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L'ultimo erede
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E-book217 pagine3 ore

L'ultimo erede

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Info su questo ebook

Sofia Contin, giovane docente universitaria, grazie all’aiuto del suo altrettanto giovane assistente Max, figlio di un grande professore della Sapienza, si trova coinvolta in una ricerca iniziata durante il nazismo e che la porterà a un passo dallo scoprire uno dei misteri più grandi di tutti i tempi.
LinguaItaliano
EditoreGen
Data di uscita14 mar 2020
ISBN9788835385387
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    Anteprima del libro

    L'ultimo erede - Veronica Rinaldin

    Prologo

    Un lampo di luce squarciò il cielo cosparso di stelle nella notte seguito da un silenzio innaturale, mistico. Dopo qualche attimo di quiete fu il momento del tuono, profondo, denso, come fosse la manifestazione della rabbia degli dei. Quella che fino a pochi istanti prima era stata una brezza marina perfetta per la navigazione venne sostituita da un vento forte e freddo proveniente da nord-ovest che faceva ondeggiare pericolosamente le imbarcazioni attraccate al porto. Leucippe aprì gli occhi scossa da un brivido, le tende bianche del talamo si aprivano e si chiudevano lasciando intravedere il blu denso della notte. Allungò la mano alla ricerca del calore di Evenore ma trovò solo le pieghe del lenzuolo di lino. Era sola nel grande letto matrimoniale. Si alzò con passo incerto e si avvicinò alla terrazza che dominava la città. I lunghi capelli neri ondeggiavano mossi dal vento, coprendo e scoprendo le spalle nude della donna a ritmo irregolare. Dal terrazzo poteva controllare tutta la parte sud dell’isola, sulla sinistra i giardini, sulla destra il porto grande, davanti a lei un reticolato di viuzze passava tra le abitazioni del quartiere mercantile che si perdevano fino alla linea dell’orizzonte dove la terra si univa al mare. Lungo le strade le fiaccole tremavano al vento, la città era immersa in un silenzio strano, inquieto. Un cane iniziò ad abbaiare subito seguito da un altro e un altro ancora. I latrati si fecero sempre più forti, nervosi. Poi la terrà tremò. La donna dovette appoggiarsi alla parete per non cadere. «Arete!» gridò voltandosi verso la stanza con il terrore negli occhi e corse in direzione di una piccola culla dal lato opposto del letto. La creatura dormiva profondamente come se nulla fosse, la prese in braccio, si mise un mantello sopra le spalle nude e uscì dalla camera.

    Non può essere già tempo pensava mentre percorreva i corridoi del palazzo decorati con incisioni di oricalco, oro e avorio raffiguranti scene ancestrali della creazione dell’isola. La sua memoria tornò al giorno delle sue nozze quando Deucalione, il sacerdote che celebrò il matrimonio, avvertì lei ed Evenore della minaccia che gravava sulla loro unione. Devo trovare Deucalione, devo capire cosa sta succedendo, s’incamminò verso l’androne principale, superando le sale vuote una dopo l’altra. Arrivata all’ingresso del palazzo si fermò, guardò ancora una volta le alte colonne di arenaria che delimitavano la navata d’ingresso e uscì svoltando a sinistra verso il tempio di Poseidone.

