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L'alba dei Farabutti
L'alba dei Farabutti
L'alba dei Farabutti
E-book334 pagine4 ore

L'alba dei Farabutti

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Info su questo ebook

In una web agency molto scalcinata e molto borderline, un gruppo variegato di professionisti affronta alla meno peggio la vita lavorativa legata al commercio su Internet al tempo della Grande Crisi. Però il vero protagonista è il titolare dell'agenzia, un imprenditore della contemporaneità che è riuscito a trasformare il suo quotidiano galleggiare nella cacca in una forma d'arte personalissima. L'autrice è meglio conosciuta con il nick “Gattasorniona”.

LinguaItaliano
Data di uscita16 gen 2018
ISBN9781310852787
L'alba dei Farabutti
Autore

Leonetta Gattasorniona Bartolozzi

L'equilibrio precario tra: la dieta, il panino alla porchetta e un sano desiderio di fuga... tutto questo pedalando per la mia città! L'autrice Pubblica anche con lo pseudonimo Leonetta G Bartolozzi. Cercami in rete!

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    Anteprima del libro

    L'alba dei Farabutti - Leonetta Gattasorniona Bartolozzi

    0. Prologo

    Oggi ho guadagnato un euro e sei centesimi.

    Molto bene.

    Nel Burkina Faso li prendono in un mese, mi sta andando di lusso.

    Guardo la schermata di riepilogo per la millesima volta: mancano 879 euro e ventidue centesimi. A occhio e croce ci vorranno poco più di tre anni per recuperare tutto.

    Un'ottima notizia.

    Sempre che io decida di lasciar perdere gli interessi, altrimenti il tempo si allunga di...

    Di...

    Dov'è la calcolatrice?

    Mi guardo intorno finché il prurito doloroso diventa insistente.

    Gratto la cicatrice, stando attenta a non usare più di tanto le unghie; il medico mi ha sconsigliato di farlo, ma è più forte di me. È buffa, sembra la cucitura del cotechino. Oddio, mi sta davvero venendo l'acquolina in bocca.

    Sorrido.

    Non c'è niente da sorridere.

    Il caffè è freddo. Mentre riporto la tazza in cucina, sfioro con la caviglia il sacchetto della spazzatura appoggiato per terra.

    Apro la bocca per sgranchirmi la mascella: emette un rumore di conchiglie schiacciate.

    Mi stiracchio mentre sbadiglio di gusto guardandomi intorno, chissà dove ho messo la calcolatrice.

    Accanto alla porta c'è la valigia, enorme anche se mezza vuota. Però io ho solo quella.

    In casa tutto è già spento, tranne il computer. L'ultima volta è andata via la corrente proprio mentre ero fuori e al mio ritorno ho trovato i surgelati in decomposizione. Una settimana di lavaggi con acqua tiepida e aceto per mandare via l'odore di cadavere. A questo giro non mi faccio fregare. Il passaporto è nella borsa, così come i soldi, i biglietti e il taccuino con il diario degli ultimi mesi.

    Non manca altro, sono pronta.

    Il cellulare vibra, sul display leggo: Lucian Popescu.

    Mi chiama di continuo. Però non mi va di rispondere, tanto lui lo sa che sto partendo. Gli scriverò con calma.

    È preoccupato, credo che si senta responsabile. Ma lui non c'entra niente, gliel'ho ripetuto un milione di volte. Ho fatto tutto da sola. Anche se, in fin dei conti, è stato solo un problema di tempistica infausta. Tutto qui.

    Tuttavia fu proprio Lucian a parlarmi di Walter Pedrella. Fu una mattina, all'incirca sette mesi fa, me lo ricordo come se fosse adesso.

    La primavera era appena iniziata, incubi spaventosi e affollati non mi avevano dato tregua per tutta la notte. Ero uscita di casa prestissimo, e quando lui mi telefonò, stavo vagando da ore nei vicoli del centro. Disse che conosceva un imprenditore, voleva presentarmelo. Gli era sembrata una buona idea parlargli di me, vista la situazione in cui mi trovavo.

    Il caro Lucian.

    Capitolo 1

    L'Ape Piaggio 50 Special arrancava lungo la salita, sbandando sul selciato sconnesso. Il ronzio metallico della marmitta era insopportabile. Stavo in piedi nel cassone, aggrappata con tutte le mie forze ai sostegni in ferro. Chiunque fosse alla guida rischiava di ammazzarmi a ogni metro. Mi sporgevo, gli gridavo di fermarsi, ma il rumore era troppo forte.

    Vuoi rallentare, disgraziato?

    Ai lati della strada era radunata una folla muta, i visi deformati. Come tanti zombi immobili e ghignanti, ci osservavano passare.

    Fermati, pazzo, voglio scendere, capito?

