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Operazione Genesi
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E-book349 pagine4 ore

Operazione Genesi

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Info su questo ebook

La prima indagine a Marta Scuteri l’ha assegnata il vicequestore Anselmi, giusto per farsi le ossa: “Una cosetta facile, facile, devi riportarmi indietro un picchiatello in fuga dalla clinica Mater Misericordiae, qui a Roma.” Il “picchiatello” è Alberto Ludovici, un soggetto con gravi segni di sdoppiamento della personalità, che qualcuno ha aiutato a fuggire dalla clinica psichiatrica, in cui peraltro accadono molte cose poco chiare. L’ispettore Scuteri scoperchierà, senza volerlo, un vero vaso di Pandora, che cela il più incredibile e sconvolgente segreto della Chiesa di Roma, che alti prelati cercano di custodire con qualsiasi mezzo. Operazione Genesi è un romanzo ricco di colpi di scena, personaggi inquietanti e inaspettati misteri.
LinguaItaliano
Data di uscita4 apr 2019
ISBN9788866904922
Operazione Genesi

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    Anteprima del libro

    Operazione Genesi - Mario Nejrotti

    Brunetto.

    Prologo

    «Pietro sente le voci, Pietro sente le voci, parla con l’angelo, parla con l’angelo...»

    Dieci fratelli, tutti più grandi: aveva fatto male a confidare il suo segreto a Gaspare, ora non smettevano più di prenderlo in giro! Eppure quella voce la sentiva davvero dentro di lui. Lo guidava e lo ammoniva. Non voleva che si arrendesse al suo destino di ultimo figlio di una povera famiglia contadina di Sant’Angelo Limosano, nel profondo Molise.

    Gli insegnava a riconoscere le erbe, i fiori e a chiamare le stelle con il loro nome.

    «Là dobbiamo tornare tutti» gli sussurrava.

    Aveva scoperto che c’erano erbe buone ed erbe cattive: quelle capaci di curare le malattie e quelle che procuravano la morte.

    Pietro ascoltava e imparava in fretta. Però non diceva a nessuno quello che imparava, perché la voce non voleva, ma con Gaspare si era vantato di avere anche lui un angelo che gli parlava come quello che aveva rivelato a Maria che sarebbe nato Gesù.

    I bambini purtroppo non sanno tenere a lungo i segreti: Gaspare ne aveva riso con gli altri fratelli e c’erano voluti i ceffoni del padre a zittire la cantilena. «Smettete questo stupido scherzo. Se sento ancora qualcuno di voi che ne parla, se la dovrà vedere con me!»

    E poi a Pietro che ancora tirava su con il naso: «Non ne parlare mai più: hai capito? Non ne parlare più con nessuno!»

    «Ma padre, io so curare le persone con le erbe. Lui me lo ha insegnato!»

    Lo schiaffo era arrivato poderoso sul viso a suggellare un comando al silenzio per la salvezza del piccolo.

    Ma in casa Angeleri era entrata la paura che in paese si sospettasse che Pietro fosse posseduto dal diavolo e che potesse capitare qualcosa di molto grave a lui e a tutta la loro famiglia.

    La Chiesa non era tenera quando sentiva odore di demonio e, per salvaguardare l’anima dei suoi fedeli, era disposta a tutto.

    Passarono anni tutti uguali, in paese i pettegolezzi sulla stranezza di Pietro si moltiplicavano. Ogni tanto il ragazzo curava qualche contadino, che guariva.

    La voce dentro di lui comandava di farlo e disubbidire era impossibile, pena dolori e convulsioni.

    Chi lo vedeva pregare davanti alle edicole e alle immagini sacre pensava che fosse un prediletto da Dio, ma alcuni sospettavano di lui.

    Il padre temeva per la vita del figlio a cui era affezionato, anche se era gracile e magrolino e col tempo era diventato taciturno e meditabondo.

    Se ne andava in giro nei dintorni del paese, si nascondeva sovente negli anfratti della montagna e qualche volta non tornava a casa per giorni.

