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Ponti sull’Egeo
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E-book554 pagine8 ore

Ponti sull’Egeo

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Intrigata dai forzati spostamenti di popolazioni, dagli sradicamenti dolorosi, dall'oblio nel mondo d'oggi di antiche convivenze pacifiche e spesso feconde, ho viaggiato a lungo in Turchia e in Grecia – sento quest'ultima come la mia "patria del cuore"- cercando in Turchia tracce di villaggi greci e di chiese in rovina e in Grecia di vecchie case ottomane e di minareti decapitati. E' nato così il mio "Ponti sull'Egeo", sulle tracce del doloroso scambio di popolazioni greco-turco seguito al Trattato di Losanna che, nel 1923, mise fine alla guerra greco-turca, una guerra fomentata – e combattuta "per procura" – da Gran Bretagna e Francia, alla fine della prima guerra mondiale.
LinguaItaliano
Data di uscita27 ott 2021
ISBN9791220363440
Ponti sull’Egeo

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    Anteprima del libro

    Ponti sull’Egeo - Claudia Berton

    T R A C I A

    Icone, carboni ardenti e Cabiri

    "Se anche li abbiamo scacciati dai loro templi,

    non per questo gli dei sono morti"

    (Costantino Kavafis, greco di Alessandria 1863-1933)

    " Oltre quelle colline e boschi di querce,

    oltre quei vigneti e quei giardini,

    passammo lieti. Sia lode a Dio"

    (Yunus Emre, turco 1238-1320)

    E quando i santi Costantino ed Elena entrano in loro, gli Anastenaridi si mettono a correre avanti e indietro sulla distesa di carboni ardenti. L’uomo interrompe il suo racconto, ben consapevole di lasciarmi con il fiato sospeso, e si accende una sigaretta. All’orizzonte la scura sagoma triangolare, inquietante, dell’isola di Samotracia va facendosi più nitida man mano che la nave segue la sua via tra le onde color inchiostro. Le mie figlie si sono addormentate su un divano all’interno, gelido per l’aria condizionata eccessiva, mentre sul ponte il vento è fresco al punto giusto. I gabbiani gridano insistenti, abbandonandosi alle vie invisibili delle correnti aeree, che contrastano di tanto in tanto con un vigoroso battito d’ala. Dopo aver controllato un po’ in pena se la nuvolaglia che incombe in direzione est abbia o meno intenzione di seguirci, mi volgo nuovamente verso il mio sconosciuto compagno di viaggio, cercando di riportare il discorso sugli Anastenaridi.

    Mi si è affiancato poco fa sul parapetto di prua chiedendomi se ero sola e, malgrado il mio desiderio di contemplazione solitaria, non ho perso l’occasione di praticare un po’ di greco. Sta andando a Samotracia a cercare una casa per suo figlio che, militare di carriera, è stato destinato – suo malgrado - a un soggiorno di due anni sull’isola. Mi dice che abita a Sèrres, in Macedonia e a questo punto non posso trattenermi dal chiedergli notizie delle famose Anastenarie di Langada, nelle vicinanze di Salonicco. Ribatte piccato che la stessa festa – alla quale mi invita per il 21 maggio dell’anno prossimo - si celebra anche nel villaggio di Aghia Eleni, nei pressi della sua Sèrres, come pure in altri villaggi della zona, quindi - incalzato dalle mie domande - sfoggia con soddisfazione la sua competenza in materia.

    Mi intrigano nel suo racconto molti dettagli che suggeriscono un’origine orientale del rito. Alla vigilia della festa dei santi Costantino ed Elena, nel cuore della primavera, i celebranti – in gruppi di dodici, in maggior parte donne – si riuniscono in un luogo speciale, che può essere anche la stanza di una casa: questo luogo è chiamato – con parola di origine turca – konaki e lì vengono collocate le preziose icone dei due santi, adornate con campanellini e con fazzoletti legati in nodi sacri (come, per esprimere desideri, si appendono strisce di stoffa agli alberi in Turchia e alle grate di luoghi sacri in Iran) e coperte da grandi riquadri di stoffa rossa detti simadia, che si crede abbiano lo stesso potere delle icone. Accanto a questi sacri oggetti vengono poste offerte: olio, incenso e candele accese. Nel konaki gli Anastenaridi danzano e cantano al ritmo di un grande tamburo e del suono della lira tracia, la lira di Orfeo, non a caso nato da queste parti (1), la cui bocca – benchè la testa gli fosse stata mozzata dalle Baccanti sul monte Pangeo – continuò ad esprimere gli oracoli di Dioniso, che erano in competizione con quelli dell’ Apollo Delfico. E non passò forse di qui lo stesso Dioniso dopo aver portato i suoi misteri in Oriente, come racconta Euripide nelle Baccanti? Le sottili allusioni dei miti, delle associazioni, si affollano alla mia mente mentre la nave sembra dirigersi verso la scogliera senza approdi dell’imponente montagna che - chiamata Saos e, forse più propriamente, sottolineandone l’aspetto lunare, anche Fengari, luna – occupa quasi l’intera superficie di Samotracia.

