresa quella degli Stati Uniti. Sono convinti che queste politiche ci stiano avvicinando sempre più a un unico governo mondiale. Una sorta di grande fratello orwelliano, ma con la pubblicità».

    In prima fila, un uomo corpulento e calvo si accigliò scuotendo la testa. Voltandosi, si guardò intorno per vedere se quel mucchio di stronzate convinceva qualcuno. Jack lo notò e si domandò se nel pubblico c’erano altre persone in grado di sondare quello che stava insinuando. Per quanto parlare dell’esistenza degli Illuminati fosse una provocazione, era molto probabile che l’intera platea, o quasi, condividesse lo scetticismo di quell’uomo. Era molto più facile, e molto meno inquietante, continuare a ridurre gli Illuminati a una leggenda metropolitana, o poco più, o ai vaneggiamenti di quattro profeti dell’apocalisse. Non lo biasimava. Gli Illuminati erano stati descritti nei libri e nei film con così tante sfaccettature, che quasi tutti tendevano a screditare l’organizzazione appellandosi alle idee più improbabili che la riguardavano.

    Jack si avvicinò all’uomo calvo in prima fila. «Signore?».

    L’uomo si voltò, sorpreso di essere chiamato in causa.

    «Innanzitutto, grazie per essere venuto stasera», disse sorridente.

    «Non c’è di che», rispose l’uomo con un filo di voce.

    «Sammy, potresti dare un microfono al signore, per favore?». Dal fondo dell’auditorium una giovane stagista raggiunse l’uomo e gli consegnò un microfono.

    «Quale punto della possibilità di una società segreta trova difficile da accettare, signore?»

    «Be’, tanto per cominciare, l’idea che Washington sia manipolata da una specie di cabala internazionale è folle. Non siamo in Medio Oriente, per la miseria».

    Ci fu qualche acclamazione, un paio di commenti urlati e un applauso svogliato.

    Morty Goldman era in fondo all’auditorium, con il sorriso a trentadue denti di chi sapeva che il pubblico adorava quella roba. Jack aveva fatto una digressione nella storia, l’aveva infarcita con una bella dose di dramma, et voilà, il pubblico era ammaliato. Goldman lasciò l’auditorium sorpreso dalla capacità di persuasione di Jack. Raggiungendo il backstage fece del suo meglio per contenere le aspettative, ma era impossibile.

    «Be’, signore, sono qui a chiederle di ripensarci. L’idea degli Illuminati non è così inverosimile come pensa. Potrei parlare ore della Banca Mondiale o della Commissione Trilaterale, o di come le fusioni e le acquisizioni degli ultimi dieci anni abbiano consolidato i media, gli organi di stampa, la pubblicità, l’assistenza sanitaria e così via. Cavolo, ogni volta che c’è un conflitto nel mondo, al distributore di benzina vediamo gli effetti del consolidamento dell’industria petrolifera. Ma rispetto alla sua osservazione, si potrebbe dire che la crociata intrapresa da questa amministrazione per diffondere la democrazia sia speculare all’obiettivo degli Illuminati di stabilire un unico governo mondiale. E intendo dimostrarlo nel mio prossimo libro».

    Jack rise insieme alla platea. «Per ora, dirò soltanto questo… Ho motivo di credere che la cerchia di Hitler contava anche membri degli Illuminati, incluso Goering, e che i nazisti furono gli ultimi a entrare in possesso della Camera d’ambra. I nazisti sono spariti mentre gli Illuminati sono ancora tra noi, dunque? Da qualche parte gli Illuminati sono in possesso della Camera d’ambra. È pura logica. Ma le vere domande sono: perché ce l’hanno loro? E dove diavolo si trova?». Monroe fece una pausa per enfatizzare le parole successive.

    «Vorrei saperlo. Sul serio. È un mistero. Ma adesso con il generoso sostegno del Met, è un mistero che intendo risolvere». Jack aspettò che l’applauso scrosciante finisse.

