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Il podere del Noce
Il podere del Noce
Il podere del Noce
E-book225 pagine3 ore

Il podere del Noce

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Info su questo ebook

Un podere, una famiglia e sullo sfondo la seconda guerra mondiale. Un tempo in cui fierezza, sofferenza e riscatto scandiscono le vite delle persone e dove la terra e la patria diventano ragione di vita e di sopravvivenza. Molti destini s’intrecciano intorno alla famiglia di Giovanni e alla sua casa: storie segnate dal dolore e dalla gioia, dal perdersi e ritrovarsi, dalla nostalgia del passato e dal timore per il futuro, dalla voglia di cambiamento e dalla necessità di restare ancorati al le proprie origini. L’amore è l’unico a non essere scalfito dalla guerra, dalla perdita e dal cambiamento: l’amore che per qualcuno ha l’aspetto di una donna, per altri di un padre, un figlio, un fratello, un uomo. Un sentimento capace di resistere ad ogni cosa e di dare vita e speranza ad ogni cosa e che affonda le sue radici, forte e possente come un albero di noce, in un terreno sperso tra le colline toscane.
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2014
ISBN9788898190423
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    Anteprima del libro

    Il podere del Noce - Franco Tiberi

    Sommario

    Copertina

    Frontespizio

    Copyright

    Sommario

    Prefazione

    Personaggi principali

    CAPITOLO 1

    CAPITOLO 2

    CAPILOLO 3

    CAPITOLO 4

    CAPITOLO 5

    CAPITOLO 6

    L'Autore

    Franco Tiberi

    Il podere del Noce

    Copyright

    Titolo: Il podere del Noce

    Autore: Franco Tiberi

    Disegno della copertina: Franco Tiberi

    Copyright © 2014 LibroSì EDIZIONI

    ISBN versione ebook: 978-88-98190-42-3

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    Prefazione

    Nelle riunioni di famiglia in cui numerosi parenti si sedevano in lunghe tavolate allegre, gli aneddoti che scaturivano dai loro ricordi e dalla loro fantasia colpivano la mia immaginazione.

    La voglia di raccontare di quel mondo cominciò a stimolarmi. Avevo bisogno di conoscere fino in fondo le origini delle storie così iniziai una ricerca fatta di incontri con i personaggi che avevano vissuto in quell'epoca e il mio lavoro cominciò a prender vita. Le numerose interviste agli anziani di un paesino al confine tra Toscana e Lazio nel quale, tra l'altro, contavo molti parenti, contribuirono a tratteggiare i personaggi del mio racconto. Scoprii allora che i soldi, per esempio, hanno assunto l'importanza vitale che oggi noi attribuiamo solo dopo gli anni '60, prima, nessuno pensava di ricompensare con il denaro il lavoro altrui, o di acquistarne i prodotti. Il baratto, lo scambio di lavoro e altre forme sociali di collaborazione consentivano ai più di vivere dignitosamente in armonia. Occorreva un tetto, una stalla per il bestiame e i pochissimi attrezzi, per lo più manuali, utili per coltivare i campi e braccia forti per il lavoro.

    Una famiglia contadina patriarcale è al centro della storia.

    Una visita in punta di piedi all'interno di una saga che vede i personaggi nascere, crescere, invecchiare e morire, avviluppati da un legame indissolubile con la propria terra. Un amore, quello per la terra, grande nel cuore delle passate generazioni, che va estinguendosi con l'evoluzione verso la modernità.

    La fierezza di essere contadino, di trarre dal podere tutto quello che occorre per vivere si esprime con sofferenza e umiltà, con la voglia di abbandonare e il desiderio di tornare, incatenati da un legame forte come un cordone ombelicale.