    Gli Anastenaridi ballano alla luce delle candele, sempre più velocemente, poi prendono le sacre icone e se le passano di mano in mano finchè un tremito convulso scuote i loro corpi e, ondeggiando a scatti avanti e indietro, essi entrano in trance, presi come sono dallo spirito dei santi! Il mio compagno di viaggio soffia un ultimo sbuffo di fumo che si perde in volute leggere e getta il mozzicone della sigaretta oltre il parapetto, nel mare, suscitando un’inutile picchiata di gabbiani. La mattina del 21, festa di Costantino ed Elena, i celebranti escono in processione dal konaki e, accompagnati dai suonatori e dai portatori di candele, raggiungono un pozzo sacro – l’aghiasma - dove vengono benedetti prima del sacrificio di un animale che deve avere almeno un anno di età e comunque un numero dispari di anni - sette sarebbe l’ideale (2)– e non deve essere castrato o marchiato in nessun modo. Dopo la benedizione l’animale è condotto in un luogo indicato dagli Anastenaridi durante il trance - di solito accanto ad un albero o a una fonte - dove viene capovolto e sgozzato così che il sangue imbeva la terra. A suon di musica viene poi scuoiato e la sua carne, divisa in parti uguali, è messa in un cesto e distribuita di casa in casa. A questo punto riprendono le danze degli Anastenaridi e si accende un grande falò che brucia fino a formare un letto di braci ardenti che i danzatori in trance si mettono a calpestare a piedi nudi tendendo verso l’alto le icone. Il rito continua con un pranzo comunitario e per i due giorni successivi gli Anastenaridi faranno il giro di tutte le case del villaggio, muovendosi in direzione strettamente antioraria. Mi vengono in mente i Mevlevi danzanti dell’Anatolia e, seguendo le tracce di Dioniso ancora più a est, rivedo una scena bacchica in un poetico film ambientato nel Kurdistan iraniano: uomini che danzano, in trance, scuotendo i lunghi capelli al suono cupo e ritmico del tamburo, e il toro, con la gola squarciata e il sangue che zampilla impregnando la terra (3).

    Mentre costeggiamo la rocciosa parete del Fengari – stiamo ormai arrivando al porto di Samotracia – penso alle deambulazioni nello stesso senso, da destra a sinistra – dall’esterno all’interno, verso il cuore - dei sufi e dei fedeli musulmani in genere attorno ai mausolei dei loro santi. Scoprirò successivamente che gli Anastenaridi sono i discendenti dei rifugiati greci della Tracia orientale, e in particolare di Kosti che si trova oggi in Bulgaria. Nel 1912 infatti, al tempo della prima guerra balcanica, i bulgari scacciarono i greci che abitavano a Kosti, ma ne conservarono la tradizione delle Anastenaria, prova ne è che le preghiere che ancora oggi recitano gli Anastenaridi bulgari durante la festa sono in greco. I profughi greci della parte di Tracia passata sotto i bulgari viaggiarono via mare fino a Costantinopoli, da dove vennero poi inviati a Salonicco perché trovassero una sistemazione in Macedonia.

    Nelle leggende che i locali si tramandano, questo rito del fuoco viene spiegato come memoria di una tragica notte del tredicesimo secolo in cui la chiesa di san Costantino prese fuoco e le icone - che miracolosamente si erano messe a gridare chiedendo soccorso - vennero salvate dalle fiamme. Le danze che inducono trance, invece, sono chiaramente collegate con il culto di Dioniso che secondo gli antichi era localizzato sui monti Emo. E’ curioso che questo antico nome si conservi oggi in un luogo improbabile – una catena di monti sulla Luna – mentre i mitici Monti Emo che segnano il confine tra la Tracia greca e quella bulgara si chiamano ora Rodopi. Divisa all’inizio del ventesimo secolo da confini arbitrariamente disegnati dai potenti la Tracia, e in particolare la cima dei monti Emo, sono nominate negli scritti degli storici antichi come raccordo ‘visivo’ fra oriente e occidente, visto che di lassù la vista spaziava dall’Adriatico al Ponto (4). Su quelle vette di così grande significato simbolico voleva salire Filippo V di Macedonia mentre si preparava ad affrontare la sfida con l’impero romano che – dopo aver sconfitto il suo successore Perseo a Pidna - avrebbe inghiottito, con il suo regno, tutta la Grecia.

    Confusa in una foschia azzurra, la costa della Tracia è ormai indistinta alle nostre spalle quando la cupa parete del Saos-Fengari - la cui cima è sparita in un cumulo di nubi temporalesche, come del resto si conviene a queste terre che sono la patria di Borea, il vento del nord che scatena repentine burrasche – cede all’improvviso ad un piatto, bucolico paesaggio dorato. La nave entra gentilmente nella ventosa rada a ferro di cavallo bordata di platani e trattengo a stento l’impazienza di iniziare l’esplorazione del misterioso Santuario dei Grandi Dei che per un millennio fu il più importante luogo di culto dell’Egeo settentrionale. I pellegrini iniziavano il loro percorso sacro presso l’oracolo di Dioniso sui monti Rodopi e si mettevano poi in mare per raggiungere questo celebre santuario e venirvi iniziati ai misteri ai quali tutti – nobili e schiavi, greci e stranieri – potevano partecipare purchè prima ammettessero le proprie colpe. Erodoto ed Adriano furono gli adepti più celebri (5) e Filippo il Macedone incontrò qui Olimpiade, allora sacerdotessa e futura madre di Alessandro. Poco si sa degli antichi culti ctonii della fertilità connessi con Axieros, la Grande Madre: culti che alcuni studiosi fanno risalire ai Pelasgi, misterioso popolo forse di provenienza tracia, vissuto in tempi precedenti l’arrivo dei greci. In epoca ellenistica si ha notizia di un culto misterico dedicato ai Cabiri, divinità della fertilità e protettori dei naviganti: divinità dionisiache secondo alcuni studiosi, per altri nome collettivo riferito a molte divinità, o ancora coppia di divinità maschili identificati poi con i Dioscuri, che resteranno nel subconscio greco trasformandosi in epoca cristiana nei santi ‘orientali’ Cosma e Damiano. E’ ben vero che nulla si distrugge, ma tutto muta forma, nome, a volte anche luogo, mentre la funzione rimane la stessa. Del resto i Cabiri – oltre che a Samotracia, Lemno e Tebe di Beozia - erano venerati anche in Frigia, nel cuore dell’Anatolia, da dove i greci li avrebbero per così dire ‘importati’.Tra tante ipotesi – e ad intrecciare ancor più le radici di questo culto - scopro nel termine Cabiri l’evidente derivazione dal semitico kebirim, i grandi. Amo trovarmi in questi luoghi dove la memoria di antichi transiti, di antichi incontri-scontri - con le loro assimilazioni e identificazioni – rimane ancora oggi tangibile.

