L'inca e l'amazzone
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Anteprima del libro
L'inca e l'amazzone - Nicola Medaglia
Paesi.
I
Quel giorno, la piazza della gioia era gremita fino all’inverosimile. Nonostante fosse la piazza principale di Cuzco e di tutte le città dell’impero, a stento riusciva a contenere l’immensa folla che si accalcava attorno al palco, dove il vescovo Vicente de Valverde stava celebrando la messa. Tanta attenzione non era dovuta a intensità di fede religiosa. La stragrande maggioranza dei presenti era composta da incas, adoratori del dio sole, che nulla capivano del rito che si stava svolgendo. Un’incomprensione non molto dissimile li accomunava alle poche centinaia di soldati spagnoli che, insieme con i dignitari locali indigeni, occupavano i primi posti. La messa era celebrata in latino, lingua del tutto sconosciuta agli illetterati avventurieri ispanici. La causa di quell’eccezionale interesse consisteva nella cerimonia che avrebbe avuto luogo subito dopo la sacra liturgia. Appena l’officiante ebbe pronunciato il conclusivo Ite, missa est
, sul palco salirono Francisco Pizarro e Manco Capac. I due si portarono al centro del palco. Il condottiero spagnolo prese la parola e, rivolto alla folla, indicando con le braccia tese il giovane, esclamò: Questo è il vostro nuovo imperatore, Manco Capac II, figlio legittimo di Huayna Capac
. Poi prese la frangia imperiale, costituita da una fascia sormontata da cordoncini rossi ornati d’oro, e la pose sul capo del nuovo sovrano, che abbracciò cordialmente. A questo punto tutti gli indigeni proruppero in urla di gioia e di entusiasmo. I nobili cominciarono a sfilare ad uno ad uno davanti a Manco Capac rendendogli omaggio secondo il cerimoniale tradizionale che prevedeva un profondo inchino davanti al monarca seduto. Successivamente, Pizarro chiamò sul palco il regio funzionario di Spagna che lesse l’atto ufficiale proclamante la supremazia assoluta dell’imperatore Carlo V sull’intero territorio appartenuto ai Signori Inca fino ad appena due anni prima. Il documento fu tradotto, per farlo capire al popolo. Subito dopo Manco Capac si alzò in piedi e, per tre volte, agitò il vessillo imperiale spagnolo, immediatamente imitato dai nobili che lo attorniavano. Pochi istanti dopo, la grande assemblea si sciolse e la gente si riversò nelle strade e nelle piazze per festeggiare lo straordinario avvenimento con canti, danze e grandi sorsi di chicha, la bevanda tradizionale degli incas. Conformemente alle antiche usanze, le mummie dei predecessori di Manco furono tolte dai loro sepolcri e portate in processione fin dentro il palazzo reale, nella sala del banchetto, dove furono poste sui loro scanni. Secondo le secolari tradizioni degli Incas, in ogni ricorrenza di incoronazione, le salme mummificate degli imperatori dovevano partecipare all’esultanza dei sudditi, di modo che il nuovo regno iniziasse sotto i migliori auspici. Tutti brindarono a lungo in onore degli illustri ospiti trapassati mentre nei punti più lontani della città echeggiavano le musiche e i canti degli abitanti, inneggianti allo storico evento. Le manifestazioni di giubilo durarono fino a tarda notte. Quando Manco Capac decise di ritirarsi nella sua stanza da letto, udiva ancora, in lontananza, il festoso risuono delle musiche e delle danze. Si sentiva terribilmente stanco per le tante, intense emozioni provate durante il giorno ma non riusciva a prendere sonno. Gli passavano nella mente le scene vissute dal momento del suo primo incontro con Pizarro e stentava a credere di essere al posto dei suoi predecessori, a cominciare da Manco Capac I, il fondatore della dinastia, di cui portava il nome. Un’immagine, però, campeggiava al di sopra di tutte, che mai lo abbandonava e che gli ritornava in mente come un tormento, con la stessa angoscia e con l’identico dolore provato sin dal primo momento. In quegli istanti rivedeva suo fratello Huascar, con le mani legate dietro la schiena, trascinato a viva forza dai soldati di Atahualpa fino alle rive del fiume Andamarca, nei pressi di Cuzco. Rivedeva l’espressione decisa e crudele di quelle guardie che, su una balsa, la canoa incaica, portavano Huascar fino al punto più profondo del fiume dove, dopo avergli attaccato un grosso peso al collo, lo immergevano fino a quando le acque non lo inghiottivano per sempre. Nella sua mente riecheggiavano le parole pronunciate da Huascar prima di morire: "Sarò vendicato dagli stranieri venuti dal mare". Fu in quel momento che decise che avrebbe combattuto fino alla morte contro Atahualpa per vendicare il fratello, alleandosi con gli spagnoli.