    Morty osservava il pubblico dalle quinte, con un sorriso beffardo. Era colpito dal modo in cui Jack riusciva a convincere una platea, qualsiasi platea, e farla avvicinare alle sue idee, per quanto stravaganti. Lo scenario che descriveva era proprio il giusto mix tra fatti reali e ipotesi, quanto bastava per darvi credito, ma Morty sapeva che quella credibilità dipendeva dalla reputazione di Jack.

    «Oggi la Camera d’ambra vale mezzo miliardo di dollari, milione più milione meno, quindi il Met potrebbe avere un interesse non del tutto altruistico nel voler ritrovare l’ottava meraviglia del mondo. Ma, poi, quando mai lo hanno avuto?», domandò Jack con una risata.

    «Ora, se pensate di essere i prossimi Indiana Jones, ricordate», disse imitando l’accento di Sean Connery. «Molti uomini hanno sacrificato la loro vita per trovare la Camera d’ambra, Indi. Alcuni, mi duole dirlo, non sono mai tornati. È una missione molto pericolosa, figliolo».

    Poi Jack aggiunse, stavolta senza sorriso né accento: «Mi avete sentito congetturare un bel po’ stasera, ma quello che so per certo è questo: la ricerca della Camera d’ambra nasconde un pericolo concreto. Ha già causato quattordici morti; io stavo per essere il quindicesimo».

    Marocco Sei mesi prima

    L’incontro era stato organizzato da un contatto rintracciato da Monroe in Egitto. Doveva essere un accordo diretto per acquistare un deposito segreto di documenti tedeschi redatti nel 1918 da Rudolf von Sebottendorf, fondatore della Confraternita della morte. Apparentemente quei documenti spiegavano nel dettaglio i rituali segreti del nuovo ordine, molti dei quali erano copiati dalla Societas Rosicruciana, una società che praticava una forma di magia sessuale satanica, fondata in Inghilterra nel 1867 da un massone, Robert Wentworth Little. L’autenticità dei documenti, se provata, avrebbe corroborato la sua teoria di un collegamento tra i leader nazisti e i massoni.

    Il fatto che non avesse fissato il luogo dell’incontro in anticipo faceva agitare Jack ma le sue istruzioni erano chiare: una macchina sarebbe passata a prendere lui e la sua socia in hotel e li avrebbe portati dal contatto. Sospettoso di chiunque mostrasse un interesse ingiustificato verso di loro, Jack seguì il socio nell’atrio ormai squallido, per un cortile stretto, verso la berlina ferma nel caldo soffocante. «Dove andiamo?», chiese all’uomo magro e borioso vicino alla macchina.

    L’arabo strizzò gli occhi severi per via del fumo della sua sigaretta e sibilò in francese: «Mani sul tettuccio».

    Jack e la sua socia obbedirono. Il giovane uomo barbuto li perquisì sommariamente alla ricerca di armi, poi aprì la portiera. «Tenete la testa bassa. Non fatevi vedere».

    Costretto a piegarsi sul sedile posteriore, Jack sapeva che erano nei guai. Al volante, un altro uomo, con indole e comportamento simile, mise in moto la macchina e si allontanò a tutta velocità, lasciando dietro di sé una sottile nuvola blu di gas. Mentre la berlina scalcagnata avanzava in quel dedalo di strade strette, antiche, Jack allungò la mano sotto il sedile cercando qualcosa, qualunque cosa, da poter usare come arma. Niente. La macchina continuò su quelle strade perlopiù deserte e buie per un po’, prima di arrancare su una collina scoscesa e fermarsi all’improvviso. L’autista spense il motore e gli uomini uscirono. Jack sentiva il battito aumentare; per l’ansia il viso e la camicia si bagnarono di sudore mentre aspettava sul pianale.

    «Muovetevi», ordinò l’autista aprendo lo sportello posteriore. Una pesante umidità, mista al tanfo delle fognature a cielo aperto, non offriva sollievo dall’odore acre di sudore e colonia da quattro soldi che riempiva l’abitacolo. Quello che fumava indicò con la pistola una scalinata fatiscente, in fondo al vicolo buio di fronte a loro. Infilandosi nel passaggio, Jack si maledisse per non aver seguito l’istinto. Avrebbe dovuto saperlo.

