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Di polvere e di altre gioie
Di polvere e di altre gioie
Di polvere e di altre gioie
E-book273 pagine6 ore

Di polvere e di altre gioie

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Info su questo ebook

Un viaggio che scorre verso la sua conclusione come un fiume in piena e che ironizza sugli aspetti più grotteschi della televisione e dell’informazione, alla ricerca costante di emozioni con cui colpire il pubblico. Anche oltre il lecito. C'è una trasmissione televisiva i cui concorrenti vengono puniti fisicamente; e c'è una serie di prostitute che vengono torturate e uccise barbaramente durante riti crudeli e cruenti. In mezzo a tutto ciò c’è Oscar Fiori –esperto di figure retoriche e di professione l'Operatore Sociale – che investiga suo malgrado aiutato dalla propria famiglia da cartone animato composta da una sorella incinta per miracolo, nipoti geniali, un cane, Wittgenstein, e una gatta, Camus. E poi c’è Edera, una ragazza che non può muoversi e che può comunicare solo attraverso un sintetizzatore vocale assistita dallo stesso Oscar. Una giostra tra suspence e divertimento, tra giornalisti indelicati e sindacaliste orgogliose, donne divine e poliziotti dalla cravatta sgualcita. Un viaggio che scorre verso la sua conclusione come un fiume in piena e che ironizza sugli aspetti più grotteschi della televisione e dell’informazione, alla ricerca costante di emozioni con cui colpire il pubblico. Anche oltre il lecito.
LinguaItaliano
Data di uscita28 nov 2014
ISBN9788868810610
Di polvere e di altre gioie

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    Di polvere e di altre gioie - Giuseppe Truini

    Giuseppe Truini

    DI POLVERE E DI ALTRE GIOIE

    Èchos

    39

    © 2014 Edizioni Ensemble, Roma

    I edizione novembre 2014

    ISBN 978-88-6881-061-0

    www.edizioniensemble.it

    direzione@edizioniensemble.it

    Edizioni Ensemble

    UUID: 978-88-6881-061-0

    This ebook was created with BackTypo (http://backtypo.com)

    by Simplicissimus Book Farm

    Indice

    Parte prima

    ​Parte seconda

    Parte terza

    Parte quarta

    Parte quinta

    Parte sesta

    Titoli di coda

    Collana Èchos

    A chi c’è sempre stato,

    a chi c’è,

    a chi sta arrivando.

    Non possiamo andarcene in giro

    a non essere le persone giuste,

    altrimenti, beh, che senso avrebbe la vita?

    Dave Mckean, Cages

    Se Dio esiste, spero che abbia una scusa valida.

    Daniel Pennac

    Le notti  scorrono lente quando le attraversi con l’animo vuoto. Sono un grande fiume che prosegue immobile e incapace di raggiungere il mare.

    C’è una donna in macchina, accanto a un uomo che fuma ed è concentrato sulla guida. Se una cosa lo colpisce, la segue con gli occhi fino a quando non la oltrepassa. Poi torna a guardare avanti.

    L’uomo indossa un cappellino nero, da baseball, e si tocca in continuazione la visiera. Procede con pazienza, come se avesse tutto il tempo del mondo. La donna invece no, non vede l’ora di arrivare, di fare quello che deve e tornare indietro. Pensa che il tempo sia denaro, e nessuno più di lei, forse, può saperlo.

    – Sai, io faccio anche il dj, metto la musica. Anche in tv, dice l’uomo senza un reale motivo, quasi per vantarsi. Lei si limita ad annuire e non gli dà altre attenzioni, tanto sa che non è lui la ragione per cui si trova in quella macchina.

    Si fermano davanti a un cancello, sul quale sono incise due lettere in ferro battuto. Una v o una u seguita da una s. Dietro il cancello ci sono dei cani che abbaiano, uno nero e uno bianco. Quello bianco è più feroce, ha lo sguardo stupido, lo stesso di chi non sa provare paura. Quello nero sembra ringhiare solo perché lo fa anche l’altro, come se agisse per imitazione. Sono i peggiori, pensa la donna, perché sarebbero disposti a uccidere senza capirne il motivo.