    Dicevano che avesse delle visioni e la gente incominciò a trattarlo come un santo eremita.

    Il padre e la madre, dopo una notte di veglia e di preghiere a Sant’Anna, avevano deciso di portarlo al monastero benedettino di Santa Maria di Faifoli, per avviarlo alla vita ecclesiastica.

    In segreto i due poveretti erano convinti che cane non mangia cane e che una volta monaco non avrebbe più corso rischi, anzi avrebbe avuto la possibilità di fare strada nella Chiesa, grazie al suo dono.

    Quando lo lasciarono al monastero era il giugno del 1224.

    Dopo qualche anno il giovane, malvisto dagli altri monaci per le cose che sapeva fare e che imparava con estrema facilità, si allontanò dal monastero e si ritirò a condurre una vita ascetica sui monti, costruendo un eremo.

    In quegli anni un eremita che sentiva le voci e faceva del bene ai poveri acquistava in fretta fama e fu quello che successe a Pietro Angeleri, detto Pietro del Morrone.

    Era il 1292: dopo la morte di Papa Niccolò IV la Chiesa si dibatteva nella difficoltà di dare un pastore alle sue greggi. Una vacanza durata ventisette mesi senza accordo sul nome del nuovo papa, con Roma in tumulto.

    Fu allora che Pietro Angeleri, il figlio di contadini molisani, per la sua fama di asceta e visionario, fu chiamato a occupare il soglio pontificio con il nome di Celestino V.

    Fu incoronato a L’Aquila, poi si trasferì a Napoli, in Castel Nuovo, sotto la pesante protezione di re Carlo d’Angiò.

    Viveva modestamente e governava la Chiesa, tra mille preoccupazioni e tentennamenti.

    La sera del 5 dicembre 1294 si incontrò con il cardinale Benedetto Caetani, che da mesi era diventato suo consigliere.

    La responsabilità della Chiesa universale, gli intrighi della corte angioina e degli Aragonesi non si confacevano al vecchio monaco e neppure alla voce che gli parlava nell’animo, che lo esortava a fuggire la corte e la Curia, a ritornare alle sue montagne. Lo tormentava, spesso impedendogli di dormire.

    Avevano cenato frugalmente nella cella monacale, allestita per il papa nel castello dal re angioino e poi si erano fermati a parlare e a riflettere.

    La notte era alta quando Celestino V disse al cardinale: «Mi dovete confessare, perché ho un segreto nel cuore che non posso più mantenere e il cui peso può schiacciare la nostra amata Chiesa».

    La confessione dolorosa e interrotta da frequenti pianti e singhiozzi da parte dell’anziano asceta durò fino al sorgere del sole.

    Quando il cardinale uscì dalla cella aveva sul volto un’espressione di angoscia e di rabbia: il viso era rigato di lacrime impotenti.

    Caetani non parlò con nessuno del colloquio, ma il 13 dicembre Pietro rinunciò al papato, nonostante l’insistenza di Carlo d’Angiò e lo sconcerto di parte della Curia. L’unico a sostenerlo in questa lacerante decisione fu proprio il suo consigliere.

    «Non dovevi confidarti con lui! Ora non sei al sicuro qui a Napoli. Devi andartene! Caetani ti ucciderà. Non può ammettere che sia vero quello che gli hai raccontato» sussurrava la voce dentro di lui.

    «Mio Signore, non potevo tenere per me il vostro segreto. Io sono un servo e non sarò mai altro. Tutti debbono sapere. Caetani si sta preparando, perché il nuovo Pontefice sveli la verità sull’umanità e sul suo destino. Non potevo più tenere tutto dentro, ma non ho la forza per parlare al popolo di Dio. Lo farà lui: troverà la strada.»