    Dalla vetta-belvedere del Saos-Fengari Poseidone secondo il mito guardò svolgersi la guerra di Troia sulla vicina costa asiatica. Infrattata con le mie figlie in un bosco magico alle sue pendici, sentendoci osservate dagli occhi pazzi di capre furtive nascoste nei cespugli, contemplo querce immense - vere cattedrali che incutono rispetto - le cui imponenti radici serpentiformi si tendono verso pozze d’acqua brulicanti di libellule. In questo smemorato incanto che confonde tempo e spazio in un presente cristallizzato non so più distinguere se le lontane montagne che scorgo a tratti fra i rami appartengano alla Grecia o alla Turchia: ma che importa? Questo, lo sento, è stato un mondo unico che le frontiere hanno mutilato. Le ferite non si rimargineranno finchè entrambe le parti non ritroveranno, accettandola, la memoria di quello che è stato perduto.

    Sarakatsani, frontiere e luoghi dal doppio nome

    "Fà tesoro delle differenze. Se ognuno di noi

    diventa uguale all’altro, siamo destinati a perire"

    ( Moris Farhi, turco n.1935)

    Noi andiamo ad Alexandroupoli avevamo risposto a diversi connazionali che, all’aeroporto di Atene, ci chiedevano la nostra destinazione, e con una certa soddisfazione avevamo notato che nessuno di loro aveva un’idea precisa di dove si trovasse questa città. Ad Alexandroupoli, qualche ora dopo - mentre nell’aria frizzante di prima mattina profumata di fiori d’acacia sediamo a un tavolo davanti a un caffè e a una fragrante bugatsa appena sfornata, a due passi dalla nave che ci porterà a Samotracia - comincio a gustare l’esaltante sensazione della frontiera, una frontiera non solo spaziale – la Turchia è vicinissima – ma anche temporale. Ed è quest’ultima che mi intriga di più e che vado cercando nei luoghi più remoti della ‘mia’ Grecia, seguendo le tracce del passato prima che si perdano, prima che l’ultima casa antica sia abbattuta per fare posto a un albergone per turisti o l’ultima bottega a conduzione familiare venga spazzata via dall’ennesimo supermercato all’americana.

    E’ stato un contadino, sul piccolo autobus che dall’aeroporto Demokritos ci ha portato in città, ad innescare per me la macchina del tempo, precipitandomi dentro Roumeli (1), uno dei libri di Patrick Leigh Fermor, il mentore di molti dei miei percorsi greci. L’ometto aveva un aspetto dimesso, assolutamente ordinario, ma ad attirare la mia attenzione, come una calamita, fu l’impugnatura del bastone che teneva in mano: scolpita nel legno chiaro, vidi quella che era inequivocabilmente una testa di serpente. Ora, in attesa dell’imbarco, finalmente ho un po’ di tempo per aprire la mia copia di Roumeli - un po’ logora per le molte letture e sottolineature - intendendo offrirne la lettura alle mie figlie ancora insonnolite. Aprendo il libro alla prima pagina, trasalisco alle parole: Alexandroupoli è una grande città. Non ricordavo che il libro iniziasse proprio qui: del resto, quando lo lessi per la prima volta nemmeno io avevo un’idea precisa di dove si trovasse Alexandroupoli e non mi premurai di cercarne la collocazione sull’atlante. All’apparenza però non c’è nulla di cittadino nei suoi abitanti, al contrario. continua Fermor I giovani di leva, mandati qui per il servizio militare, si sentono in esilio. Ma non è stato sempre così. Nei racconti del mio amico Yanni Peltekis, che da bambino visse qui sotto i turchi, Alexandroupoli sembra una città delle Mille e una notte, piena di avventure e mistero.

    A dire il vero sembra che la storia sia solo transitata, senza fermarsi, da questo luogo che si trovava sul percorso dell’antica via romana Egnatia (2) e quando si costruì il collegamento ferroviario tra l’Europa centrale e l’Egeo, il primo treno a passare di qui nel 1897 fu il mitico Orient Express diretto a Costantinopoli. Sotto il dominio ottomano, la città era chiamata Dedeagaç - albero dell’eremita - a ricordare che era stata fondata nel XV secolo da un gruppo di dervisci musulmani. A sentire i greci però – che rifiutano di accettare una fondazione ottomana – sarebbero stati eremiti cristiani i colonizzatori di questo luogo, che divenne Alexandroupoli solo nel luglio 1920 quando, due mesi dopo la conquista greca, vi giunse in visita il giovane re Alessandro. Per spiegare che questo luogo era fino a tempi recenti selvaggio e disabitato, la guida della Tracia che ho appena comprato accenna ad un antico nome drys, quercia, ma non fa parola dell’etimologia del nome turco Dedeagaç, tirando invece in ballo un’improbabile etimologia greco-antica - Dede Agats - che significherebbe foresta sacra. E’ curioso come anche il linguaggio venga manipolato per fondare – o negare, a seconda del caso – i nazionalismi. Comunque sia, Dedeagaç-Alexandroupoli è una città recente il cui piano urbano fu tracciato nel 1878, all’indomani del Congresso di Berlino (3), dai russi sotto la supervisione del governatore greco.

    Contemplo il tranquillo porticciolo dalla rilassata aria provinciale, ignara che un altro intervento russo, della Russia di Putin questa volta, si sta concretizzando nelle alte sfere e sarà firmato fra un apio di mesi, nel settembre 2006, con Bulgaria e Grecia come partner. Secondo questo accordo Alexandroupoli diventerà il terminale di un oleodotto che viene pubblicizzato come un grande affare per le tre nazioni coinvolte: la Grecia, scriverà la stampa in toni trionfalistici, sta per compiere un grande salto di qualità sotto il profilo geopolitico,diventando uno snodo cruciale per l’approvvigionamento di fonti energetiche per l’intera Europa. Distogliendo lo sguardo dalla piccola nave Nona Mairi che, ignara delle future petroliere con cui le toccherà condividere queste acque, dondola nella rada tranquilla in attesa di partire per Samotracia, lancio uno sguardo in direzione del viale di acacie alle nostre spalle. Il traffico è scarso ma nessuno dei passanti sembra lontanamente assomigliare al sarakatsano che è il protagonista dei primi capitoli di Roumeli: sembra proprio che ancora una volta io sia arrivata troppo tardi.