    Il cancello si apre. La macchina riparte delicatamente e si ferma pochi metri più avanti, accanto a un’entrata laterale di quella che sembra una villa grande e antica.

    – Scendi, dice cappellino nero.

    La donna è abituata a ubbidire agli ordini, perciò senza dire niente apre lo sportello. Indossa abiti succinti, variopinti, a motivi floreali. Sperava che le mettessero allegria.

    Vorrebbe sapere dove si trovano e a chi appartiene quella casa. Ma le domande sono una perdita di tempo. Gli uomini non danno mai le risposte giuste, solo quelle più convenienti. L’ha imparato con gli anni, e molto lentamente.

    L’uomo bussa a un portone di metallo arrugginito. Quando si apre, appare un uomo alto e grosso: un gigante pelato con un auricolare all’orecchio. Ecco, i tartari di cui le parlavano da piccola, i cattivi, i nemici dovevano somigliare a lui: sguardo ottuso e ferocia latente.

    I due si salutano e si baciano come se non si vedessero da tempo. La donna dà segni d’insofferenza, ma non ha il coraggio di parlare perché spesso la sua voglia di arrivare alle cose è stata scambiata per un’impazienza che non si deve permettere.

    Ma deve aspettare poco: l’uomo la presenta, l’altro la squadra da capo a piedi, come un oggetto, una macchina o un telefonino che si vorrebbe per sé se non spettasse già a qualcun altro.

    Ha gli occhi rossi, la fronte sudata.

    – Bella, dice a cappellino nero.

    L’altro sorride, la donna pure. Gli uomini vanno trattati con condiscendenza, pensa, e amano più di ogni altra cosa essere accontentati. Come i bambini. Per loro la vita è un enorme lecca lecca, non vogliono fare altro che camminare e stordirsi con lo zucchero.

    Attraversano un corridoio ed entrano in una stanza piccola dal soffitto basso. Il custode le si avvicina; lei è abituata a farsi toccare, perciò non si tira indietro. In realtà lui vuole solo perquisirla, e lo fa con delicatezza. Dopodiché esce dalla stanza. Quando rientra ha in mano una scatola. La donna ne riconosce immediatamente il marchio. Una v inscritta in un’ellisse. La apre incuriosita ed eccitata: ognuno ha il proprio lecca lecca. Dentro c’è un abito da sera nero, semplice e morbido. Lo tocca. I peli del braccio le si rizzano tutti insieme, elettrizzati da quel tessuto soffice, chiffon o shantung. Le piacerebbe possederne uno, pensa. Da guardare in segreto, da non far conoscere alle altre. Anzi, neppure da indossare: solo da tenere lì, nascosto sotto il letto.

    Inizia a spogliarsi e gli uomini si voltano per discrezione. Lei è stupita: non succede spesso che distolgano lo sguardo mentre si sveste. Si muove lentamente: quel vestito vuole indossarlo il più possibile e sa già che tra poco dovrà toglierlo.

    – Allora? Hai finito?, chiede cappellino nero. Risponde di sì. Si affretta.

    – Fatto, dice, dopo aver indossato anche le scarpe. Gli uomini si voltano. Sorridono.

    – Sei bellissima.

    L’uomo che ha aperto la porta tira su col naso, come se avesse il raffreddore. Ma non è raffreddore, e lei lo sa.

    – Sbrigati, dice cappellino nero.

    In silenzio i due cominciano a camminare, lei capisce che li deve seguire.

    Percorrono un corridoio spoglio e lungo, poi salgono una rampa di scale. Il soffitto ora è più alto e il pavimento è di marmo. Il rumore dei tacchi della donna risuona nel vuoto e le causa gelo lungo la schiena. Prova a farsi forza. Un’ora, un’ora e mezza e avrà finito. La casa è silenziosa. In lontananza i cani ancora abbaiano. Non sarà solo un uomo, ma pazienza, lo ha già fatto altre volte.