    «Non dirà mai niente a nessuno. Farà di tutto perché questo segreto non sia mai svelato. È certo disposto a uccidere te, per distruggere me. Sarà lui il nuovo Pontefice. Solo un ingenuo come te non lo capisce. Devi tornare al tuo paese e devi chiedere ospitalità in segreto a una famiglia che ti sia amica. Ma bada di ricordare: in una casa dove ci siano neonati. La vita deve continuare!»

    «Mio signore, farò come dite. Per me voglio solo il silenzio e la meditazione.»

    Il 23 dicembre, dieci giorni dopo il rifiuto di Celestino, Benedetto Caetani fu nominato papa e scelse il nome di Bonifacio VIII.

    Pietro da Morrone fu avvertito che il nuovo pontefice voleva catturarlo e tenerlo in prigionia.

    Fuggì per cinque mesi, senza potersi fermare, per cercare di raggiungere la Grecia. Ma una notte a Vieste, dove aveva trovato rifugio, fu catturato dagli uomini del Caetani e condotto alla Rocca di Fumone.

    Il nuovo papa lo tenne rinchiuso per un anno.

    Per tutto il periodo, non fu maltrattato e venne servito con rispetto.

    Gli fu allestita una cella nella rocca, perché potesse meditare e pregare. Fu nutrito e curato.

    Bonifacio temeva la voce che si agitava in lui e le profezie del vecchio monaco.

    Una tra tutte lo colpì e fu per questo tentato di liberarlo.

    Era l’inizio della primavera del 1296, Pietro pregò Bonifacio di lasciarlo tornare nelle sue montagne per incontrare il suo creatore in solitudine e meditazione, ma al rifiuto del pontefice, con una voce terribile, che non era la sua, urlò: «Intrabis ut vulpes, regnabis ut leo, morieris ut canis».

    Bonifacio fuggì dalla cella e non si fece più vedere da Celestino.

    Ma diede un ordine che non fu mai compreso dalla sua guardia e dai cardinali a lui fedeli.

    Nella stanza accanto a quella di Pietro doveva sempre esserci una madre che allattava il proprio piccolo e in quei mesi se ne alternarono sei. Fino alla morte di Celestino.

    La stessa notte fu trovata morta, senza alcun segno di violenza, l’ultima donna che allattava il suo neonato. Era arrivata da appena due settimane: nessuno ebbe più notizie del bambino.

    Capitolo I

    «L’ascensore. Si è fermato al piano. Stanno venendo. Lo porteranno via stanotte!»

    «Taci! Non voglio più sentirti. È malato. Lo portano a curarsi meglio!»

    «Non è vero e lo sai. Vogliono solo che quelli come me non escano mai più fuori. Sono disposti a tutto!»

    «Taci! L’hai sentito anche tu come urlava l’altra notte. Sta troppo male. Non controlla più le emozioni! Ora lo portano all’altra clinica e risolvono! Quando tornerà sarà tranquillo. Starà bene.»

    «Sì... tranquillo! Istupidito, vorrai dire. Un ebete che cammina!»

    «Ma no. Con il tempo migliorano.»

    «Allora vuoi che ci portino là?»

    «Che cosa c’entra. Io non ho mai fatto tutte quelle scene. Certo tu mi innervosisci e qualche volta…»

    «Non saremmo qui dentro, se non ti innervosissi, come dici tu! Hai sfasciato la camera di sotto l’ultima volta! Tu e le tue paure. Devi fare quello che dico io: sempre! Stare calmo e non insospettirli, altrimenti là ci finiamo anche noi.»

    «Basta darmi ordini. Altrimenti…»

    «Stai zitto! Sono alla 14. Ora entrano.»

    La porta della stanza speciale 14 si aprì con uno scatto secco.

    Entrarono due infermieri, un medico e un prelato.

    Il paziente non dormiva. Aveva resistito ai tranquillanti. Saltò addosso al primo e lo sbatté contro la parete. Aveva una forza notevole.

    «Ma tenetelo!» urlò l’uomo con il camice lungo e immacolato. «Non lo avevate sedato?»