    Alcuni mostravano cornici barocche, con i ritratti di Maradona, Padre Pio, Flavio Briatore. Dalla folla spuntavano gonfaloni di velluto con avvisi scintillanti, ricamati a lettere d'oro: ficattole e gotto di vino €2, schiacciata coi ciccioli €1,5, tortelli al sugo di cinghiale, €3. L'aria era pervasa dall'odore di ragù e di nafta.

    Mi devo fermare a tutti i costi, anche solo per il gotto di vino: lo capisci autista?

    Ma quello pestava sull'acceleratore come un pazzo. Bomboloni caldi €1.

    Devo scendere adesso, fermati!

    Il rumore era lancinante. Rischiavo di venire sbalzata fuori da un momento all'altro, stavo per fracassarmi il cranio.

    Devo approfittare dell'offerta prima di morire: ferma!

    «E che cavolo!» dissi a voce alta, aprendo gli occhi.

    Mi ritrovai seduta sul letto, col cuore che batteva a mille. Avevo un sapore dolciastro in bocca e i muscoli del collo contratti.

    «Che incubo stupido» mormorai passandomi le mani tra i capelli sudati.

    Guardai l'ora, le 06:47 di una giornata qualsiasi di inizio primavera 2011. Fuori era quasi giorno. Chiusi gli occhi, e mi venne la voglia irresistibile di rotolare per terra e uscire di casa tuffandomi dal quarto piano. Osservai la mia caduta dal balcone.

    Sto dormendo? Sto sognando?

    Aprii gli occhi e sospirai.

    Richiusi gli occhi, solo per un minuto.

    La camera tremò, il letto si mosse.

    Ci siamo.

    Scalciai le coperte, e scattai in piedi sul pavimento. Avevo il respiro affannato e voglia di gridare.

    In cucina presi un bicchiere d'acqua, poi barcollai fino al salotto, rovesciandone metà per terra. Appoggiai il bicchiere sul tavolo senza berne nemmeno un sorso, infine sprofondai nel divano. Rimasi immobile per qualche minuto, cercando di tenere sotto controllo la nausea. Il cuore batteva forte e le mani erano gelate. Forse se fossi rimasta perfettamente immobile...

    Le pareti cominciarono a muoversi piano, quasi con grazia, l'inizio di una danza che conoscevo fin troppo bene. Sentivo la stanza intorno a me vibrare sempre di più, i muri tremavano come foglie al vento. Ma l'acqua nel bicchiere era immobile. Mi buttai sotto la doccia e mi vestii in fretta prima che l'appartamento si incartasse su se stesso come le vaschette della rosticceria.

    Non c'era niente da fare: l'inquietudine che in quel periodo non mi dava mai tregua, nelle ore mattutine si trasformava in malesseri variegati, allucinazioni e infine in depressione cupa.

    Dovevo muovermi.

    Se non l'avessi fatto in fretta, sarei crepata di lì a pochi minuti.

    Gli avevo dato un nome: l'Assedio del Nulla.

    Il Nulla volteggiava sopra casa mia, come una nuvola di Fantozzi sinistra, spettrale, pronta ad abbattersi a suo comodo sulla mia quasi-salma per annientarmi. Il Nulla riusciva a far tremare le pareti, poteva attraversarle senza fatica per raggiungermi e regalarmi, secondo il suo capriccio del momento: ictus, infarto, aneurisma... Oppure un bell'incidente domestico, coreografico e letale. Più il Nulla si avvicinava, più i sintomi si presentavano: da soli, in gruppo, concatenati, alternati, variegati... erano come fuochi di artificio in una notte d'estate, non c'era limite alle loro possibilità espressive.

    L'unica soluzione era scappare.

    Uscii in fretta, senza nemmeno farmi il caffè. Non presi l'ascensore: il Nulla amava cogliermi lì dentro, scuotere la cabina fino a farmi sudare freddo o urlare di paura. Avevo già fatto figure di merda con tutto il condominio.

    Il cortile era deserto e non c'era nessuno per la strada. Solo un vecchio con un cane ancor più vecchio al guinzaglio. Il minimarket dei turchi stava aprendo; il titolare portava fuori le cassette di frutta, disponendole sulle rastrelliere davanti al negozio. Ci salutammo con un cenno della mano, recuperai lo scooter e mi precipitai verso il centro della città, dove non avrei avuto niente da fare fino al pomeriggio.

    Ogni mattina sempre la stessa storia: appena alzata, dovevo fuggire da casa. Solo l'idea di trascorrere le ore diurne nel mio appartamento spoglio mi provocava una sindrome istantanea e personalissima, un bouquet di: vertigini, gastrite nervosa, palpitazioni violente a sorpresa, sensazioni di strangolamento e movimenti peristaltici a un passo dallo sport estremo.

    Alien è vivo, sta benone e scorrazza felice nel mio apparato digerente.

    Ecco il mio Nulla personale.

    Li chiamano attacchi di panico, me l'avevano spiegato.