    Attraversano l’ennesimo corridoio e raggiungono una porta enorme di legno intarsiato. Il custode bussa e apre subito dopo. Sono attesi.

    Non appena la donna entra nella sala, non crede a ciò che vede. La paura diventa terrore. Ci sono uomini, tanti uomini, vestiti in modo strano, come soldati, e alle pareti sono appesi drappi su cui campeggia un simbolo che finora ha visto solo sui libri di scuola. Un simbolo di terrore. Si gira, vuole andarsene, ma il custode ha già richiuso la porta alle sue spalle. Vorrebbe urlare ma non ci riesce. Un’altra donna, già completamente nuda, le si avvicina con lo sguardo rivolto altrove, al di là del tempo e dello spazio. Quando capisce che è drogata e fuori di sé, si sente del tutto perduta.

    – Sst!, le dice qualcuno. E poi l’afferra da dietro.

    Parte prima

    – Sono lieto di annunciarle che domani

    potrà salire sulla sedia elettrica.

    – Oh, grazie, rispondo al boia ridendo.

    1

    – Sst!

    Silvia, la mia nipotina, mi fucila con lo sguardo.

    Blocco la mia espressione di stupore e torno a guardare la scultura che Lucia, mia sorella, ha appena poggiato sul tavolo. Da quando ha cominciato a lavorare la ceramica ci mostra le sue nuove creazioni prima di metterle in vendita nel laboratorio affinché Silvia possa dar loro un titolo. Ma stavolta, quando ha aperto l’involucro di giornali che proteggeva la scultura, non sono riuscito a trattenere un’esclamazione di sorpresa. Edera, dovresti vederla: è stupenda e inquietante insieme. Sai quelle emozioni che restano in gola e non riesci a capire se ti rendono felice oppure triste?

    Una forma femminile emerge da un magma di colori con le braccia alzate. Lucia l’ha scolpita dal busto in su: i capelli scendono sulle spalle ma restano leggeri, il viso ha un’espressione inquieta ma rasserenata e negli occhi brilla la luce di chi ha scampato un pericolo. Lucia l’ha rappresentata nel momento di metamorfosi, prima che cominciasse a volare e diventasse irraggiungibile.

    – Stavolta non ve lo so spiegare davvero, dice mia sorella dopo avercela fatta guardare per qualche istante. – Ho cominciato con la base, poi sono venuti il busto e le braccia, da soli, come se non li avessi scolpiti io. Non so dire con chiarezza cosa rappresenti, però mi piace. L’ho cominciata l’altro ieri e l’ho finita soltanto oggi.

    Edera, è vero: sembra che ogni linea ne abbia richiamata un’altra fino alle braccia che si liberano nell’aria.

    – Secondo me è una nascita, dico, non ha ancora capito come si vive.

    – No, mi corregge Silvia prendendo qualche secondo per pensare. – È una fuga, aggiunge, è scappata da qualcosa che la terrorizzava e ora ha trovato pace.

    Se ha trovato pace in quella posizione volante, vuol dire solo una cosa.

    – È morta, dice Silvia, è morta, ma ora sta bene.

    Un flash.

    Matteo, il nipote più grande, scatta la polaroid. Nessuno ancora trova il coraggio di parlare, aspettiamo che la pellicola si asciughi e lasci comparire l’immagine. Wittgenstein il cane, eccitato dalla luce, abbaia e se la prende con Camus la gatta. Inizia a inseguirla per casa e la smette solo per provare ad afferrarsi la coda.