    Personaggi principali

    Giovanni (Nanni): il capofamiglia del Podere del Noce

    Anna: moglie di Giovanni

    Roberto: primogenito di Giovanni

    Rocco: secondogenito di Giovanni

    Antonio: terzogenito di Giovanni

    Giuseppe: il figlio più piccolo di Giovanni

    Maria: figlia di Giovanni

    Rina: figlia di Giovanni

    Nazzareno: il nonno

    Aristide: il fattore

    Adalgisa: moglie di Aristide in secodne nozze

    Lisa: figliastra di Aristide, il fattore

    CAPITOLO 1

    Le scintillanti lingue di fuoco del focolare tingevano gli oggetti e la casa di un vermiglio acquerellato. Gli odori della cucina inondavano lo spazio del grande stanzone dove tutta la famiglia era riunita per la cena. Seduto a capo tavola con due folti baffoni neri, volto abbronzato per la lunga esposizione al tiepido sole marzolino, ma con la pelle ormai avvezza a tutti i tipi di clima, Giovanni, serio e accigliato, scorreva lo sguardo sui presenti. La cena, punto di riferimento della giornata agricola, era l'occasione nella quale il capofamiglia distribuiva gli incarichi per il giorno successivo. I commensali riuniti erano tutti soggiogati dallo sguardo indagatore, si sentivano in colpa, sotto la mira di quegli occhi, pur non avendo commesso nessuna manchevolezza. «Bella famiglia!» Ragionava Giovanni tra sé «I maschi tutti forti e sani, due giovanotti larghi di spalle e un mingherlino di sei anni ispido di capelli con una fibra di corniolo. Le due ragazze bene in carne, serie e lavoratrici, badano alla casa con la stessa maestria delle donne mature». Poi c'era Anna, sua moglie, ancora bella nonostante gli anni; per lei provava un affetto fraterno, anche se gli stimoli, quelli che fanno venire il nodo allo stomaco, quelli non li avvertiva più. Il nonno Nazzareno, padre di Giovanni, vecchio saggio e invalido della guerra d'Africa, era un carattere indomito, un testardo ribelle poco docile anche alle idee del figlio, accettate, spesso, solo per quieto vivere.

    Fu lui a sciogliere la tensione: «Le bestie hanno attaccato la Pergola del sor Aristide, pe' fortuna co' du' bastonate l'ho ricacciate!».

    «So' bestie 'n po' agitate...», proseguì Roberto il maggiore. Giovanni dal canto suo non rispondeva. I suoi pensieri, in quel momento, erano rivolti altrove, a Rocco, il suo secondogenito.

    «Che decisione stolta era stata! Un giovane così bello e ardilo farsi prete, con tutte le belle bimbe che avrebbero dato l'anima per portarselo dietro il pagliaio, mah ... contento lui...».

    Quel pensiero di un figlio sacerdote lo rabbuiava spesso, anche nei momenti di tranquillità. Tante volte anche quando era in compagnia della Lisa che l'era bella come il sole, gli sovveniva, suo malgrado, il triste pensiero. Non che avesse qualcosa contro la Chiesa, erano proprio i preti che non poteva vedere, e proprio un figlio suo, il più bello, gli aveva voluto vestirsi da corvo!.

    Quando la cena fu quasi terminata, Anna prese da parte il marito con fare cospirativo; erano quegli gli atteggiamenti assunti in caso di comunicazioni da dare in gran segreto. Giovanni tese l'orecchio dissimulando la curiosità dietro un'ostentata indifferenza. «La Rina...» Anna prese fiato in un sospiro e proseguì, «la ci ha un giovane che la vole!» terminò con l'aspetto di chi ha appena tirato via un dente. Aggrottate le ciglia sui saettanti occhi: «'Un voglio sapere nulla io, tu fa' conto che un tu m'ha detto nulla!». Fu la risposta perentoria seppur detta sottovoce; poi si rivolse intorno alla ricerca dei sigari, si alzò da tavola e ne trasse uno dalla credenza.

    Mentre il padre passava lo zolfanello sulla pietra focaia del focolare, Rina, con gli occhi bassi, interrogava la madre, silenziosamente, per conoscere la risposta di Giovanni.

    Acceso il sigaro, Giovanni si incamminò verso la porta per sedersi sugli scalini a fumare; i tre maschi lo seguirono. Anna, Rina e la sorella Maria restarono in cucina per rigovernare.

    «Che v'ha detto?» sbottò Rina che non ne poteva più.

    «Gli ha detto che...‘Un ne vol' sapere e che te tu ha' da ave' giudizio».

    Lo zinale sul viso, Rina si avviò correndo verso la camera.