    Alla metà degli anni sessanta del Novecento lo scrittore inglese Patrick Leigh Fermor sedeva pressappoco dove siedo io ora quando vide passare la solitaria, strana figura che né strade né case avevano mai limitato: un uomo così inadatto a questo ambiente addomesticato come sarebbe un lupo nel cuore di Atene. L’uomo vestiva un abito tradizionale, più o meno della stessa foggia di quello indossato dagli euzoni che montano la guardia di fronte al Parlamento ateniese, compreso il grosso pon pon sulle scarpe dalla punta all’insù, ma il tessuto di pelo di capra dei suoi abiti era nero e ruvido. In mano teneva un lungo bastone la cui impugnatura portava scolpita una testa di serpente!

    Diversamente da altre comunità seminomadi diffuse in Grecia, come i vlachi che trascorrevano l’inverno in veri e propri villaggi, i sarakatsani - che nella stagione fredda si riparavano in precarie capanne coniche fatte di vimini e giunchi - erano autentici nomadi, gli ultimi in Europa. La loro migrazione estiva verso gli alti pascoli iniziava in aprile alla vigilia della festa di san Giorgio mentre quella di san Demetrio, il 26 ottobre, segnava il ritorno alle terre più basse: ma se queste ricorrenze cadevano di martedì, settimanale anniversario della caduta di Bisanzio e quindi giorno di cattivo auspicio, la partenza veniva rimandata. Nonostante la loro secolare frequentazione di terre in cui si parlava albanese, slavo e turco, il loro linguaggio greco era rimasto esente da ogni prestito linguistico. Nemmeno la gabbia delle nuove frontiere nazionali disegnate all’inizio del Novecento dopo le guerre balcaniche, era riuscita a fermarli, visto che per anni continuarono a percorrere indisturbati i loro antichi tratturi spingendosi fino all’Albania meridionale, al Montenegro, la Bosnia, l’Erzegovina e la Bulgaria, e solo dopo la seconda guerra mondiale la ‘cortina di ferro’ bulgara intrappolò parte di loro, che non poterono più tornare in Grecia per svernarvi.

    Prima che anche il fiume Evros – che segna il confine fra la Tracia greca e quella turca - diventasse una frontiera invalicabile, molti sarakatsani guidavano le loro carovane in direzione est per svernare accampati sotto le mura di Teodosio a Costantinopoli, o nelle pianure della Troade, o ancora lungo le coste del mar Nero. I più audaci continuavano il loro viaggio fino ai pioppeti della Bitinia o si spingevano addirittura in Cappadocia per pascolare le loro greggi attorno ai ‘camini delle fate’ e ai monasteri nella roccia di Ürgüp. Qualche gruppo era stato segnalato addirittura nella regione di Konya. Ma anche così lontano dal territorio greco i sarakatsani non si sentivano stranieri perché – prima del forzato scambio di popolazioni fra Grecia e Turchia a seguito del Trattato di Losanna negli anni venti - il greco era parlato fin nel cuore dell’Asia Minore e sulle rive del mar Nero da antiche comunità ortodosse. In queste migrazioni asiatiche i percorsi dei sarakatsani combaciavano e si sovrapponevano con quelli degli yürük, nomadi dell’Anatolia centromeridionale che univano l’Islam ad un’elaborata religione popolare. Lo scrittore turco Irfan Orga, che trascorse un’estate dei primi anni cinquanta del Novecento in un loro accampamento sulle pendici del Karadag, tra Konya e Karaman, ne descrisse affascinato l’antico modo di ita nel suo Un viaggio in Turchia.

    Dopo la conquista turca dei Balcani nel XIV secolo gli yürük si erano infatti spinti fino in Macedonia e Tracia e la loro presenza fu segnalata fino alla fine del diciannovesimo secolo sui monti Rodopi, ridiventati così – come quando erano i monti Emo degli antichi – il simbolico punto di incontro fra i due mari delle migrazioni sarakatsane e yürük: Adriatico e mar Nero, Occidente e Oriente. Del resto, le frontiere dei nomadi sono mobili, seguono le migrazioni delle greggi, incuranti dei confini politici, ed è per questo che una delle priorità della democratica ‘modernità’ è stata quella di fermare queste libere, innocue transumanze, rivendicando la sedentarizzazione – e quindi il controllo - dei nomadi. Un modo di vita che si era mantenuto intatto per secoli fu così spazzato via dalla forza inesorabile del capitalismo e della burocrazia.

    I sarakatsani - o karakachani, i neri fuggitivi, appellativo di origine turca con cui sono chiamati in Bulgaria e che identifica anche la razza dei loro cani – per la maggior parte degli studiosi sono i veri greci, diretti discendenti dalle tribù doriche giunte tremila anni fa in quella che è la Grecia odierna. Secondo altri sarebbero invece un gruppo nomade pre-ellenico autoctono risalente al neolitico, o ancora – e questa è una stortura politica coltivata dai nazionalisti rumeni - un ramo del grande gruppo nomade dei vlachi la cui lingua neolatina si sarebbe successivamente ellenizzata, e c’è pure chi li identifica come yürük turcomanni convertiti al cristianesimo. Nelle loro tradizioni i sarakatsani – sia greci che bulgari – fanno riferimento come luogo d’origine alla regione di Agrafa nel massiccio del Pindo (4) e in effetti l’unico elemento su cui tutti gli studiosi concordano è la singolare qualità greco-arcaica del loro dialetto, mentre molti dei loro rituali mostrano tracce di sincretismo tra cristianesimo e paganesimo pre-classico.