    Aveva sottovalutato il pericolo e ora l’unica scelta che avevano era correre o sarebbero morti in quel buco abbandonato da Dio. Valutando le sue opzioni, seguì a ruota la sua socia che stava per arrivare in cima alle scale. Gli uomini erano troppo inesperti per essere cauti come avrebbero dovuto. Voltandosi di scatto, usò il corrimano come leva e sferrò un calcio al più vicino dei due sulle scale, dietro di lui. Il piede colpì la gola dell’uomo proprio sopra la cartilagine della laringe, sfondandola; a causa della potenza del colpo i due assassini ignari ruzzolarono per le scale, formando un ammasso aggrovigliato.

    Correndo a perdifiato in quel labirinto di vicoli bui, coperti di rifiuti, Jack e la sua socia cercarono invano una via d’uscita da quel quartiere sconosciuto. Poco dopo, sentì un sibilo acuto. I loro inseguitori avevano allertato gli altri. Col fiato corto, i due rallentarono il passo, percorrendo un vicoletto fino a raggiungere un piccolo cortile. Il primo proiettile mancò di poco la testa di Jack. Il secondo lo mise al tappeto. L’ultima cosa che ricordava prima dell’oscurità era la sua partner circondata da uomini armati.

    CAPITOLO 2

    Metropolitan Museum of Art, New York 25 giugno, ore 21:43

    Finita la conferenza, Morty Goldman applaudiva dietro le quinte mentre Jack salutava per un’ultima volta il pubblico, prima di scendere dal palco.

    «Geniale, Jack. Assolutamente geniale», disse Goldman, stringendo entusiasta la mano dell’amico.

    «Grazie, Mort». Prendendo l’asciugamano da un macchinista, si tamponò la leggera patina sul viso. «Il Met otterrà un bel po’ di pubblicità: Il Met alla ricerca della Camera d’ambra».

    Erano tutti sorrisi mentre s’inoltravano dietro le quinte dove due coppie aspettavano all’ingresso del camerino, a pochi metri da loro. Morty afferrò Jack per un braccio e si fermò. «Ascolta, so che mi ucciderai, ma ci sono due sponsor che vorrebbero incontrarti prima che tu te ne vada».

    Con un’occhiata alle spalle di Morty, vide due coppie che gli sorridevano. Una delle due donne, Jack non sapeva dire quale, aveva così tanto profumo che riusciva a sentirlo da lì. Forse quella con la voce insopportabile e il vestito troppo stretto.

    Accigliato, guardò prima l’orologio, poi Morty. «Sarei davvero tentato, ma non ho tempo ok? Ho un appuntamento; dovrai occupartene per me».

    Morty restò sorpreso. «Jack, devi aiutarmi qui. L’ho promesso».

    «Sul serio, sono in ritardo». Con una pacca sulle spalle dell’amico, gli consegnò l’asciugamano bagnato e andò verso la porta. «Ti devo un favore, Mort».

    «Uno solo?», disse Morty, guardando l’asciugamano tra le sue mani senza sapere cosa farsene.

    Jack uscì dall’edificio e percorse l’enorme scalinata principale in tutta fretta verso la Quinta Avenue, poi andò verso sud entrando a Central Park dalla Settantaduesima Strada. La serata estiva era calda e l’umidità quasi assente rendeva rinvigorente quella passeggiata. Attraversando il parco ne approfittò per smaltire un po’ di adrenalina della sua performance e ricaricarsi per l’incontro con il suo amico, Urie Roskopf. Lo storico dell’arte famoso in tutto il mondo gli aveva lasciato un messaggio nel pomeriggio in cui diceva che era a New York e gli chiedeva di incontrarlo per un drink dopo la conferenza.

    L’improvviso arrivo del suo amico aveva colto Jack di sorpresa. Da quando era andato in pensione, lasciando il posto di direttore del dipartimento per il recupero dei reperti rubati alla casa d’aste Mayfair & Stuart di Londra, aveva cercato invano di convincere il vecchio amico a fargli visita. Non era da Urie farsi vivo all’improvviso. Nonostante il comportamento sospetto dell’uomo, era stata la sua affermazione criptica sulla Camera d’ambra a turbare di più Jack.

