Piedra colorada
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Anteprima del libro
Piedra colorada - Angelo Marenzana
Insonnia
Piedra Colorada
di Angelo Marenzana
Editing: Marta Giubbilei, Daniele Picciuti
Produzione Digitale e immagine di copertina: Laura Platamone
ISBN: 978-88-98739-18-9
Nero Press Edizioni
http://neropress.it
© Associazione Culturale Nero Cafè
Edizione digitale Agosto 2014
Angelo Marenzana
Piedra
Colorada
I
Penitenziario di Piedra Colorada, maggio 1939
Non gli era mai capitato prima di allora. Nemmeno a causa di uno scherzo di cattivo gusto. Non era mai successo al sergente Francisco Nava di trovarsi puntate contro le gelide canne di sei Colt Obregon, tutte in dotazione alle guardie che proprio lui comandava nel penitenziario di Piedra Colorada.
Era accaduto mentre faceva un giro di ispezione, di mattina presto, con ancora in bocca il sapore dell’ultimo caffè. Quello all’aroma di cannella. Come glielo preparava sua moglie Anamaria. Il sergente voleva sincerarsi delle condizioni di salute di sei detenuti che, pur ospitati in sei differenti celle, il giorno prima avevano lamentato le stesse, forti, contrazioni intestinali. Un virus, aveva pensato. Non si poteva correre il rischio di un’epidemia. Così aveva dato ordine di isolarli nella piccola infermeria. Ultimo anello superiore.
«Girati, bastardo». Lo sguardo del detenuto 187 non promette niente di buono. Lui è El Gordio, come lo chiamano i compagni, per quanto è grasso, per quanto suda e per come è stato capace di soffocare uno che gli doveva dei soldi stringendogli la testa sotto un’ascella. Avvicina la canna alla tempia del sergente, gli strappa la pistola dalla fondina e lo strattona in avanti con un colpo alla schiena.
«Stattene buono nell’angolo e nessuno si farà male» fa eco la voce rauca e fredda come il marmo di El Raton, detenuto 102, chiuso a marcire in carcere per il resto della vita per aver sequestrato moglie e figlia di un commerciante messicano e averne sciolto i corpi nell’acido dopo aver incassato una prima parte del riscatto.
Il sergente tace. Un po’ per convenienza, un po’ per le labbra secche. Inutile passarci sopra la lingua, darebbe solo l’impressione di essere nervoso.. Sa che certe circostanze bisogna metterle in conto perché fanno parte del mestiere. Guarda gli altri ostaggi. Tutti stesi a terra. Immobili. Una dozzina di guardie, il medico e due detenuti infermieri. Tengono le mani incrociate dietro la nuca. Le stuoie polverose nascondono i loro visi. Nessuno fiata.
Il sergente abbassa lo sguardo. Pensa che forse è arrivato il momento della deflagrazione tanto temuta. La rivolta sarà la scintilla che accende la miccia. Se lo sentiva. Da tempo. Come una premonizione. Ma non era necessario essere maghi. Lo pensavano tutti. Lo avevano segnalato anche più volte che nel carcere di Piedra Colorada ormai da troppo tempo si viveva in un orrore di rancori e disperazione che non poteva reggere oltre. Ma nessuno, ai piani alti del Dipartimento Generale, aveva voluto prendere provvedimenti. Chi aveva ricevuto e letto i verbali inviati dal penitenziario era rimasto comodamente sprofondato in poltrona e aveva deciso che no, non c’era da preoccuparsi perché non esisteva alcun pericolo reale. Basta solo usare il manganello, lasciavano intendere strizzando un occhio e leggendo tra le righe dei commi più duri del regolamento. Un paio di costole rotte, un cranio fracassato e un periodo di isolamento al buio sarebbero stati i migliori deterrenti per le teste calde. Restare senza acqua e cibo per qualche giorno avrebbe invece calmato i bollori di chiunque.
Nei casi estremi si poteva giustificare anche un colpo di pistola.
Ma la cura prescritta era servita solo a nutrire odio con nuovo odio.
Piedra Colorada era materia che scottava le dita. Alla fine prevalevano le questioni di politica, roba di cui lui e i suoi colleghi non capivano nulla. A loro competeva solo l’obbedienza.