    Si dibatteva come un ossesso, ma non aveva speranza. Gli furono tutti sopra e lo immobilizzarono.

    Una presa al collo, spietata e forte da togliere l’aria e la possibilità di reagire.

    L’ago nel braccio e poi gli inutili ultimi scatti.

    «È crollato, finalmente!»

    «Tra un’ora e mezza saremo a Viterbo. La sala operatoria è pronta?»

    «Sì, professore. L’équipe aspetta il nostro arrivo. L’ambulanza è sotto. Non ci saranno problemi.»

    «Viene anche lei, monsignore?»

    «No, professore. Io resto e pregherò per lui!»

    «Naturalmente!» rispose il primario sbrigativo.

    «Andiamo. Via, velocemente.»

    «Stia tranquillo, professore. Non può svegliarsi. Passerà dal sonno all’anestesia!»

    La barella entrò nell’ascensore.

    «Andate avanti. Vi seguo tra un istante!»

    «Un’altra lobotomia e un altro di loro neutralizzato, ma non possiamo esagerare con i trasferimenti e gli interventi. Qualcuno potrebbe parlare. Muoviamoci con attenzione, ma scopriamo presto dove si nasconde il gruppo!»

    «Qui dentro tutti hanno troppo da perdere e non sono in grado di giudicare le nostre scelte.»

    «Certo monsignore, ma dobbiamo essere prudenti. Ce ne restano ancora due da interrogare per saperne di più!»

    «Professore, la nostra missione è salvare l’umanità dalla menzogna e dal caos. Se costoro riuscissero a diffondere il segreto, per tutti noi sarebbe la fine. Santa Madre Chiesa sarebbe travolta e noi non possiamo permetterlo.»

    «Certo, monsignore. Nei prossimi giorni interrogheremo ancora Fasoli e Ludovici. Ci diranno quello che sanno, dovessimo fare sedute di elettroshock tutti i giorni! Buona notte e a domani.»

    «Che la pace sia con lei!»

    E il professore con un sorriso pensò: «Se non lo conoscessi, sembrerebbe davvero un uomo di Dio!»

    Dopo quella notte non avevano portato via più nessuno, ma alla stanza 16 c’era molto movimento. Fasoli andava all’elettroshock quasi tutti i giorni e con loro avevano intensificato le sedute di psicoterapia.

    Lui non ricordava bene: inutile.

    Più si sforzava e meno ricordava. Flash sconnessi, colori, emozioni forti: paura, odio, angoscia, smarrimento, senso di colpa.

    Si sentiva un sopravvissuto, ma non sapeva perché. Era sempre stato insieme a un altro.

    C’era un prima? Gli sembrava, ma non lo sapeva. Ricordi di tempi lontani: sogni, forse.

    La memoria incominciava con Alberto Ludovici dal momento in cui era nato.

    Gli sembrava diverso da lui e inappropriato.

    Quando lui voleva fare qualche cosa, gli bastava il pensiero: ideazione e azione simultanee. Non lì: altrove, ma non ricordava dove.

    Qui lui pensava e Alberto agiva: tutto approssimato, tutto maldestro. Lenti progressi, mille errori, mille piccoli, grandi difetti e ripensamenti.

    Poi c’erano il tempo e lo spazio.

    Si viveva immersi in quelle dimensioni, che potevano a malapena essere un po’ forzate, ma costringevano a un atto dopo l’altro.

    Al massimo con sforzo grandioso i migliori riuscivano a fare due o tre cose insieme. Allora andavano sui libri di storia, sui giornali o alla televisione, a farsi ammirare tra i Guinness dei primati e vincere gettoni d’oro. Amavano l’oro tutti quei lenti e goffi esseri che assomigliavano ad Alberto.

    Loro però non sentivano la sua voce come il ragazzo. Era inutile gridare: le comunicazioni con l’esterno erano interrotte.

    O per lo meno nessuno lo dava a vedere se qualche cosa sentiva. Talvolta il sospetto lo aveva avuto che qualcuno di quegli uomini lo percepisse.