    Andrew Wajda era incazzato. Già guidare su Times Square era abbastanza difficile ma adesso, con il presidente che presenziava a uno show, il traffico era atroce. L’immigrato polacco aveva solo diciassette minuti per arrivare a destinazione. Trentadue isolati. Poteva farcela. Superando a suon di clacson il rosso dei semafori, percorse i due incroci successivi per fermarsi al semaforo sulla Quarantaduesima.

    Una donna entrò nel taxi prima che Wajda potesse bloccare gli sportelli, interrompendo il litigio al telefono soltanto per fornire le indicazioni. «Settantunesima e Park».

    Studiando dallo specchietto retrovisore la sua cliente in abiti firmati, il volto del tassista s’incupì di disprezzo.

    «Non sono in servizio», disse con un forte accento polacco.

    Rovistando nella sua borsa Prada, la donna prese venti dollari e li lasciò cadere sul sedile anteriore con la nonchalance di una madre che asciuga il moccio al naso gocciolante del figlio.

    «Parti», disse, molto seccata.

    «Signora, non posso portarla. ok?».

    La donna ricambiò con uno sguardo che diceva: Ehi, coglione, non vedi che sono al telefono?.

    Quattordici minuti.

    Wajda scrollò le spalle. «Fottuti americani», mormorò a bassa voce. Immergendosi di nuovo nel traffico, puntò all’Ottava Avenue, si fece largo intorno a Columbus Circle, poi continuò a nord su Central Park West.

    Otto minuti.

    La principessa nel sedile posteriore era troppo presa dai suoi problemi per accorgersi che il conducente non aveva attivato il tassametro o che aveva superato l’entrata del parco che lo avrebbe portato verso est. Sette minuti dopo, superò a tutta velocità il Dakota, sulla Settantaduesima, gli occhi non smettevano di perlustrare il marciapiede alla sua sinistra.

    Trentatré secondi più tardi, accelerò.

    Seduto al tavolino del bar, Jack ordinò un altro drink al cameriere, poi controllò l’orologio. Urie non era un tipo ritardatario. Stava per chiamarlo al cellulare, quando vide l’amico a metà isolato. Nel momento in cui si accorse del taxi sfrecciante era già troppo tardi. Invadendo il marciapiede affollato, il taxi piombò su Urie, schiacciando l’uomo gracile contro un edificio e uccidendolo sul colpo.

    Andrew Wajda ignorò le urla della donna dal sedile posteriore; doveva concentrarsi. In mezzo alla folla impazzita, vide un uomo correre verso di lui: era inaspettato, ma non inquietante. Infilando la mano sotto il giornale al suo fianco, cercò la sicurezza della sua arma. Se c’era una cosa di cui l’autista andava fiero, era la sua abilità di cogliere occasioni che nessun altro vedeva. Se erano disposti a pagare diecimila dollari per un uomo solo, chissà quanto avrebbero sborsato per il secondo? Forse avrebbe potuto permettersi una piscina; l’estate era stata troppo calda per la sua adorata Chayla. Sollevando il mitra, l’autista lo puntò all’uomo che solo pochi secondi prima si stava godendo uno scotch invecchiato trent’anni con ghiaccio.

    Jack capì di essersi accorto troppo tardi dell’arma.

    Solo quando il sangue cominciò a colare dai due fori sulla fronte dell’autista, Jack capì perché non era morto. Con la coda dell’occhio, vide i movimenti rapidi di qualcuno che usciva dall’ombra.

    «Ehi. Non restartene impalato», disse una donna dall’accento inglese. Voltandosi, Jack restò di stucco quando vide una donna affascinante, dai capelli biondi e corti, impegnata a cercare il battito inesistente del corpo inerte. «Dannazione, Jack», disse guardandolo. «Mi farebbe proprio comodo il tuo fottuto aiuto».