    L’aria all’esterno era umida e carica di sale, come se il mare e il cielo si stessero fondendo per creare un nuovo quinto elemento. Il cielo, prima limpido di un sereno colore blu notte, era coperto di nubi plumbee e lontano all’orizzonte si intravedeva una strana luce come se un pittore avesse disegnato una linea acquamarina per delimitare il confine tra la terra e l’acqua. I cortili esterni erano invasi dal silenzio rotto solo dal rumore della suola in cuoio dei suoi sandali che schiaffeggiavano i ciottoli della via che dal palazzo portava al tempio. Stava per raggiungere il muro esterno del tempio quando un altro lampo squarciò il cielo colorandolo di un’inquietante luce azzurra, la stessa che ormai si era impadronita della linea dell’orizzonte, e facendo risplendere l’argento delle mura. Al lampo seguì il tuono, questa volta più forte, più profondo, come un urlo divino di rabbia. Arete si svegliò e iniziò a piangere e urlare, era l’unico suono percepibile ora che il tuono si era ritirato. Entrò nel tempio e si diresse verso la statua d’oro di Poseidone. Il dio, dall’alto del suo cocchio di destrieri alati, sembrava fissarla, quasi ammonirla. Ai piedi della statua c’era un uomo inginocchiato intento a pregare, «Deucalione» urlò Leucippe «lo avevi giurato». Il sacerdote si voltò verso di lei, guardandola dritta negli occhi con sguardo rassegnato «Leucippe, gli dei ci stanno punendo, hanno decretato la nostra fine e nemmeno Poseidone ci potrà salvare. Voi ed Evenore sarete gli ultimi come foste i primi». «No!» gli urlò in faccia la donna stringendo al petto l’infante che ancora urlava, «ho fatto tutto quello che mi è stato detto per evitarlo, lo avevi giurato. Non dovevo fidarmi di te, ho già sacrificato il mio primo figlio…» lacrime di rabbia e disperazione iniziarono a scendere sulle guance olivastre, mentre stringeva sempre più forte il fagottino che aveva tra le braccia. Abbassò lo sguardo verso Arete che per un momento smise di piangere guardando la madre. I loro occhi si incrociarono, gli stessi occhi color acquamarina, lo stesso colore che stava inghiottendo il cielo. Fu allora che capì. Tornò al giorno delle sue nozze, quando, davanti al pozzo della creazione, Deucalione ricordò a lei e a Evenore il pericolo che avrebbe generato la loro unione. «Quel giorno tu ci parlasti di una speranza Deucalione. Ci dicesti che c’era un modo per salvare la civiltà, un sacrificio inevitabile» disse la donna con voce risoluta e, senza aspettare la risposta del sacerdote, aggiunse «compiremo il rituale stanotte.» L’uomo abbassò il capo stringendo il bastone sacerdotale ornato di tormalina paraiba e argento e annuì, «Ho pregato tutti i giorni Poseidone perché ciò non si avverasse mai e, vi ripeto, potrebbe non funzionare». «Funzionerà, deve funzionare» replicò Leucippe mentre le scosse di terremoto aumentavano di intensità e di frequenza «è la nostra unica possibilità» urlò per sovrastare i lamenti della terra.

    Uscirono velocemente dal tempio che iniziava a collassare su sé stesso, troppo antico per resistere, troppo pesante per rimanere in piedi. Le lampade a olio poste all’esterno della dimora di Poseidone ondeggiavano facendo cadere il liquido caldo sui gradini dell’ingresso, la statua del dio scricchiolava mentre detriti di ogni dimensione si staccavano dalle pareti. Percorrendo le vie che conducevano al pozzo, Leucippe avvertì per la prima volta le urla di terrore degli altri abitanti provenienti dalla città, si promise che avrebbe fatto tutto il necessario per salvarli, era un suo fardello e doveva portarlo fino alla fine. Varcarono le porte esterne del palazzo e si diressero verso nord dove la pianura lascia il posto alla montagna.

    Corsero fino a perdere il fiato per raggiungere in tempo il pozzo, ogni istante era prezioso e arrivare anche un minuto più tardi avrebbe potuto vanificare tutti i loro sforzi. L’isola stava scomparendo, dovevano fermarla. Da lontano si vedevano le onde del mare sempre più grosse, pronte a schiantarsi contro le coste dell’isola e a spazzare via tutto quello che si sarebbero trovate di fronte. Se sulla costa l’acqua diventava sempre più pericolosa, le montagne erano il regno della lava. Fumo nero e pietrisco uscivano dalle bocche dei vulcani, mentre il magma acceso colava lentamente lungo i pendii bruciando e arrostendo qualsiasi cosa. «Dobbiamo sbrigarci!» urlò Deucalione «correte più veloce!». Leucippe cercò di accelerare il passo nonostante i lacci dei sandali le stessero tagliando le caviglie; gocce di sudore le colavano lungo la fronte facendo incollare i lunghi capelli scuri alle guance. Superarono i campi di grano e si addentrarono nel bosco che separava la zona pianeggiante da quella montuosa. Il pozzo si trovava al limite del bosco, alle pendici del primo monte, in una radura recintata da un colonnato di arenaria collegato a palazzi ormai abbandonati sulla sinistra e dalle rocce che si gettavano a strapiombo sul mare sulla destra. Le colonne erano abbracciate da piante di gelsomino che le macchiavano di verde e bianco, nonostante il frastuono delle scosse e l’odore pungente del fumo provocato dai vulcani quel luogo sembrava immacolato, una piccola oasi profumata e tranquilla in mezzo alla tempesta. Erano passati anni dall’ultima volta che Leucippe si era recata lì, ma il tempio della creazione non era cambiato di una virgola. Superarono il colonnato e si avvicinarono al pozzo.