    Insieme ci avviciniamo alla Parete delle emozioni. Matteo appende la foto, poi aspetta che Silvia riveli il titolo per scriverlo su un post-it. L’effetto delle nostre immagini e delle nostre impressioni su questo muro è a metà tra le ossessioni di un maniaco e il diario di un’adolescente. La parete è cresciuta con noi da quando cinque anni fa Elena, l’altra sorella, se n’è andata. Abbiamo iniziato per gioco, per addolcire il dolore di Silvia e Matteo, i suoi figli, e ora è diventata un’abitudine: qualsiasi cosa ci accada, positiva o negativa, deve lasciare una traccia su quella parete.

    Silvia, in piedi dietro Matteo, corruga la fronte.

    – Stavolta è difficile, dice, e prende tempo.

    Lucia è vicino a me e mi abbraccia come fa sempre quando la piccola sta per battezzare i suoi lavori.

    – Non so, Os, mi sussurra in un orecchio per non disturbare Silvia, è stato strano. Quando ho iniziato a plasmarla mi sono sentita cambiata. E oggi, quando ho aperto il forno, ho avuto la netta sensazione che qualcosa in me fosse diverso.

    – In che senso?

    – Mi sento maggiore. Più grande.

    – Più grassa?

    Abbozza un sorriso.

    – No, non in quel senso. Ho un sospetto. Più tardi ti dirò se è fondato o meno.

    Non faccio in tempo a chiederle altre spiegazioni.

    – Zio, dice Silvia, come si traduce destinazione in spagnolo?

    – Perché in spagnolo?

    – Puoi cercarmelo per favore?, ribatte stizzita, come se dalla mia velocità dipendesse il futuro del mondo. D’altronde, a quell’età è da tutto che dipende il futuro del mondo.

    Prendo il dizionario dallo scaffale, lo sfoglio fino alla m e trovo la parola. Mia nipote ce l’ha fatta ancora. Balbetto la risposta.

    Destino.

    Silvia l’ascolta felice e Matteo l’annota sul post-it che attacca alla polaroid.

    Iniziamo a prepararci per andare a dormire. Le vacanze sono finite e per tutti domani ricominciano le lezioni. In particolare per te, Edera, sarà una giornata speciale: finalmente ti trasferirai nella nuova scuola.

    2

    Nella scuola di prima c’era un giardino con tanti alberi, Edera. Ciliegi, peschi, siepi di glicine e oleandri. Nella scuola di prima c’erano le monache che quando camminavano sembravano scivolare sulla ghiaia senza fare alcun rumore. La scuola di oggi invece è una striscia grigia tra tante altre strisce grigie che si susseguono lungo il viale, e sembra un mattone immenso caduto dal cielo che nessuno ha provato a sistemare. La scuola di prima aveva le finestre in legno e un riscaldamento che anche d’inverno si moriva di caldo. La scuola di oggi ha un cancello arrugginito e quasi tutte le finestre rotte.

    Ti aspetto all’ingresso. Hai paura, lo so, ne abbiamo parlato a lungo. Mi eri sembrata convinta quando ti ho detto che crescere vuol dire fare cose che ancora non si sanno fare, però ora che stai per entrarci, in questa scuola, ora che stai per conoscere i tuoi compagni leggo nei tuoi occhi lo spavento della frontiera, delle sensazioni sconosciute. Ed è proprio per questo che i tuoi genitori hanno deciso di iscriverti qui: non perché non meritassi più quella scuola, ma perché questa è più simile alla vita reale, quella che dovrai affrontare tra qualche anno.

    So anche che hai paura di quello che penseranno i tuoi compagni quando ti vedranno immobile, seduta su quella sedia a rotelle che sembra quasi un’automobile del futuro per quanti marchingegni le sono attaccati, oppure quando ti sentiranno parlare attraverso il sintetizzatore vocale, una voce così meccanica e così poco da te, o quando ti percepiranno sempre presente ma inesorabilmente ferma, attiva solo con gli occhi, ma soprattutto con la mente. Edera, all’inizio gli sembrerai un robot, non una persona, ma poi impareranno a capirti e proveranno a parlarti. Forse all’inizio saranno un po’ spaventati ma alla fine di sicuro diventerete amici, vedrai. E in ogni caso io sarò lì, a seguirti passo passo, a indirizzarti e a spiegarti le cose quando non le capirai o quando come al solito ti perderai guardando gli alberi che cambiano colore, si svestono e poi rinascono in primavera.