La notizia della cattura di Atahualpa e della sua esecuzione fu per lui un segno del destino, una eccezionale manifestazione della giustizia divina che ricambia con la stessa moneta quanti si macchiano dei più orrendi crimini. Quando l’apprese, gli Spagnoli gli apparvero come gli angeli vendicatori mandati dagli dei per riportare l’antico ordine che regnava nel Tawantisuyu ai tempi di suo padre, Huayna Capac. Ai suoi occhi, Atahualpa era un usurpatore perché era figlio di una moglie succedanea di Huayna Capac e non della coya, la regina, sposa principale di suo padre e sua madre. Secondo le antiche usanze degli avi, non Atahualpa ma Huascar era il legittimo successore di Huayna Capac. Una volta morto quest’ultimo, era Lui, figlio della coya come Huascar, ad avere diritto al trono imperiale. Quando lo informarono che gli Spagnoli, alla testa di un folto e ben armato gruppo di indigeni passati dalla loro parte, si stavano muovendo verso Cuzco, volle conoscerli e offrire loro la sua amicizia. Radunato un piccolo esercito composto da fedelissimi, uscì da Cuzco. Come conveniva ad un dignitario del suo rango, Egli fu portato su una lettiga sostenuta da otto tra i più alti funzionari del regno, avvolti nelle loro splendide livree azzurre. L’incontro avvenne ad una distanza di cinque leghe dalla capitale, nei pressi di Xaquixaguana, una località posta in una gradevolissima, fresca vallata, attraversata da un fiume che irrigava la terra rivestendola di una sempre verde vegetazione, diffusa all’intorno come un giardino coltivato. Sparse qui e là sui pendii delle colline vi erano le ville dei nobili che venivano a soggiornarvi d’estate per sfuggire alla calura. Incastonata nel cuore delle Ande, Xaquixaguana appariva ancora più bella perché contrastava con il selvaggio scenario che la circondava. Dapprima, Pizarro e i suoi rimasero meravigliati nel vedere che nessuno dei membri di quello strano e inatteso corteo era armato ma non impiegarono molto a capirne le intenzioni pacifiche e si avvicinarono con fare garbato e gentile, pur mantenendo una certa diffidenza. La diffidenza scomparve quando Manco, sceso dalla lettiga, disse: "Vengo in pace per ringraziare gli uomini venuti dalle grandi acque che hanno reso giustizia a mio fratello Huascar uccidendo l’usurpatore Atahualpa". Raccontò, in seguito, gli avvenimenti verificatisi nell’impero dopo la morte di Huayna Capac, la guerra tra i due pretendenti alla successione e l’assassinio di Huascar, spiegando che era lui l’unico, legittimo erede al trono del Tawantisuyu. Concluse dicendo che sperava nel loro aiuto per diventare Inca e che li avrebbe ricompensati con straordinaria generosità. Pizarro rispose che Lui e i suoi erano stati mandati dal loro grande re Carlo V per ristabilire l’ordine e l’armonia nelle lontane terre poste al di là dell’oceano. Manco fu rincuorato dalle parole di Pizarro e accolse volentieri l’ invito a rimanere suo ospite, in attesa di entrare trionfalmente, l’indomani, nella capitale.
Le multicolorate schiere capeggiate da Pizarro e da Manco entrarono in Cuzco nella tarda mattinata. Tutte le vie, le piazze, le torri, rigurgitavano di indigeni venuti a conoscere quegli strani individui venuti da un altro mondo. Fissavano con stupore e incredulità gli stranieri e le loro cavalcature, quei superbi animali bardati che sembravano una sola cosa con i loro cavalieri. Le loro armi scintillanti e la chiarezza della loro pelle erano, per gli abitanti di Cuzco, la prova lampante che quegli uomini erano figli del dio sole e manifestazione tangibile del suo splendore. Un sentimento di terrore invase l’innumerevole folla quando, per tutta la città, risuonarono le lunghe note delle trombe che si mescolavano con il rumore degli zoccoli dei cavalli sul selciato.
Erano queste le immagini che si affollavano nella mente del giovane sovrano mentre meditava sui compiti che lo aspettavano. Egli era conscio che, avendo agitato per tre volte il vessillo spagnolo, aveva solennemente proclamato la sua sudditanza al re di Spagna. Ma la lontananza di questi dalle sue terre e l’impegno di Pizarro a sostenerlo nell’ascesa al trono e nel consolidamento del suo potere, gli infondevano fiducia e lo facevano ben sperare in un avvenire di pace e di prosperità per la sua gente.
Nella sua personalità si mescolavano, in modo spesso contraddittorio e tormentato, la mitezza della madre, la regina Rahua Ocllo, e la fierezza del padre, Huayna Capac. Educato alla corte di Cuzco con i riguardi spettanti ad un principe del suo rango, Egli si era sempre comportato con gentilezza e bontà verso tutti, senza dare importanza all’appartenenza sociale di nessuno. Da ragazzo non disdegnava di unirsi ai figli del popolo per condividere giochi e divertimenti e, divenuto adulto, spesso amava accompagnarsi con i