    Nonostante la parrucca, il trucco pesante e lo sguardo infuriato, Jack riconobbe la donna con la pistola. L’aveva delusa in Marocco; non lo avrebbe fatto di nuovo.

    La coppia di mezza età, che aveva l’aria di venire dal Kansas, era seduta a diversi tavoli dal luogo dell’incidente, impietrita. Ma per ragioni completamente diverse da quelle degli altri turisti, che solo qualche secondo prima avevano assistito alla tragica morte di un uomo investito da un taxi impazzito. No, erano sconvolti dalla donna affascinante che aveva ucciso l’autista. Quel compito spettava a loro.

    CAPITOLO 3

    W Hotel, New York 26 giugno, ore 00:03

    Quando l’architetto David Rockwell fu incaricato di creare un rifugio in una delle città più caotiche del mondo, la sua ispirazione furono i quattro elementi base della natura: terra, aria, fuoco e acqua. Ciascuna delle raffinate ed eleganti suite dell’albergo abbondava di ricchi tessuti broccati, parati e tappezzeria dai toni naturali. Con una rilassante illuminazione indiretta, chaise-longue imbottite e letti sfarzosi ricoperti di cuscini, non potevi fare a meno di sentirti un pascià; mancavano solo l’hashish e l’harem.

    Jack Monroe non si sentiva un pascià; non sentiva niente. Con la mente che vagava, era seduto in mezzo ai cuscini decorativi sul divano, a fissare le finestre del trentaduesimo piano. La suite offriva una vista maestosa sulla città, in particolare sull’Empire State Building. In uno di quei rari momenti dove uomo e natura s’incontrano per creare un quadro di meraviglioso splendore, i piani superiori dell’edificio pieno di luce erano avvolti da un banco di nebbia brillante. Distratto, Jack non se ne accorse. Nella sua mente correvano le immagini degli eventi di quella sera: la conferenza, la passeggiata per il parco, lo scotch, il saluto amichevole di Urie, l’incidente, i colpi di pistola. A quell’ora doveva essere al terzo drink, impegnato in una chiacchierata spensierata per recuperare il tempo perso con il vecchio amico.

    Nella realtà, la sua mente faticava ad accettare che il suo caro amico era morto; si chiedeva cosa avesse a che fare con l’omicidio il pezzo di ambra che teneva fra le mani. Considerato tutto ciò che sapeva sulla Camera d’ambra, era certo che il pezzo grande quanto una cartolina che aveva trovato nella valigetta di Urie Roskopf appartenesse al capolavoro perduto. Ma come avesse fatto Urie a entrare in possesso di un frammento dell’ottava meraviglia del mondo restava un mistero. Jack sapeva bene che nel corso degli anni erano emersi diversi oggetti attribuiti alla Camera d’ambra, ma non gli risultava che avessero mai trovato un frammento delle pareti.

    Spostandosi sul bordo del divano, studiò quel pezzo di storia alla luce di una lampada. Toglieva il fiato. La luce calda rivelava con una chiarezza sconvolgente la maestria profusa nella creazione dell’opera d’arte. Ricavando numerosi pezzi di ambra baltica, gli artigiani avevano unito sapientemente le diverse sfumature di resina per formare dei pannelli a mosaico simili a vetrate colorate. Retroilluminato dalla lampadina incandescente, il frammento irradiava lo spettro completo di un sole settembrino, facendogli immaginare cosa dovesse essere la Camera d’ambra durante il regno di Caterina i, quando era illuminata solo da candele.

    Un forte colpo alla porta riportò Jack dalla Camera d’ambra alla suite dell’hotel. D’un tratto, la stanza spaziosa era diventata claustrofobica. Con movimenti rapidi, afferrò la Beretta 9mm di Kira dal tavolino e chiuse la porta della camera da letto nel cui bagno la donna stava facendo una doccia. Si avvicinò piano all’ingresso e si schiacciò contro il muro. Tenendo l’arma con entrambe le mani contro il petto, aspettò.

    Il secondo colpo fu più forte, così come la voce affettata che proveniva dal corridoio. «Servizio in camera».