    – Me lo prometti?

    Mi stupisco sempre di come tu riesca a scrivere con gli occhi, a comporre le parole spostando lo sguardo di modo che un sensore percepisca quello che vuoi dire. Avviene tutto con una tale velocità che sembra immediato, come se il sintetizzatore fosse collegato direttamente al tuo cervello.

    – Sì, certo.

    – Mi sarai vicino?

    Ti accarezzo una guancia mentre annuisco.

    – Allora non avrò paura di niente.

    Ecco il bello di farti da assistente, che in realtà tu assisti me e mi fai sentire importante.

    Ti accompagno in classe, il preside ti presenta. Leggo nei tuoi occhi tutte le paure che si susseguono, e cerco di preparare quello che ti dovrò dire dopo, quando dovrò cercare le parole che ti aiutino a superare questo momento e a tornare l’Edera di sempre.

    I tuoi compagni di classe reagiscono come avevamo previsto: restano a distanza, ti guardano di soppiatto o hanno paura di avvicinarsi. Si comportano come se si trovassero davanti a uno strano animale.

    – Ma tu per stare più tranquilla, devi immaginarti prima quello che può succedere.

    – In che senso?

    – Devi farti uno scenario, prevedere le reazioni degli altri.

    – A cosa serve?

    – A essere preparata, così non avrai timore e saprai già cosa fare.

    – Come in una partita a scacchi?

    Ti sistemo la mano, era scivolata verso l’esterno della sedia, e visto che ci sono ti rimetto in ordine anche il colletto della camicia.

    – Anche lì potrò arroccare?

    – No, nella vita non si può arroccare.

    Ma invece sì, penso. Ed è proprio per questo che ti abbiamo portata via dalla tua scuola. Consideravi quel luogo come una certezza che purtroppo non potevamo prometterti.

    A metà mattina entra in classe una professoressa piccola e gracile, con i capelli grigi e uno sguardo tremendamente serio. Percepisco la tua agitazione, che poi è la stessa dei tuoi compagni: al suo arrivo si sono irrigiditi sulle sedie, hanno riposto i telefoni e cominciato a prendere penne e quaderni. L’insegnante poggia registro e libri sulla cattedra e si siede, scorre l’elenco degli studenti e infine alza lo sguardo. Socchiude gli occhi e scruta l’intera classe alla ricerca di qualcosa. Quando arriva a te si blocca. Tu vorresti rimpicciolire fino a diventare una nocciolina tostata.

    – Lei sarebbe Anna Grazia, dice infine la prof, come se fosse un’accusa, più che un’affermazione.

    – Sì, rispondo io al tuo posto.

    Lei ignora le mie parole e continua:

    – Anna Grazia Devoto, giusto?

    Già, perché Edera è il soprannome che ti ha trovato Silvia. Mia nipote infatti non dà un nome soltanto alle sculture di Lucia, ma anche alle persone. E a volte ne trova uno più vero di quello reale. È così attaccata alla vita, ha detto di te un pomeriggio, che la immagino sempreverde e felice a vivere la sua vita a dispetto di ogni difficoltà.

    Tu raccogli tutte le forze di cui il tuo spirito è dotato.

    – Sì.

    Il vantaggio del sintetizzatore sta nell’annullare le possibili sfumature di significato, facendoti apparire sempre decisa, anche quando so per certo che dentro stai morendo.

    – Ne ho piacere. Io invece sono la professoressa Belpensiero. Natalìa Belpensiero, dice, spostando l’accento sulla i, e rendendo anche lei, a modo suo, unico il proprio nome.

    Poi inizia a compilare una serie di carte.