    Poteva comunicare bene solo con lui.

    D’altronde come avrebbe fatto quel povero Alberto a non sentirlo?

    Da quando si era svegliato dentro di lui aveva incominciato a fare quello che aveva sempre fatto: lo aveva guidato, comandato, diretto, corretto, giudicato.

    Lui era il comandante e l’altro doveva ubbidire.

    Da fuori non si capiva, almeno fino a quando il ragazzo non aveva incominciato ad avere paura.

    È brutta la paura, se è dentro di te e non puoi zittirla.

    La voce è la paura. Sono i suoi comandi, quando vuole che tu faccia qualche cosa che non vuoi e sai che non potrai opporti. Provi a fuggire, provi a correre. Vorresti colpirlo, ferirlo, ma è dentro di te.

    Allora vorresti anche morire, almeno morirà anche lui.

    Ma l’altro non te lo permette. Sa come convincerti a non farlo, a non scavalcare il davanzale, aprire il gas, tagliarti le vene. Sì, quello talvolta te lo lascia fare, tanto sa che non andrai fino in fondo. Il sangue ti fa orrore.

    Alberto con l’altro: una vita di merda. L’altro con Alberto: una vita limitata e senza scopo.

    Erano due disperati.

    «Tutte a me dovevano capitare» pensava Alberto quando era un ragazzo e incominciava a ragionare. «Non solo sono pazzo, ma sento anche una voce angosciata. Uno che mi fa domande che lo riguardano e io che cazzo gli rispondo? Non poteva essere uno sdoppiamento della personalità come tutti gli altri?»

    Aveva letto un trattato di psichiatria divulgativa su un blog in internet e la diagnosi di quello che gli stava capitando se l’era fatta da solo.

    Invece la sua voce interiore, il suo altro, non ricordava da dove arrivava e dove doveva andare. O per lo meno non chiaramente o non voleva dirgli tutto.

    In più aveva idee megalomani: diceva che era il capo, il comandante.

    Comandante di che cosa?

    Lui non lo ricordava e neanche Alberto lo poteva sapere, naturalmente.

    Di sé e del suo corpo conosceva pochissimo. Non sapeva come funzionavano i suoi organi. Solo quello che aveva studiato in biologia a scuola.

    Figurarsi a livello cellulare e genetico. Lui conosceva la storia, non la medicina.

    Gli uomini continuavano a studiare il corpo e le leggi della natura, come se dovessero scoprire un universo estraneo.

    Si sapeva veramente ancora poco di meccanismi fisiologici, trasmissioni genetiche, mutazioni del DNA, delle malattie che distruggevano i corpi e delle terapie per combatterle. Quelle poi cambiavano sempre nel tempo grazie a nuove scoperte.

    La cosa inspiegabile era proprio questa: per comprendere se stessi gli uomini dovevano studiare, ricercare, sperimentare, rendere solide le conoscenze, che spesso venivano smentite da altre e più profonde indagini su come erano fatti e come ci si poteva mantenere in vita su quel pianeta.

    Una pianeta bellissimo, ma a dirla tutta veramente ostile.

    Non sapevano niente in modo intuitivo né di sé né dell’ambiente che li circondava: dovevano faticare per conoscere e questo lo aveva sempre stupito.

    Comunque gli uomini erano lì da centinaia di migliaia di anni, o almeno sembrava così, prima c’erano altri esseri; poi qualcosa di simile a loro, fino all’homo sapiens e ai contemporanei, forse più evoluti delle scimmie antropomorfe.

    Quello che lo aveva sempre disturbato, e che gli rendeva l’altro insopportabile, era che lui sapeva di non sapere e continuava a farsi domande su domande. L’altro invece era sprezzante e sembrava sapere tutto, ma ricordava poco o nulla.

    Certo facevano una bella coppia!

    L’altro aveva pensato mille volte di abbandonare Alberto, ma sapeva di non poterlo fare.