    Jack osservò il cameriere dallo spioncino, poi rilassò le spalle e mormorò un’imprecazione. Con la pistola sotto la camicia, aprì la porta sfoderando uno dei suoi tipici sorrisi per il cameriere, impeccabilmente curato, che portava su un vassoio d’argento una bottiglia di Glenfiddich, un secchiello del ghiaccio e due bicchieri tumbler.

    Addebitando la bottiglia alla camera, chiuse la porta proprio quando Kira entrò nell’area soggiorno, tamponandosi i capelli con un soffice asciugamano bianco.

    «Pensavo che ci servisse proprio un drink», disse, gettando l’asciugamano bagnato sul letto.

    Senza trucco pesante e parrucca, Jack si ricordò di quanto fosse bella. Il suo classico viso mediterraneo, con la pelle olivastra e liscia, gli zigomi alti, i lineamenti scuri, erano ancora più straordinari a contrasto con la camicia color crema che indossava. I setosi capelli neri le ricadevano sulle spalle, incorniciando due occhi color onice che erano invitanti, ma che se provocati diventavano impenetrabili come la pietra preziosa. A giudicare dal suo portamento, era chiaro che l’aplomb dell’ex ufficiale dell’intelligence d’Israele non dipendeva dalla sua bellezza ma dalla sua educazione, dall’addestramento e dall’intelletto. Una delle cose che Jack ammirava di più in Kira era il fatto che la sua sicurezza veniva presa raramente per arroganza. La donna non aveva bisogno di conferme e agiva di conseguenza.

    «La reazione dell’ambasciatore è stata quella che mi aspettavo». Kira versò lo scotch, ne passò un bicchiere a Jack, poi si sistemò su una poltrona imbottita di fronte a lui. «A un certo punto», proseguì, «e credo che succederà presto, dovrà parlare con le autorità e dire loro chi era Urie. Ho guadagnato un paio di giorni cancellando i suoi dati identificativi…». La sua voce si affievolì vedendo l’espressione sul volto di Jack.

    «Di cosa stai parlando?», disse con un tono apatico.

    Kira esitò: complice l’esperienza, si chiedeva quante informazioni rivelargli.

    «Prenditi il tuo tempo». Jack sfoderò un ampio sorriso, lasciandole intendere che sapeva a cosa stava pensando. «Sono certo che alla fine mi dirai perché il simpatico tizio del taxi ha ucciso tuo nonno e poi mi ha sparato con il suo Uzi».

    Kira scosse la testa e ricambiò il sorriso. Per evitare di rispondere, pose un’altra domanda: «Sapevi che mio nonno era stato a Venezia da poco?»

    «Avrei dovuto?»

    «No, probabilmente no», disse sorseggiando il suo drink. «Tre giorni fa è stato agli archivi Cannaregio. Quando gli ho chiesto perché, ha negato. Mi ha mentito».

    Nonostante la luce fioca dell’abat-jour, Jack vide il dolore del tradimento nello sguardo di Kira. Sporgendosi, aggiunse altro ghiaccio al suo drink, chiedendosi quali possibili contingenze avevano portato l’uomo a mentire a una persona che gli era così vicina. Urie e sua moglie, Alexandra, si erano occupati della nipote sin dalla morte dei genitori, avvenuta in un attentato terroristico sulla Striscia di Gaza quando lei aveva solo cinque anni. La bugia in sé non era proprio estranea al carattere dell’uomo; era molto bravo nell’arte dell’inganno. Anzi, Urie era diventato un vero maestro; nel suo ambito lavorativo doveva esserlo. Penetrare la coltre di segretezza e sospetto che circondava i fornitori di opere d’arte rubate richiedeva ingegno e astuzia e lui ne aveva in abbondanza. Abilità affinate grazie ai decenni passati a cercare le opere rubate dai nazisti durante le razzie sistematiche delle collezioni europee più importanti. Ma le impiegava solo nel suo lavoro; Jack proprio non si spiegava perché l’uomo avesse sentito il bisogno di mentire a Kira.

    «Come sai che era stato a Venezia?», domandò, appoggiandosi al divano.