    «Sei sicura?» La voce di Deucalione bassa e seria faceva trasparire la tensione «Nessuno ha mai osato eseguire il rituale, potrebbe essere pericoloso». «È l’unica possibilità che abbiamo, l’unico modo per non lasciare che tutto venga dimenticato» replicò Leucippe mentre fissava il fascio di luce blu acquamarina provenire dal pozzo. Sapeva i rischi che stava correndo, sapeva l’importanza del suo sacrificio e sapeva che la creatura che teneva fra le braccia era l’unica speranza per il suo popolo. Intorno a loro tutto tremava, le continue scosse provenienti dal centro della terra facevano ondeggiare le costruzioni circostanti come canne di bambù al vento, pezzi di arenaria si staccavano dai palazzi alti 100 piedi e rovinavano a terra sgretolandosi come sale. «È il momento». Abbassò lo sguardo verso l’infante che piangeva spaventato «non avrei mai voluto questo per te mio tesoro» disse mentre lo alzava verso il cielo rivolgendo un’ultima preghiera agli dei. La terra si spaccò in due, l’ombra degli tsunami fece calare le tenebre sull’isola che lentamente scompariva inghiottita dal mare. Mentre pronunciava le ultime parole del rituale blocchi di colonne si staccarono dal portico che li circondava rovinando attorno a loro. «Non c’è più tempo» urlò il vecchio sacerdote. Con gli occhi pieni di lacrime la donna portò a sé la creatura e la baciò teneramente sulla fronte sussurrandole parole incomprensibili, poi la protese verso l’imboccatura del pozzo e, facendo appello agli dei per l’ultima volta, la lasciò cadere giù verso il nulla finché non scomparve del tutto inghiottita dal fascio di luce acquamarina.

    I

    18 agosto 1943, Monaco

    «Ricorda che sei un tedesco. Conserva il tuo sangue puro.»

    La frase risuonò solenne nella suite presidenziale arredata in stile barocco dove una ventina di uomini erano in piedi, uno accanto all’altro, disposti su una manciata di file. Davanti a loro, dietro a uno scrittoio in legno di noce con intarsi in avorio si ergevano due individui in alta uniforme. Uno dei due fece cenno agli altri di accomodarsi mentre quello accanto rimase in piedi, immobile e compiaciuto.

    «Oggi siamo qui non solo per noi, ma per tutto il popolo tedesco. Nel venticinquesimo anno dalla prima memorabile riunione della Thule ci ritroviamo qui dove tutto è iniziato per far nascere un nuovo gruppo dalle ceneri della società che non c’è più. Oggi come non mai dobbiamo essere fieri di essere tedeschi nazionalsocialisti, veri ariani dal sangue puro, eredi di una grande civiltà.»

    Mentre l’uomo in alta uniforme parlava gli altri sembravano rapiti. Lo ascoltavano in un religioso silenzio scandito solo dal ticchettio delle lancette del grande orologio a cucù posto in un angolo della stanza.