    Una forza misteriosa lo teneva lì dentro. Sentiva che se si fosse allontanato non sarebbe sopravvissuto.

    Provava paura di quel pianeta, abitato da miliardi di esseri simili ad Alberto, con quel sole che tutto illuminava e prosciugava.

    Di notte poteva uscire, ma per poco e senza allontanarsi.

    Lo odiava in un certo senso, ma sentiva anche che era ingiusto odiare chi lo ospitava.

    Una certa complicità si era instaurata tra loro. A volte, quando lo sentiva soffrire, gli faceva anche un po’ di pena.

    Lo aiutava a studiare e Alberto lo conduceva dove lui voleva.

    «Cercare, devo cercare!»

    Voleva ricordare chi era e perché era lì dentro. Intuizioni ne aveva avute, molte volte.

    Immagini, colori, rumori, anche altri pensieri: di chi?

    Ma appena provava a ricordare, come nei sogni di Alberto, tutto svaniva.

    Restava la sensazione di sapere, che sarebbe bastato un nulla per ricordare. Ma non succedeva.

    Tornavano il vuoto e un rancore confuso.

    Capitolo II

    Alberto adesso dormiva.

    Quando lo guardava in quello stato gli sembrava un oggetto inerte che solo lui poteva rendere vivo.

    Se avesse potuto fare a meno di quel coso arrogante che credeva di decidere autonomamente della sua vita, si sarebbe sentito felice, avrebbe ricordato tutto e sarebbe finalmente stato libero.

    Ora quello stava rannicchiato sul materasso che faceva da pavimento alla stanza e lui in piedi in un angolo lo guardava.

    Veramente non era neanche una stanza.

    Tre metri per tre: nessuna finestra. Una luce bianca pioveva dall’alto. Pareti, pavimento e soffitto bianchi, ricoperti da quello spesso materasso. Nessun letto, nessuna suppellettile, nessun’altra illuminazione oltre la plafoniera lassù al centro.

    Musica a basso volume di sottofondo.

    E quella melodia monotona non smetteva mai. Uno spioncino quadrato, chiuso da un vetro spesso, mostrava la parete verde del corridoio.

    Di quello che succedeva fuori si sentiva poco, ma qualche rumore filtrava.

    Dopo l’ultima scenata, lo avevano portato via dalla stanza al piano di sotto e lo avevano accompagnato lì, si fa per dire.

    Parole dolci all’orecchio, carezze: «Vedrai andrà tutto bene! Non torneranno più! Ti lasceranno stare. Nessuno ti vuole distruggere. Vieni con noi, stai tranquillo, non ti agitare più! Stai tranquillo!»

    E come avrebbero potuto fare altrimenti, lui e quel coso che lo conteneva. Erano due energumeni grossi come gorilla. Sorridevano, ma stringevano tanto che anche respirare diventava difficile.

    Uno era bravissimo: riusciva a infilare un ago nel braccio anche in corsa e non sbagliava mai la vena.

    Lo vedeva il sangue nella siringa, poco prima che si sentisse strano e Alberto smettesse di gridare.

    Poi gli infermieri se ne erano andati ed era rimasto solo lui a guardare l’altro mentre dormiva.

    Il tempo passava con una lentezza snervante. Si poteva solo dormire o pensare. Il ritmo delle giornate era scandito dalla somministrazione dei farmaci.

    «Si è calmato anche stavolta!» diceva il più grosso, lisciandosi la barba e aggiustandosi la divisa, mentre due teste si contendevano lo spazio dello spioncino per guardarlo dormire.

    «Ormai bastano a mala pena due Talofen in vena, tre volte al giorno» gli aveva risposto il secondo: faccia rotonda e solo un pochino meno grosso, occhi furbi e decisi.

    D’altronde in quell’ambiente o eri deciso o un calcio in bocca prima o poi te lo prendevi e, se gli restava nelle mani un cucchiaio, qualcuno dei ricoverati era anche capace di sbudellarti.