    Mi guardi, però io non so assolutamente come aiutarti. Sono sicuro che in questo momento stai rimpiangendo le monache, il giardino e persino i gatti che affollavano la tua scuola. In un certo senso li sto rimpiangendo anch’io.

    La professoressa alza lo sguardo all’improvviso. I tuoi compagni si sollevano sui banchi e afferrano la penna come una spada.

    – Quest’anno cominceremo con una nuova attività, che concluderemo solo a maggio, dice. All’unisono gli studenti si piegano sul quaderno. Fino a maggio scrive uno, nuova attività appunta un altro. Mi guardi: scarabocchio qualcosa anch’io, anche se non so bene cosa, visto che non ha detto niente.

    – Ci tengo molto. Cercate di non deludermi.

    Annotano anche questo. Lei si alza e comincia a camminare per la classe.

    – Quante volte avreste voluto dire qualcosa, esprimere un concetto, però avete rinunciato perché non riuscivate a trovare le parole?, dice, Quante volte avete preferito tacere perché non vi sentivate in grado di parlare?

    Vedo qualche testa che smette di scrivere per annuire.

    – E quante volte questo vi è successo quando sentivate il bisogno di esprimere i vostri sentimenti?

    Altre teste che annuiscono.

    – In che modo potete affrontare una difficoltà se non ne sapete il nome? In che modo potete combattere un nemico se non ne conoscete l’identità? Come vincere quel magone che vi stringe il petto e che a volte sembra strapparvi la vita partendo dal cuore se non capite che si chiama ansia, paura, angoscia? Le parole sono le cose, ragazzi, vi permettono di comprendere cos’è il mondo e com’è fatto, di individuare la vostra posizione nell’universo e di scoprire la vostra importanza.

    Con due parole la professoressa Belpensiero ti ha conquistato e ha trasformato il timore di non capire in una febbrile ansia di sapere, di ascoltarla ancora e di essere presente ad altre mille sue lezioni. Questo con le monache non era mai successo, vero?

    – Un bambino a pochi mesi non sa parlare, mugugna e biascica pochi versi. Crescendo, acquista indipendenza in base a quanto sa dire e così è sempre nella vita. Quindi perché decidere di smettere di conoscere quando la conoscenza ci permette una costante crescita? Non siate sciocchi, non smettete mai di imparare. Non smettete perché vorrebbe dire smettere di crescere.

    Fa una pausa, qualche altro passo e si avvicina a te, Edera.

    – Parlare vuol dire essere umani. Non importa chi siate, da dove veniate o che aspetto abbiate. Conoscere le parole è un’espressione di intelligenza. Conoscere le parole è conoscere il mondo perché ci permette di comunicare.

    Passa oltre, ti rilassi. Gli altri studenti sono ipnotizzati da lei, la prof Belpensiero, piccola nell’aspetto, enorme nell’intelletto.

    – Per questo vi invito a scrivere un vostro vocabolario. Ma non uno banale in cui annotare le parole che non conoscete e che incontrate nei libri che leggete. No, vi chiedo di scrivere un vocabolario con le vostre parole dell’animo, quelle del cuore. Quello che voglio è che scriviate un vocabolario dei vostri sentimenti.

    Si alza una mano, legata a un braccio sottile e gracile pieno di braccialetti bianchi. La professoressa le dà la parola.

    – Potremmo dargli un nome.

    – Bella idea. Qualcuno ha qualche proposta?

    Nessuno parla.

    Io, dici.

    Si girano tutti verso di te. Alcuni, forse, ti guardano per la prima volta.

    – Prego, Anna Grazia.

    Sei titubante. Il coraggio forse è finito quando hai chiesto la parola.

    Potremmo chiamarlo Vocabolario sentimentale. Che ne dite?

    La professoressa annuisce, i tuoi compagni sorridono. È una bella idea, la approvano. Edera, oggi devi essere fiera di te.

    Suona la campanella, la giornata è finita.

    Mentre tutti si alzano e si avviano disordinati verso l’uscita,

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