    Roberto, risvegliato dal tocco delicato della mano materna, si sollevò dal giaciglio, aveva gli occhi pieni di sonno: la sera prima, all'osteria, era rimasto a discutere fino a tarda ora. L'argomento riguardava l'invenzione di un tale che l'aveva portata dall'America, Marconi si chiamava il tale e radioera lo stano nome dell'invenzione. Diceva il dottore, che aveva dato disposizione al cugino di portargliene una appena l'avesse reperita in commercio a Roma:«Tutto dipende dalla corrente elettrica, si scaldano le valvole e la musica si diffonde dalla scatola di legno...».Tanto era ansioso di averla che, al solo pensiero, gli brillavano gli occhi come ad un bambino la sera dell'Epifania.

    «Quando l'avrò messa su vi chiamerò. Tutti a sentire la voce del Duce!» concluse. Rinaldo, il figlio del carrettiere, un po' brillo, con la faccia bianca e piena, gli occhi azzurri del colore delle stoviglie in due occhiaie arrossate dal vino, continuava a strillare che era impossibile che in una scatola di legno potesse esserci il Duce che parlava.«Briaco a me, ovvia... il dottore sta peggio, ditemi come può starci nella cassetta il Duce grande e grosso com'è».Il Dottore rideva a crepapelle: «Son le onde, le onde benedetto figliolo, passano sopra le montagne, sorvolano il letto dei fiumi, arrivano all'antenna dell'apparecchio e portano la voce, solo la voce! 'Un c'è mica tutto l'omo!».

    Rinaldo stordito dall'alcol rimase per un attimo incantato, figurando nella mente queste onde, che non sapeva di cosa fossero fatte, passare sopra alle montagne, dilagare nelle valli, interruppe però bruscamente le fantasie riaffacciandosi alla realtà. Sdegnato e contrariato perché proprio il dottore, una persona seria, quella sera lo portasse in giro, il ragazzo si alzò e barcollando si avviò verso casa agitando una mano all'aria in segno di diniego. Nel la stalla satura del vapore emesso dalle bestie e dei miasmi del bottino Roberto ripensava ai discorsi della sera prima. «Voi lo sapete che è una radio?» disse improvvisamente rivolto al padre.

    «'Un lo so, ma il dottore è venuto ieri a cercarmi sul poggio per dirmi di andare a sentirla quando ‘l su' cugino Ernesto gliela porterà».

    «'Un vi dispiace se vengo con voi?».

    «No, figurati. Basta che tu venga al letto subito, che la mattina c'è da fa' co' le bestie!».

    «Va bene. Come vu' volete».

    Il lavoro al podere comprendeva un grosso numero d'impegni, tutti, peraltro abbastanza importanti.

    La cura dei buoi spettava a Roberto, il maggiore dei quattro maschi, ormai venticinquenne. Ragazzo forte come un toro, di scarsa fantasia ma docile e disciplinato ai voleri del padre. Per i lavori del campo era perfetto, parlava pochissimo, lavorava sodo, non beveva e non fumava; anche nei casi nei quali si trovava a lavorare in compagnia Roberto pensava solo al suo lavoro.

    Con stupore il padre lo aveva sentilo parlare, con interesse, di qualcosa che non fosse un vitello o una manza. Era poco tentato anche dalle bellezze muliebri, tanto che Giovanni aveva spesso pensato che lui fosse più adatto di Rocco alla vita ecclesiastica. Un ragazzo così era comunque importantissimo nelle faccende del podere: era preciso in tutte le cose che faceva e svolgeva con passione i compiti assegnatigli.

    Quelli erano i giorni della potatura delle viti. Affidata a Roberto la vigna piccola dietro la cantina, Giovanni, con l'aiuto di Antonio l'altro figliolo, si occupò della piantata. Giuseppe, il piccolino portava a pascolare il bestiame, voleva bene agli animali, aveva attribuito un nome ad ogni bovino per intavolare insieme a loro complicati discorsi ispirati dalle profacole¹ del nonno Nazzareno.