    Sia come sia, all’apparire del sarakatsano di Fermor, sotto le acacie di Alexandroupoli era passato un fremito e gli uomini, i sedentari, per un attimo avevano sollevato il capo dai loro narghilè o dalle partite a tavlì per guardarlo: evidentemente già allora, alla metà degli anni sessanta, una simile visione stava diventando rara. Quanto a Fermor, non potè trattenersi dal seguire quell’uomo: dagli acquisti che faceva – lunghe candele ornate di nastri e fiocchi, candidi ninnoli, raso, pacchetti di dolci e infine una scatola con le corone nuziali argentate – capì che si preparava ad essere il koumbàros, il testimone, ad un matrimonio ortodosso. Mentre il sarakatsano sistemava i pacchetti sul suo cavallo e lo scrittore tentava disperatamente di trovare un aggancio per rivolgergli la parola, un sacchetto di mussolina pieno di confetti gli scivolò di mano: fu l’occasione buona e a Fermor - che si era precipitato a raccoglierlo e glielo porse pronunciando la frase che l’invitato rivolge tradizionalmente al koumbàros: Dio ti ricompensi! - il nomade, mettendosi una mano sul cuore e chinando la testa per ringraziarlo, disse: Onoraci con la tua presenza domani a Sikaraya.

    Sikaraya! Ho dimenticato Fermor e i sarakatsani – mentre, seguendo lungo la costa il tracciato dell’antica Egnatia, dopo la scoperta a Makri di una ‘grotta del Ciclope’ disquisiamo sui miti che, con le merci e la lingua, accompagnavano gli antichi mercanti greci nei loro percorsi - quando dall’ indistinto gracidio di una radio locale mi sembra di distinguere le parole Sykkorahi e sarakatsani: deve trattarsi della Sikaraya di Fermor. Poco dopo infatti, allertata dal richiamo di quelle parole, noto ad un bivio un cartello che indica la direzione del villaggio: un attimo di esitazione, poi imbocco decisa la strada deserta. Ora i Rodopi sembrano un’onirica fortezza azzurra in lontananza e il paesaggio si stende a perdita d’occhio, come un’antica Arcadia priva di tracce umane, punteggiato di greggi e di campi di girasoli. Ma della distesa di capanne coniche di giunco – le kalive sarakatsane che vide Fermor arrivando in treno per il matrimonio - non c’è più traccia.

    Ci fermiamo all’inizio del paese, acquattato in una conca soleggiata tra pendii verdi, in un bar all’aperto vicino alla strada ferrata – ormai in disuso, come ci diranno poi – che esibisce la pubblicità delle ‘feste con musica, danze e canti sarakatsani’ e questo non mi sembra un buon segno. Christos, un rubicondo, gioviale avventore che si comporta come se fosse il proprietario del locale, ci prende subito sotto la sua protezione e comincia a offrirci generose dosi di vino accompagnato da una poikilìa di formaggi di pecora locali: e questo è purtroppo il contatto più ravvicinato che riesco ad avere con l’antico mondo delle transumanze. Sempre più loquace ed estroverso man mano che vuota i bicchieri, alla mia timida domanda Ma dove vivono i sarakatsani? – pronta come sono ad affrontare i Rodopi pur di dare un’occhiata ai loro pascoli estivi - grida con entusiasmo: Io sono per metà albanese, per metà greco di Tracia – come si conviene ad un epigono del mondo ottomano cosmopolita – loro sono sarakatsani! E indica un gruppo di uomini taciturni seduti al tavolo vicino, che ci lanciano una fuggevole ma intensa occhiata colma di disapprovazione: ed è proprio questa occhiata tutt’altro che amichevole, per assurdo, a sembrarmi la prova più reale del fatto che – anche se ormai questi ultimi nomadi d’Europa sono stati completamente assimilati, omologati, sedentarizzati – non è del tutto perduto quel distaccato riserbo che li ha fatti entrare nel mito, quel fiero spirito tribale, endogamico e patriarcale grazie al quale hanno mantenuto intatti – in secolari transumanze che coprivano immensi spazi geografici - costumi, lingua e tradizioni.

    Ho letto che quando i sarakatsani si adattarono a vivere in modo sedentario nei vari villaggi della Rumelia, dell’Attica e dell’Eubea, causarono un certo risentimento nei locali, in particolar modo nei vlachi che – da sempre seminomadi – pensavano di avere maggiori diritti sul territorio. A questo punto però non ho nessuna domanda da fare: non avrebbe infatti senso rimarcare il mio rammarico per questa ennesima omologazione e non mi interessa certo ritornare quassù per la festa ‘tradizionale’. Potrei forse chiedere a questi epigoni del mondo nomade come si sentono al pensiero che molti di loro sono stati costretti ad emigrare in Germania? Distolgo lo sguardo, vergognandomi delle nostre risate, dell’allegria rumorosa suscitata dal vino, delle nostre generose scollature, ed è un sollievo quando, seguendo Christos che si è offerto di precederci con la sua macchina temendo che in questi sentieri erbosi smarriamo la direzione, ci lasciamo alle spalle Sihhoraki – e i sarakatsani ci fanno appena un gesto di saluto - per dirigerci verso il mare attraverso distese di stoppie dorate e minuscoli villaggi all’apparenza deserti che sottili minareti a matita identificano come abitati da musulmani.