    «L’ho seguito», disse lei freddamente. «Ha passato due giorni agli archivi Cannaregio poi è tornato in Inghilterra. Non ho insistito per ottenere una spiegazione».

    Jack si accigliò. Perché da Mayfair & Stuart avrebbero dovuto affidare a Kira il compito di seguire Urie? In quell’incubo niente sembrava avere un senso.

    Come se leggesse i pensieri di Jack, continuò: «Non era ufficiale. Kingston non sapeva del mio viaggio a Venezia. Non lo sa ancora».

    «Dunque, deduco che lui non sappia della tua presenza qui».

    «No».

    «Be’, sarà una telefonata interessante», disse con un mezzo sorriso.

    «Andrò da Kingston solo quando avrò qualcosa da dirgli. E, anche allora, gli farò solo un maledetto favore; adesso non ho idea di che diavolo sta succedendo».

    Jack conosceva bene il rapporto tempestoso fra Kira e il direttore della casa d’aste di Londra, William Kingston, perciò non era affatto insolito per lei tenerlo all’oscuro il più possibile. Eppure, alla luce del fatto che Urie e il padre di Kingston, Sir Richard Kingston, avevano lavorato insieme per rendere la Mayfair & Stuart una delle più importanti case d’asta del mondo, lo sorprese che lei non mettesse da parte le loro divergenze per comunicargli i suoi timori.

    «Ma perché tutta questa segretezza? A Urie non serviva uno chaperon; sapeva quello che faceva».

    Sapeva. Faceva. Passato. Kira fece roteare il ghiaccio mezzo sciolto nel bicchiere, evitando lo sguardo di Jack e le proprie emozioni. «Non sapeva di essere seguito a Venezia», disse. «E ieri dopo essere atterrato a Londra, è stato tallonato dall’aeroporto».

    «Oh», disse Jack con aria interrogativa. «Hai idea di chi sia stato?».

    Kira scosse la testa. Quando rispose, la sua voce tradì una certa ansia. «Non lo so proprio. Ma erano bravi, professionisti senza dubbio. Poteva essere chissà quale agenzia, cia, nsa o mi6. Oppure un privato. Chi lo sa, si è fatto tanti nemici lungo la strada».

    Monroe era d’accordo. Rintracciare opere d’arte rubate era un lavoraccio. E non passi sessant’anni a far luce nei luoghi più oscuri senza far incazzare gente che conta. «Perciò avevi ragione, era nei guai. Ma cosa ti ha fatto agitare all’inizio? Perché hai cominciato a seguirlo?»

    «Raggiungerlo stava diventando impossibile, ero preoccupata. Tecnicamente lavorava per me adesso; volevo sapere che stava facendo. Alla fine, ha accettato di cenare insieme ma non aveva una bella cera. Aveva gli occhi spenti e il viso contratto. Gli ho chiesto perché, e mi ha detto che era un po’ sottotono. Ma non era solo il suo aspetto. Mi sembrava depresso. C’è un’altra cosa: al ristorante ho notato che qualcuno ci osservava».

    Kira guardò Jack, il viso scavato dall’angoscia. «Qui non ho visto la sorveglianza. Ho visto il taxi solo dopo che lo aveva travolto». Con un enorme sforzo per prendere le distanze dal suo rimorso, ricacciò indietro le lacrime e continuò: «Mio nonno era qui per incontrarti. Perché?».

    Jack continuava a sorseggiare il suo drink. Per quanto ci provasse, non riusciva a decifrare il messaggio criptico di Urie. «Non lo so».

    «Ma avrai un’idea», disse, con un cipiglio interrogativo.

    «In parte. Ha lasciato un messaggio dicendo che mi avrebbe svelato la verità sulla Camera d’ambra».

    «La verità?»

    «È ciò che ha detto, ma non so a cosa si riferisse. Lascia che ti chieda una cosa», continuò, raccogliendo il frammento d’ambra dal tavolino e passandolo a Kira. «Lo hai mai visto prima?»

    «No, non mi sembra». Kira studiò l’oggetto ancora per alcuni secondi, poi lo rimise sul tavolo. «Che cos’è?»