    Le donne, nel frattempo, dovevano occuparsi delle faccende domestiche. La preparazione dei pasti, il bucato, gli animali da cortile, la cura della dispensa, il formaggio, erano il loro naturale impegno che bastava, a tenerle impegnate per tutta la giornata. Nelle decisioni importanti raramente avevano un ruolo ufficiale, salvo a consultarle in privato. La loro attività si estendeva alla cura degli animali che razzolavano nell'aia. La tendenza a spettegolare un po' nelle veglie o durante le faccende, sconsigliava gli uomini dal confidare loro pensieri che riguardassero il padrone o qualche bega con i poderi vicini.

    CAPITOLO 2

    Dalle finestre si dominava tutta la vallata. Il fabbricato, composto di due corpi ravvicinati, era collegato al fienile da un vialetto di tigli, ad una decina di metri di distanza. Il Podere del Noce sorgeva alla sommità di una collina verde di prati in ogni direzione, mantenuti rasi dal costante brucare del gregge. In mezzo all'aia, imponente per le fronde generose, troneggiava un noce che regalava l'ombra all'aia con una quercia secolare.

    Vicino al casale c'era la stalla delle vaccine; in prossimità della grande quercia e, poco lontano dalla stalla stessa, il capanno dalle pareti di rami di ginestra, ospitava galline e attrezzi. Per il carro e il calesse del mulo era stata allestita una rimessa adiacente alla stalla. Le galline erano rimesse nel capanno degli attrezzi durante la notte per dar loro un riparo dalle intemperie e dalla volpe sempre in agguato. Durante il giorno razzolavano sull'aia, scavando buche e spiluccando qualsiasi cosa attirasse il loro interesse in compagnia di oche e anatre che concentravano la loro attenzione sullo stagno alimentato da una piccola sorgente naturale; il gallo impettito e, nell'avvicinarsi del Santo Natale, un paio di tacchini e qualche cappone.

    Gli attrezzi erano poveri: qualche aratro dal lungo timone da appoggiare sul giogo, una coltrina, il voltorecchi l'erpice, il carro piccolo, venivano protetti dall'assalto notturno dei polli mediante una tramezzatura di rami di ginestra che suddivideva il capanno. Il carro con la sua stupenda flessibilità d'impiego, era utile sia al trasporto dello stallatico, alla carratura dei balzi di grano per la trebbiatura o semplicemente come mezzo di trasporto per recarsi in paese, dopo averlo infiocchettato a festa, nei giorni di fiera. Vicino all'enorme focolare con i sedili sotto la cappa, davanti al fuoco alimentato da enormi ceppi di quercia, inermi e pigolanti, in una cesta di rami di salice intrecciati, era facile trovare a fine inverno una tenera nidiata di pulcini dorati, tenuti lì per proteggerli dalle intemperie e dai predatori. A fare buona guardia da questi ultimi pensava il cane, un meticcio capace per la caccia e per fare da pastore, rannicchiato sornione nella sua cuccia ricavata da un buco attraverso il pagliaio.

    Anna e le figlie, mentre sbrigavano le faccende domestiche, riuscivano a vedere gran parte degli uomini impegnati nei vari mestieri della campagna.

    Spesso di giorno all'ora di pranzo, una delle figlie s'incamminava con la cesta sul capo, protetto alla meglio da un panno attorcigliato a torello, piena di vivande e vino fresco di cantina per i fratelli e il padre al lavoro. Con il fardello ingombrante sul capo la ragazza era costretta a camminare con il busto perfettamente eretto, nessuna distrazione, tutt'al più un sorriso appena accennato al pastorello del podere confinante che ne scimmiottava l'andatura salutandola.

    In uno di quei giorni di primavera inoltrata, Giuseppe, sempre imprevedibile e irrequieto, sottraendosi al controllo della madre, si era rifugiato in soffitta. Che magia in quelle cose ammassate alla rinfusa, coperte di polvere e tele di ragno. Il ragazzo, frenetico e curioso, apriva e spostava tutto quello che trovava: riscoprendo una vecchia uniforme dello zio Evaristo, guardia regia, la indossava confusamente e scimmiottava, in qualche specchio ossidato, un ufficiale dal piglio fiero e risoluto. Chi fossero gli ufficiali gli era stato spiegato dal nonno Nazzareno: ne aveva sentilo parlare proprio a proposito di un oggetto particolare che un ufficiale di cavalleria aveva donato al vecchio nell'ospedale da campo dove erano stati ricoverati durante la guerra d'Africa.