    Con la Convenzione di Losanna del 1923 infatti, dei musulmani di Grecia furono esentati dalla deportazione forzata in Turchia solo quelli che abitavano nella Tracia occidentale. I loro villaggi, disseminati in questo piatto, uniforme paesaggio campestre, hanno un’aria di povertà e isolamento che testimonia lo stato di abbandono in cui versa questa comunità in Tracia. Del resto, anche la popolazione cristiana locale lamenta di essere trascurata dal governo di Atene. Christos intanto ferma la macchina e sghignazzando ci fa segno di coprirci il capo prima di ripartire: siamo in zona musulmana! Per parte mia non vedo traccia di essere umano e non so come interpretare questo scherzo mentre seguo la sua auto sulla strada che serpeggia tra campi di girasoli, arresa all’ineluttabilità di essere arrivata qui troppo tardi. E’ inutile che mi metta a cercare, in questa terra di confine, tracce dei gagauz che - cristiani turcofoni - sembra vivano nelle zone limitrofe ad Alexandroupoli. C’è almeno una decina di teorie sulle loro origini, la più accettata delle quali li fa discendere dalle tribù turche che nel VII secolo lasciarono i monti Altai e, raggiunte le pianure alla foce del Danubio, si convertirono al cristianesimo insieme ai bulgari nel IX secolo. Inutile pure che cerchi la minuscola comunità di nubiani, anche se sarebbero l’unica minoranza che, se non altro per il colore scuro della pelle, potrei riconoscere facilmente: discendenti dei servi di un governatore ottomano di origine egiziana, rimasero in Tracia anche dopo la fine dell’impero. Rinuncio anhe a cercare gli athingani - gli intoccabili, discendenti di antichi eretici perseguitati da Bisanzio, forse i pauliciani (5) - che vengono ormai assimilati agli zingari rom. In questi tempi così democratici è meglio per loro uniformarsi per evitare di essere emarginati. A un tratto, queste pianure all’apparenza così uniformi e monotone mi appaiono ricche di misteriose presenze.

    Quando infine Christos decide che ormai possiamo farcela da sole, esce barcollando dalla macchina – ha davvero esagerato con il vino - e ci saluta con un leggero inchino mettendosi la mano sul cuore. Mentre lo guardiamo allontanarsi, un sontuoso arcobaleno sale dai Rodopi distendendosi sulla pianura.

    Molti nomi per lo stesso fiume

    Tutte le strade portano all’Evros

    ( detto popolare greco)

    "Scendendo l’acqua a valle si unisce all’acqua.

    Acqua raggiunge acqua, sfocia nel mare"

    (Yunus Emre, turco XIII-XIV secolo)

    Lasciata Alexandroupoli in direzione est, ci fermiamo a Traianoupoli, fin dai tempi dei romani famosa stazione termale che, utilizzata poi dai bizantini e quindi dagli Ottomani, è tuttora in funzione. In un incolto spazio erboso i ruderi delle terme di Traiano stanno accanto al grazioso edificio termale di epoca ottomana da cui escono lunghi, incongrui tubi di gomma che strisciano nell’erba per addentrarsi – infilandosi in un finestrino che deve aver visto tempi migliori – nei modesti edifici ‘moderni’ dipinti di un solare giallo canarino. Sopra la porta d’ingresso, un pergolato polveroso, carico di grappoli d’uva ancora verdi, ombreggia una fila di poltroncine di ferro pitturate di bianco su cui siedono alcune ciarliere donne di mezza età in ciabatte che bevono generosi bicchieri di acqua termale ricca di cloruro di idrogeno e radio, come specifica un opuscoletto pubblicitario. Mentre le mie figlie spariscono nelle fumanti cellette delle terme, osservo questi edifici di tempi diversi ma uguale funzione, posati sull’erba l’uno accanto all’altro come in un gioco bizzarro. Il fluire dell’acqua che, un secolo dopo l’altro, generosamente continua a salire calda dal ventre della terra ha un suono rassicurante, come la continuità con il passato e le sue radici nel presente, che colgo tangibili in questo luogo dimesso, quasi dimenticato, mentre nelle nostre città d’Occidente sembrano invece brutalmente recise, lasciandoci fragili e spaesati.

    Per passare il tempo leggo su uno dei miei libri la storia di Spartaco, un nobile che - nato qui in Tracia - organizzò un moto rivoluzionario contro i dominatori romani. Con un centinaio di altri resistenti – o ribelli, dal punto di vista di Roma - fu venduto schiavo in Egitto dove lo misero a lavorare nelle miniere della Nubia finchè non venne comprato da un romano che lo avviò all’arte gladiatoria nella sua scuola. Spartaco tuttavia, lungi dall’accettare la sua condizione, riuscì a fuggire e raccolse attorno a sé migliaia di schiavi - con i quali occupò alcune città del sud Italia, come Sibari e Metaponto - prima di minacciare la stessa Roma, che per sconfiggere i ribelli mobilitò un esercito immenso. Dopo una feroce battaglia in cui lo stesso Spartaco rimase ucciso, i superstiti della sua armata vennero crocifissi ai lati della via Appia: ancora una volta l’impero aveva vinto.

    Parlando di imperi e di domini imposti con la violenza percorriamo in direzione est la via Egnatia, o meglio la nuova autostrada che - presentata come la chiave per lo sviluppo della regione – si è appropriata del nome e in gran parte anche del tracciato dell’antica via romana. La presenza di Bisanzio è ancora tangibile in questi luoghi. A Feres, nella chiesa rosa del dodicesimo secolo che è la copia fedele in scala ridotta di Santa Sofia, l’icona della ieratica Madonna Kosmosotira (1) protettrice della Tracia, la raffigura in posizione dominante sopra la via Egnatia sul cui tracciato è segnato, in debito rilievo, il suo termine orientale: Costantinopoli, la Città(2) per eccellenza. Ma in questa terra di frontiera anche il ricordo del passato ha una precisa connotazione politica e a questo proposito il cartello che campeggia a lato della strada che punta verso l’Evros è eloquente: Costantinopoli, 263 Km vi è scritto in grandi caratteri color fiamma, accanto all’emblema dell’aquila bicipite che fu il simbolo dell’impero bizantino e, non a caso, lo è ancora della Chiesa ortodossa: un simbolo antichissimo, legato all’Anatolia, che i greci mutuarono dagli Hittiti i quali a loro volta lo avevano preso dai Sumeri. Fu usato in seguito anche dai turchi Selgiuchidi di Anatolia, che si definirono Selgiuchidi di Rum proprio perché si sentivano i successori dei bizantini, gli eredi di Roma (3).