    «Vi ho convocati per mettervi al corrente dei nostri piani per il futuro del Terzo Reich e del mondo intero». Un brusio di eccitazione si levò tra i membri del gruppo. «Siamo impazienti di conoscere cosa ci riserverà questa serata, Mein Fuhrer» disse uno dei presenti. «Pazienza Herr Godt, prima di condividere le novità con voi vorrei che il Reichsführer Himmler ci aggiorni tutti sulle missioni che ha condotto a capo della Ahnenerbe». Heinrich Himmler si sistemò gli occhiali sul naso osservando la sala attraverso le lenti prive di montatura. I suoi occhi piccoli e vigili si posarono su ogni membro di quel ristretto gruppo di generali e uomini fedeli al Reich. Dopo aver fatto trascorrere qualche istante per imporre la propria autorità e aumentare il desiderio di conoscenza, si schiarì la voce e prese la parola. «Grazie Mein Fuhrer. Sarò breve, come sapete le spedizioni del 1938 e del 1939 non hanno portato i risultati sperati. Non abbiamo trovato tracce concrete dei nostri antenati ariani in Tibet né, tantomeno, segnali che possano confermare la nostra discendenza. Tuttavia, grazie al lavoro prezioso di un gruppo di studiosi della Ahnenerbe, abbiamo scoperto una nuova potenziale area di ricerca che sembra corrispondere ai testi platonici. Gli ultimi sviluppi bellici ci impongono di muoverci in fretta, per questo vi abbiamo riuniti qui, per istituire un dipartimento speciale dell’Associazione che sia trasversale tra la ricerca storica e la strategia bellica. Mi sembra superfluo e quasi ingiurioso precisare la natura assolutamente segreta di quanto vi sto per comunicare ma, data l’importanza di questo incontro e delle scoperte che ne potrebbero derivare, è necessario che ognuno di voi presti giuramento prima di continuare.» Himmler attese un istante cercando di percepire le reazioni dei suoi compagni. «Molto bene, procediamo» disse Hitler tirando fuori una campanella elegantemente rifinita da uno dei cassetti dello scrittoio e facendola suonare. La porta della suite si aprì ed entrò una giovane donna con un vassoio d’argento su cui erano posate una ventina di scatoline rivestite di raso nero, si avvicinò al tavolo, posò il vassoio e restò in attesa. «Danke, meine liebe» proseguì il Reichsführer, poi rivolgendosi agli uomini aggiunse «Signori, possiamo iniziare». Aprì una delle scatole e ne estrasse un ago e un contagocce, poi si avvicinò verso il tavolino degli alcolici, prese un bicchiere di cristallo e si diresse verso l’uomo più vicino a lui tra quelli in prima fila con l’ago e il calice in mano. «Il tuo sangue puro è la forza della nostra razza», prese la mano dell’uomo e gli punse l’indice con l’ago facendo cadere qualche goccia di sangue dentro al bicchiere, poi si girò verso il secondo e ripeté il rituale fino all’ultimo presente. Quando ebbe finito fece cenno alla giovane che si avvicinò al vassoio per aprire le altre scatole. Tutte contenevano degli anelli d’oro con stemmi apribili pronti a contenere le gocce di sangue degli adepti. La procedura andò avanti diversi minuti, Himmler versava le gocce con attenzione maniacale, sistemandosi gli occhiali sul naso dopo ogni gesto mentre la giovane posava un anello e gliene passava un altro. Quando ebbe finito si avvicinò nuovamente al tavolo degli alcolici e prese la brocca con il vino rosso, ne versò una generosa quantità nel bicchiere in cui era rimasto il sangue avanzato e, seguito dalla giovane con il vassoio in mano, si diresse verso i seguaci che aspettavano in trepidante attesa. «Il sangue puro dei tuoi fratelli ti guida, ti protegge e ti disseta» disse prendendo un anello e infilandolo al dito del primo uomo che rispose «Il sangue puro dei miei fratelli mi guida, mi protegge e mi disseta» bevendo un sorso dal calice. Tutti i presenti ricevettero un anello e bevvero un sorso di vino fino a che il calice non tornò vuoto sul tavolo davanti al Führer.

    «Herr Dönitz» disse rivolto a un uomo smilzo dalla fronte ampia dopo che tutti ebbero indossato gli anelli «voi e l’ammiraglio Godt coordinerete un gruppo scelto di piloti della Kriegsmarine perché seguano delle rotte parallele a quelle belliche. Non è necessario che i vostri ufficiali siano messi al corrente sulla natura delle vostre ricerche. Voi Herr Göring» aggiunse guardando il comandante della Luftwaffe, un tedesco piazzato dal volto squadrato «farete lo stesso con l’aviazione mentre Herr Keitel si occuperà di creare una squadra intestina all’Oberkommando. Farò avere a tutti voi le coordinate per la nuova missione.»

    I tre generali annuirono in segno di approvazione, sugellando l’intesa con un sonoro Si, Mein Fuhrer detto a gran voce. I due gerarchi osservarono uno per uno il manipolo di uomini che stava loro davanti. Erano tutti ufficiali e fedeli servitori del Reich che in diverse occasioni si erano dimostrati disposti a tutto pur di portare avanti il sogno nazista, guidati dall’ambizione e svincolati da qualsiasi scintilla di umanità. Himmler non avrebbe potuto scegliere adepti migliori a cui affidare il futuro della razza ariana e il sorriso compiaciuto di Hitler non faceva alto che rafforzare la sua autostima. Da lì sarebbe ripartita la Germania.

    «Oggi ha inizio un nuovo capitolo della nostra storia» disse dopo un lungo silenzio. «D’ora in avanti voi non sarete più semplici nazionalsocialisti, ma membri della Neue Vril Gesellschaft che eredita i valori della scomparsa Thule¹ unendoli a quelli della Vril² di cui tutti siete a conoscenza. Quello che siete chiamati

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