    «Fa parte della Camera d’ambra. Era nella valigetta».

    «Cosa? Come avrebbe fatto mio nonno ad avere un pezzo della Camera d’ambra?»

    «Sono sorpreso quanto te, questo pezzo proviene senza dubbio dalla Camera d’ambra. Non ho mai visto niente di simile. Questo tipo d’intaglio è un’arte perduta».

    Appoggiandosi ai soffici cuscini, sorseggiò il drink e disse: «Ovviamente, chiunque abbia ucciso Urie voleva impedirgli di dirmi qualcosa sulla Camera d’ambra».

    «Urie voleva svelarti la verità. Ha detto proprio così?»

    «Sì».

    Kira annuì. «Ma la vera domanda a cui dobbiamo rispondere è: per quale bugia si è fatto ammazzare?».

    Un brivido percorse la schiena di Jack. Era difficile immaginare che Urie gli avesse mentito, ancora più difficile immaginare che lo avevano ucciso perché voleva ritrattare. «La bugia non è esattamente un buon presupposto alla verità. Può darsi anche che abbia scoperto qualcosa di fondamentale riguardo la Camera d’ambra. Qualcosa di cui aveva la certezza assoluta».

    «Tipo?», domandò lei con una smorfia perplessa.

    «Tipo cosa ne hanno fatto i nazisti, tanto per cominciare. Ci sono un mucchio di teorie su quello che è successo alla camera dopo la guerra. La più diffusa è che sia stata distrutta al castello di Königsberg dalle bombe alleate, o che i nazisti l’abbiano nascosta in una cava nelle montagne della Germania. È possibile che abbia trovato una prova a conferma della mia teoria della connessione tra gli Illuminati e la Camera d’ambra. Abbiamo avuto delle discussioni accese su questo punto. In ogni caso, aver trovato la risposta o la verità, come diceva lui, a una qualunque di queste teorie per qualcuno poteva essere un motivo sufficiente per ucciderlo». Fece una pausa, poi aggiunse a mente lucida: «Credo proprio che, scoprendo cosa doveva dirmi tuo nonno, saprai anche chi lo ha ucciso».

    Kira sembrò chiudersi in se stessa per un momento. Alla fine, si alzò e disse con voce stranamente calma: «Devo prendere un aereo».

    L’affermazione suggeriva una domanda che non richiedeva risposta. Jack afferrò la valigetta di Urie e la seguì fuori dalla suite.

    CAPITOLO 4

    Mayfair & Stuart, New Bond Street, Londra 26 giugno, ore 2:37

    La luce della lampada da tavolo scalfiva appena la coltre di oscurità nell’elegante ufficio ad angolo. Il raffinato design scandinavo dell’impianto era in netto contrasto con l’arredamento vecchio stile, proprio come l’uomo che sedeva alla preziosa scrivania Luigi xiv. Il suo accento era colto. Il suo aspetto aristocratico, molto curato. Anche a tarda ora, la sua camicia bianca inamidata, decorata con le iniziali, e la cravatta di seta sembravano fresche, i capelli ancora ordinati. La sigaretta Dunhill che bruciava nel posacenere in cristallo era uno dei pochi vizi che si concedeva; l’altro era la giovane donna che lo aspettava nell’appartamento al terzo piano affacciato su Heritage Square, a soli dieci minuti da lì. Era una debolezza che avrebbe dovuto godersi proprio in quel momento.

    Ma quella telefonata lo aveva reso impossibile.

    William Kingston, il quarantasettenne direttore della Mayfair & Stuart, si massaggiava le tempie, sperando che il telefono suonasse ancora per dirgli che era stato tutto un equivoco, per dirgli di andare a casa. Sapeva che era solo una pia illusione; la situazione non si sarebbe risolta tanto presto.

    Kingston non era un uomo impulsivo. Di fronte a una scelta, avrebbe metodicamente scandagliato ogni opzione prima di seguire una linea di condotta. Per la casa d’aste il problema attuale era complicato, di quelli che non concedevano il tempo necessario a inventarsi una soluzione come si deve.

    I tempi erano cambiati.

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