    Lasciamo la Egnatia - che continua alla nostra destra per attraversare, dopo qualche chilometro, il ponte di Kipi sull’Evros, il conteso corso d’acqua che segna il confine con la Turchia - e procediamo in direzione nord seguendo la valle del fiume. L’Evros non si vede, nascosto come è da una macchia boscosa che, come tutto il suo ampio delta, è zona militare ad accesso strettamente limitato. In cima ai pali dell’elettricità che fiancheggiano la strada grandi piattaforme rotonde ospitano sfrangiati nidi da cui emergono i lunghi colli di fiere cicogne: il delta dell’Evros è infatti anche una zona di transito privilegiata per gli uccelli migratori, allo stesso modo del delta dell’omonimo fiume speculare a questo, all’altra estremità dell’Europa. E non a caso l’Ebros catalano porta questo nome, come non è un caso che sia in Tracia che in Iberia – e in entrambi i casi in zone ricche di giacimenti d’argento – vi sia stata anticamente una colonia corinzia di nome Kypsela. Si ipotizza che queste due colonie omonime fossero rispettivamente il terminale orientale di una carovaniera che, antenata dell’Egnatia dei Romani, nasceva dall’Adriatico, e il terminale occidentale di un’altra via carovaniera che sempre dall’Adriatico prendeva avvio (4).

    Anche oggi del resto le vie commerciali confluiscono liberamente: non altrettanto liberamente, purtroppo, possono muoversi gli uomini. Le polizie di frontiera di Grecia e di Turchia, infatti, si palleggiano gli immigrati clandestini scaricandoli nottetempo dal lato, rispettivamente, turco o greco dell’Evros, mentre i trafficanti di uomini continuano a traghettare la loro merce al di qua della liquida barriera del fiume, nella fortezza Europa.

    All’indomani dell’armistizio che - firmato l’11 ottobre 1922 dai rappresentanti militari di Grecia, Turchia e delle potenze alleate a Mudanya, sul Mar di Marmara - mise fine alla guerra greco-turca seguita senza soluzione di continuità alla prima guerra mondiale, con l’evacuazione dalla Tracia orientale di parte dell’esercito greco sconfitto l’Evros vide la fuga dei circa 250.000 romei, o greco-ortodossi, che in quelle pianure avevano vissuto fino ad allora. Fra i testimoni di quell’esodo vi furono Fridtjof Nansen - già eroe di una spedizione artica, ora impegnato come diplomatico nell’aiuto ai rifugiati per conto della Lega delle Nazioni – ed Ernest Hemingway, giovane giornalista del Toronto Daily Star. In vista della Conferenza di pace - le cui consultazioni, avviate il 20 novembre 1922 al Mount Benon Casinò di Losanna, si sarebbero protratte per otto mesi prima che si potesse giungere ad un accordo definitivo - il politico greco Venizelos, che pur non avendo al momento una carica ufficiale rappresentava la Grecia essendone il personaggio più carismatico e il più stimato in campo internazionale, ritenne che accettare di ricollocare questa massa di gente qualche centinaio di chilometri più a ovest fosse, per quanto penoso, il prezzo da pagare per l’ellenizzazione della Tracia occidentale, dove i cristiani di lingua greca erano sempre stati in minoranza rispetto ai musulmani di lingua turca e bulgara e ai cristiani che parlavano bulgaro. Si sarebbero in tal modo tenute a bada le sempre minacciose ambizioni territoriali bulgare.

    Continuando a seguire l’invisibile Evros in direzione di Adrianoupoli-Edirne in Turchia, sostiamo a Didimotico. La cittadina prende il nome dalla sua possente doppia cerchia di mura, che non valsero però a preservarla dagli attacchi degli spietati avventurieri della terza e, soprattutto, della quarta crociata i quali, invece di puntare alla liberazione del santo Sepolcro, indulsero in lunghe deviazioni allo scopo di saccheggiare le province bizantine. Ricordata in una famosa canzone di Yorgos Dalaras come noioso avamposto militare per l’isolamento in cui l’ha confinata la frontiera dell’Evros, Didimotico fu capitale bizantina nel corso di un paio di guerre civili e in seguito precedette Edirne come capitale ottomana sotto Murat I, mentre per molti anni il suo castello custodì il tesoro dell’impero degli Osmanli. La nostra guida della Tracia, però, di Ottomani non parla, se non per citare sbrigativamente la loro occupazione della cittadina nel 1360 e la liberazione da parte dei greci nel fatidico 1920. L’interessante moschea dal tetto cuspidale costruita da Murat - la prima moschea ottomana su suolo europeo - non è nemmeno menzionata, al pari del suo snello minareto decapitato, mentre le case turche – sulla guida e dai greci che incontro – vengono chiamate case tradizionali o semplicemente palià spitia, vecchie case. Gruppi di allegri ragazzini ci seguono ridendo e, presumiamo, ci prendono in giro in un dialetto che non comprendiamo, mentre facciamo il giro delle mura bizantine per trovare il famoso albero della vita che vi è disegnato con semplici scaglie di mattoni.

    Leggerò più tardi che, come ad Alexandroupoli, anche a Didimotico è presente una minoranza musulmana – bulgari, turchi e in prevalenza zingari rom – in conseguenza delle tragiche vicende che hanno insanguinato questa terra, contesa fino alla definitiva conquista greca all’inizio del Novecento. I Rom, in particolare, giunsero nella zona balcanico-danubiana fin dal XII secolo, in epoca bizantina, e la loro migrazione aumentò notevolmente nel periodo ottomano (5). A Didimotico il secolare dominio ottomano è ricordato in modo satirico e dionisiaco nel periodo del carnevale con il personaggio di Beis, un baffuto uomo maturo che porta la pelliccia, il fez, gli stivali, il bastone e la pistola e fuma il narghilé.