Il sergente suda. Più del solito. Vede il profilo della moglie. Anamaria. Ha lasciato le comodità di una famiglia borghese per seguirlo su un’isola sperduta. Una donna attenta e premurosa, devota in chiesa, calda a letto. Vede suo figlio Rubio, un ragazzino di cui essere orgoglioso, che studia volentieri, e lo fa perché è intelligente, non certo per timore di una punizione.
Preferisce pensare a loro. Perché in quel momento non gliene frega niente di capire come un gruppo di criminali senza scrupoli possa sperare di portare in salvo la pelle oltre quell’oceano infinito che assedia l’isola di Piedra Colorada. Al sergente frega solo di tornarsene a casa e sapere se quelle bocche rotonde come biglie che gli stanno a quattro dita dalla fronte si animeranno per spargere la morte. Se quell’acciaio lucido dalla forma esagonale si dilaterà per risucchiare la sua vita, nel momento stesso in cui esploderà contro di lui, o contro qualcun altro, un frammento minuscolo di piombo, grazie a tutta una logica fisica che lui ha imparato al corso. È pure in grado di spiegarlo a quelli appena assunti, la camera di compressione, la scintilla, lo scoppio… ma in realtà, in cuor suo, non ha mai capito come un pezzetto d’acciaio che batte contro un altro pezzetto d’acciaio ancora più piccolo possa produrre simili conseguenze, solo con l’aggiunta di una scintilla che non sarebbe in grado nemmeno di accendere una sigaretta.
Insomma, gli frega di sapere solo se lo ammazzeranno.
Prova a raccogliere un pugno di energie residue.
«Cosa volete?» chiede d’istinto, cercando di usare un tono consono alla propria autorità.
«Secondo te? Vogliamo andarcene via, perché vivere qui dentro è uno schifo… ti basta?»
Il sergente non ha bisogno di farselo ricordare. Lo sa bene come si campa tra i bracci del carcere. Regna l’odore del buio e della putrefazione, l’aria ristagna tra l’orina dei detenuti e gli escrementi dei ratti. Loculi malsani, arroventati dal sole. Scarafaggi. Scorpioni. Si mangia brodaglia, carne marcia e verdure ammuffite. I reclusi si ammalano per colpa della sporcizia, delle infezioni e della violenza che surriscalda l’ambiente. Ogni scusa è buona per i detenuti per rompersi la testa fra di loro, per regolare conti a mani nude o con una qualunque cosa affilata che riescano a procurarsi per piantarlo in pancia, in gola o in una natica dell’avversario. E in molte occasioni per infliggere del male anche a se stessi lasciando tracce del proprio sangue ovunque, sulle pareti, sulle brande, sui pavimenti.
Il sergente vorrebbe mettere fine a quella sceneggiata che non porterà da nessuna parte e riequilibrare i ruoli, perché in un carcere non è così che funziona. E vorrebbe gridare:
«Maldidos!»
Ma non può. Il nervosismo è sempre un brutto alleato in certi casi. Meglio non calcare troppo la mano.
El Gordio lo riporta alla realtà. Lo colpisce forte ai reni. Il sergente fa uno sforzo per cercare di restare in piedi. Ondeggia e recupera l’equilibrio appoggiando una mano alla parete.
«Adesso ti porto fuori e se i tuoi soci non fanno quello che vogliamo, puoi solo pregare per la tua mala suerte».
Il sergente Nava apre il cancello. Luce abbagliante. Sole a picco. Ultimo tratto dell’anello superiore. Ultime celle. Il gruppo dilaga all’esterno cogliendo tutti di sorpresa, per prime le guardie appostate sulle torrette. I rivoltosi occupano parte del perimetro della passatoia in ferro. Urlano, minacciano, si fanno scudo con i corpi degli ostaggi. Con le chiavi sottratte aprono le celle. Escono altri detenuti. Urlano pure loro, battono i pugni contro le inferriate e le ringhiere. Il caos si fa più intenso. Ribaltano le brande fuori dalle celle, oltre il limite dell’anello. Nel vuoto. Le smembrano a mani nude per trasformare le assi di legno