    L'oggetto doveva trovarsi in una di quelle casse che il nonno aveva ammassato insieme a tutte le cianfrusaglie del fronte. Finalmente in un cassettone avvolto dalle tele di ragno trovò un astuccio di panno nero; lo aprì con trepidazione, come se stesse scoprendo uno di quei tesori delle storie di pirati che ogni tanto il nonno gli aveva raccontato.

    D'ottone lucente, contornato dal velluto rosso, un cannocchiale a tre sezioni telescopiche brillò agli occhi del ragazzo con tutto il suo fascino di sconosciuto.

    Quando prese a maneggiarlo Giuseppe si ricordò dei racconti del nonno, quando, parlando del cannocchiale aveva spiegato l'uso che ne avevano fatto in guerra durante i cannoneggiamenti delle linee nemiche. Dopo alcuni tentativi riuscì a coglierne il funzionamento.

    Puntandolo fuori, attraverso la presa d'aria del tetto, fece una straordinaria scoperta. Era possibile varcare le colline brune di lecci, fino allora baluardo estremo alla sua vista, e sbirciare di là dove solo i sogni erano stati. Fu come partire per un viaggio, senza muoversi. La meraviglia cessò di colpo quando sentì avvicinare i richiami e le imprecazioni lanciate da Anna, la madre, senza risparmio. Ben sapendo che quegli scrosci d'ira erano spesso destinati a lui, lesto ripose il cannocchiale nella custodia e la custodia nel baule, lanciandosi, con l'agilità di un gatto, verso gli scalini ripidi della scaletta di legno.

    Di fronte alla madre, Giuseppe aspettava timoroso di essere accusato di qualche birbonata ma capì subito che il clamore suscitato non era rivolto a lui.

    «Anche stanotte gli ha ammazzato 'naltra chioccia! Codesta bestiaccia!» Disse Anna aggiungendo una fila di imprecazioni. Il vecchio Nazzareno, che entrava in casa in quel momento:

    «La volpe?» domandò con un lampo improvviso negli occhi.

    «Vedrai…» fu la risposta.

    «'Un ti preoccupare che un la camperà tanto a lungo». Sentenziò Nazzareno con aria furba.

    Scese nella dispensa, trafficò brevemente tra la cassettina del piombo e la polvere da sparo, poi armato dello schioppone a bacchetta, prese velocemente la porta. Dalla finestra Anna osservò a lungo il suo incedere reso claudicante dalle ferite di guerra fino a quando non scomparve nella macchia.

    La portata dell'avvenimento continuò a crescere nei giorni che seguirono. All'uscita della Santa Messa, le donne ne parlavano con animazione, descrivendo con dispetto i danni ricevuti. L'astuta predatrice aveva attinto con equo giudizio dalla gran parte dei pollai della zona.

    «Il Nazzareno … è da quattro giorni che la bracca, da quanto è preso, 'un ci dorme la notte!» disse Anna rivolta alla cugina Marta, schermendo con la mano il sorriso spontaneo.

    Dopo alcuni giorni di appostamenti infruttuosi, Nazzareno, che per astuzia non era da meno a nessuna volpe, riuscì ad individuare la zona della tana. La domenica successiva, appena giorno, il nonno arrivò a casa con la volpe in spalla.

    L'accoglienza fu festante e lui, quasi a voler dimostrare che gli anni non avevano sottratto nulla alla sua abilità di tiratore, disse a Giovanni «O' te! Un colpo in piena fronte e di notte, un lo so se tu ci saresti riuscito!».

    Giovanni sorrise e gli posò la mano sulla spalla per rassicuralo della sua stima.

    «Appena fatta colazione, la si spella, poi si va a fa' la questua dell'ovi» disse Giuseppe con il suo fraseggiare veloce.

    Dirlo e vederla bell'è impagliata fu tutt'uno. Giuseppe e due garzoni, figli di famiglie povere del contado che lavoravano al podere, presero la volpe impagliata e la portarono di casa in casa per riscuotere il pegno, pagato in uova, per la uccisione del predatore.

    Nessuno si tirò indietro di fronte

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