    Nella zona circostante il paesaggio è ampio, bucolico, indifferenziato nella luce chiarissima del mezzogiorno. In giro non c’è nessuno, mentre seguiamo la strada deserta che attraversa questo stretto lembo di pianura incuneata fra la Turchia e la Grecia. Le informazioni che abbiamo non combaciano però con i nomi dei villaggi e all’improvviso mi rendo conto che l’aggettivo ‘nuova’ premesso ad Orestiada e poi a Vissa – come del resto a innumerevoli località in tutta la Grecia - ha un preciso significato: la ‘vecchia’ Vissa, come la ‘vecchia’ Orestiada, sobborgo di Adrianoupoli-Edirne, stanno dall’altra parte del confine, nascoste, perdute, sotto un nome turco, un nome con cui a dire il vero gli abitanti turchi le hanno sempre identificate. Del resto, dall’altra parte del confine, l’Evros ha nome Meriç e più a nord, nella parte di Tracia che ora è bulgara, lo chiamano Maritza. Mi accorgo che una cosa è studiare la storia sui libri, un’altra farla combaciare con i luoghi, con i volti della gente che l’ha subita e ne stata travolta nel generale silenzio. La ‘nuova’ Vissa, come la ‘nuova’ Orestiada, vennero infatti fondate dai profughi del 1921 e del 1923 che, costretti a lasciare i loro paesi entrati a far parte della Turchia, ricostruirono i loro villaggi pochi chilometri più a ovest, oltre l’Evros, portandosi dietro la memoria dei propri ‘grandi uomini’, ai quali costruirono monumenti nelle nuove piazze ancora senza storia: uomini che, nati in Tracia orientale, erano stati educati nelle scuole di Adrianoupoli-Edirne e magari sepolti a Costantinopoli, dopo aver fatto carriera nel mondo ottomano. Di identità più definita è invece Spiros Dasios che, nato ad Atene, è un autentico èllinas, non un romiòs. Nel 1921 Dasios ottenne il difficile incarico di Governatore della Tracia e, nonostante le circostanze decisamente sfavorevoli, si prodigò per dare una soluzione il più veloce possibile al problema del ricollocamento dei profughi della Tracia orientale. La ‘vecchia’ Orestiada – Karagaç per i turchi – ha una storia antica che si perde nel mito: l’avrebbe fondata Oreste che, inseguito dalle Erinni per aver ucciso sua madre Clitemnestra colpevole dell’assassinio di Agamennone, venne consigliato da un indovino di cercare il luogo dove si incontrano tre fiumi e di purificarsi in quelle acque. Fu così che, risalendo l’Evros dalla foce, Oreste giunse al punto dove vi confluivano l’Ardas e il Tunza, e lì eresse un tempio, il primo nucleo della città che da lui prese il nome.

    Siamo entrate ad Orestiada nel taxi di Apostolos, un esuberante greco sulla cinquantina che ci ha scortate attraverso il confine: un vero confine, che – abituata ai viaggi aerei dove si transita da un non-luogo all’altro perdendo il senso della distanza e delle differenze fra i diversi paesi – varco con una certa emozione. Tra uno sventolio di bandiere – biancoazzurra, quindi rossa con la mezzaluna – Apostolos si destreggia parlando in turco con i doganieri, maneggia passaporti e bolli per il visto, ci spinge avanti, ai primi posti, nonostante la lunga fila di persone in attesa, evidentemente compiaciuto di gestire la situazione da vero habitué e di esibirsi davanti a noi. Passiamo in sordina, a testa bassa, da un busto di Atatürk ad una sua gigantografia – begli occhi chiari gelidi, vaga rassomiglianza con un lupo – e siamo a Karagaç, la ‘vecchia’ Orestiada: i passaporti rosso scuro dell’Unione europea nelle nostre mani sono un lasciapassare infallibile. Seguendo viali alberati fiancheggiati da linde casette che mi ricordano quelle dell’Asia centrale, Apostolos ci conduce davanti ad un brutto monumento – due sottili colonne quadrate di cemento di lunghezza diversa che simboleggiano la divisione della Tracia – ed esclama: E’ in ricordo del Trattato di Losanna. Per dire ‘trattato’ usa il termine greco sinfonìa, che ai miei orecchi suona piuttosto incongruo trattandosi di un accordo che, se fu accolto con soddisfazione dai politici turchi, penalizzò la Grecia, che veniva punita per la sua controversa campagna di guerra in Anatolia, e penalizzò soprattutto circa due milioni di persone costrette a mutare patria. Fu una grande ingiustizia, scrive la nostra guida, decisamente nazionalista perché i nostri alleati – Curzon per l’Inghilterra, Poincaré per la Francia e Mussolini per l’Italia – accondiscesero alle richieste del turco Ismet Pascià, parlamentare di Adrianoupoli. In realtà, lo scambio di popolazioni presentava dei vantaggi anche dal punto di vista dei politici greci.

    Questa via viene chiamata Losanna continua Apostolos che – dopo averci indicato un paio di vagoni del celebre Orient Express abbandonati su un prato come un treno da luna park, la storica stazione costruita dai francesi e ora sede di alcune facoltà dell’Università della Tracia, e infine l’edificio in stile liberty dove Venizelos e gli alleati tennero alcuni incontri con i rappresentanti turchi – si ferma con una sgommata del suo taxi all’imbocco del ponte sull’Evros per mostrarci il famoso punto d’incontro dei tre fiumi dove Oreste sfuggì alle sue persecutrici ma forse non al proprio rimorso. Sull’altra sponda – emergendo da una distesa di tetti rossi - si stagliano, numerosi e sottili, i minareti ottomani di Edirne-Adrianoupoli.

    Frontiere di guerra, frontiere di pace

    "In tutte le culture dove le grandi religioni convivono gomito a gomito, e di tanto in tanto si danno una spallata, le identità dell’Ineffabile finiscono invariabilmente con il mescolarsi. (..) Gli dei si fanno intransigenti e spietati solo quando l’uomo, alla conquista di questa o quell’altra utopia, (…) si allontana dalla Creazione

    e uccide l’amore che lega il Creatore al Creato"

    (Moris Farhi, turco n.1935)

    Lo scrittore greco Ghiannis Xanthoulis è nato nel 1947 ad Alexandroupoli da genitori entrambi profughi della Tracia orientale. Il suo libro O Turkos ston Kipo - il turco in giardino, dedicato ai nostri viaggi e ai viaggiatori – è un canto d’amore per il mondo ottomano, un onirico pellegrinaggio intrapreso da un bambino undicenne alla vigilia della festa del Profeta Elia, il suo giorno onomastico:

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