    La dottoressa Nazzari, Luisa per pochi, non voleva che li sedassero così profondamente, ma qualche precauzione per difendersi dovevano pure prenderla. Lei col suo visino pulito, gli occhioni azzurri e quei capelli biondi, setosi e sottili che bastava un filo di vento a spettinarli, non doveva lavarli, vestirli e portarli alle visite. Facile fare la dottoressa buona con uno stipendio che era tre volte il loro. Carina era carina: alta almeno uno e settanta, nasino alla francese, bel corpo, bel seno, qualche pensiero te lo faceva fare, per forza.

    Solo pensieri, però, perché in quel posto un po’ di libertà potevi prendertela solo di notte, quando non c’era gente in giro.

    Ma lei era la figlia del maggior finanziatore e turni di notte ne faceva pochi, anzi quasi nessuno.

    Veramente era un po’ strana, ogni tanto si incantava e guardava per aria, specie quando andava da quelli nelle camere speciali.

    Forse perciò non la facevano lavorare di notte, avevano paura che crollasse: magari non sopportava la tensione di quel reparto.

    In quel momento ce ne erano solo due di loro, per fortuna. Ma nei mesi precedenti ne avevano avuti fino a sette e non si viveva più. Sembrava un’epidemia, peggio dell’influenza, che quell’anno era stata tosta e gli aveva dimezzato l’organico e allora sì che era stato un problema.

    Quando si agitavano, uno da solo non li teneva fermi. Se erano già nelle stanze speciali, non era così grave: li si lasciava lì e basta.

    Ma se erano ancora al piano di sotto, capitava di dover cambiare anche il mobilio.

    Quei disgraziati si assomigliavano tutti: erano noiosi. Certamente prevedibili nelle loro inutili cantilene. Quando non erano Napoleone, qualche grande uomo o un santo o Gesù, il ritornello era sempre quello: «Le voci, le voci, le sento nella testa; i nemici mi vogliono uccidere, la fine del mondo, la stella esplode; pericolo, pericolo; dobbiamo scappare su un altro pianeta, arriva la fine del mondo. Dobbiamo uscire da qui, non ne posso più di stare chiuso qui dentro!»

    Tutta la serie delle solite baggianate.

    E se si provava a ragionare, a calmarli, era peggio. Finché non gli passava, erano proprio violenti. E allora giù di Talofen, altrimenti non si dormiva più e l’indomani non c’era nessuno a sostituirti.

    «Senti Giovà, io vado a sdraiarmi un po’ e tu cerca di fare lo stesso, tanto dalle camere speciali non possono uscire, dormono tutti e due tranquilli e sotto il Silenzio è suonato da un pezzo!»

    Il corridoio, illuminato dalle luci di emergenza, ora era deserto. Si sentiva solo il ronfare basso e regolare del condizionatore. Fuori la pioggia scrosciava e tirava un vento forte e freddo, ma dentro si sentiva un ovattato brusio che in altri luoghi avrebbe conciliato il sonno e cullato i sogni. Maledetto marzo, non sa mai da che parte stare: inverno o primavera. Per ora la primavera sembrava proprio non voler arrivare.

    La clinica Mater Misericordiae era immersa in un profondo silenzio.

    Sul pianerottolo del piano, proprio sopra la porta dell’ascensore, un neon gracchiava, accendendosi e spegnendosi.

    Erano mesi che faceva così e nessuno in direzione si decideva a cambiarlo con i nuovi led che facevano più luce e consumavano di meno. E poi erano anche ecologici. Ma a quelli del Consiglio di Amministrazione non gliene fregava niente, non parliamo alla suora caposala. A lei bastava la luce divina.

    Lui nell’angolo stava pensando: «Con tutto quel Talofen, per forza si è spento. Ma meglio così, preferisco ragionare con calma, senza le sue interferenze. Finché lui dorme, come dicono quegli altri, io posso starmene per conto mio,

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