    Ma non ero sicura che fossero proprio attacchi di panico. Io gli attacchi di panico me li ero sempre immaginati come esplosioni di terrore scomposto. Però, qualsiasi cosa fossero, in quei momenti stavo da cani.

    Mi calmava un po' il rituale mattutino della fuga.

    Gli avevo dato un altro nome suggestivo: Fuga dal Nulla. Mi precipitavo fuori di casa e iniziavo a vagare per la città.

    Non desideravo il tempo libero, non l'avevo mai chiesto il maledetto tempo libero. Mi era piombato tra capo e collo, effetto collaterale di una crisi economica che stentavo a capire, ma che in pochi mesi aveva stravolto la mia vita.

    «Finalmente avrai del tempo libero da dedicare a te stessa!» aveva detto Nadia, la mia amica new age, la sera prima, mentre cercava di tirarmi su.

    «Con tanto tempo libero finalmente puoi fare cose che non hai mai potuto fare» aveva aggiunto un'altra voce.

    «Guarda il lato positivo della faccenda: puoi inventarti un lavoro!»

    Inventarmi un lavoro? Santo cielo, ma che voleva dire? Ma dove viveva questa gente?

    Avevo passato il resto della serata ad accartocciarmi su me stessa, augurando ai presenti di passare un'esperienza analoga alla mia, almeno l'avrebbero smessa di dire sciocchezze. Che gli altri, quelli col sedere parato da impieghi parastatali, cogliessero pure i lati ameni della disoccupazione altrui.

    Ce l'avevo fatta appena a mormorare: «Scusate, sono stanchissima. Buona notte.»

    Avevo attraversato la città in un battibaleno ed ero rientrata a casa appena in tempo per precipitarmi in bagno a vomitare.

    Capitolo 2

    Quando mi trovavo per la strada il Nulla diventava più goffo, si muoveva lentamente, potevo distanziarlo, lasciarlo indietro. Talvolta addirittura sfancularlo. Bastava solo che non mi fermassi troppo a lungo.

    All'aperto mi sentivo più sicura: c'era la città che andava avanti, luci e ombre in perenne movimento. Non ci potevo quasi credere: le persone continuavano a vivere. Camminavo a lungo per stemperare nell'attività fisica quelle brutte sensazioni a cui mi stavo colpevolmente abituando.

    Eppure avevo provato in tanti modi a scrollarmele di dosso: training autogeno, percorsi culturali mirati all'accrescimento personale (come avevo letto nella brochure), circolo di lettura, soggiorno in campagna a contatto con la natura, sesso triste con un ex che aveva finito per peggiorare le cose... Tutto inutile, le palpitazioni continuavano ostinate e i sintomi nervosi si erano arricchiti: ormai li sentivo fermentare dentro di me.

    Forse avrei dovuto chiamare un esorcista.

    Avevo provato a buttarla sull'ironia creativa, seguendo la moda del momento e inventando aforismi intelligenti sotto i 140 caratteri sulla neopovertà, il nuovo virus sociale che aveva finito col contagiarmi.

    Il momento migliore, quando si ha la partita IVA per forza, è l'ora di chiuderla.

    Niente male davvero, andava solo limata un po' ma c'ero quasi. Ripetei la frase ancora una volta, a voce bassa. Subito mi passò la voglia di twittarla.

    Il sole era alto nel cielo, preludio dell'estate torrida che stava per esplodere di lì a poco. "Avrebbe potuto anche piovere, oggi" pensai dapprima sollevata, poi subito depressa, mentre mi lasciavo Palazzo Pitti alle spalle per entrare in via Guicciardini.

    Tutto il duro lavoro di anni e anni, nel tentativo di costruirmi una carriera e un minimo di sicurezze, si era vanificato nel giro di pochi mesi. Deglutii a fatica. Non soltanto avevo perso il lavoro, avevo perso anche il timone della mia esistenza ed ora navigavo a vista, senza una direzione, senza risorse, in balia degli eventi più banali, incapace di riprendere il controllo.

    Mi venne da ridere.

    A volte ero proprio tragica.

    Ma non è così semplice lasciarsi alle spalle un'esperienza traumatica come se fosse una palla di stracci da prendere a calci per mandarla più lontano possibile. Il mio passato lo sentivo più come un barattolo di Vinavil arrovesciato addosso. Liberarmi di quell'appiccicume sarebbe stata una faccenda lunga e snervante.

    All'inizio avevo affrontato la crisi con piglio pseudo-scientifico, buttandomi sui manuali di auto-aiuto, con la speranza che certe letture in odor di PNL potessero aiutarmi davvero a debellare quelle dinamiche nocive in cui mi stavo infognando ogni giorno di più. Prediligevo i guru americani dell'auto-miglioramento, mi sembravano i più pragmatici, più ottimisti. Era mia ferma intenzione portare a casa il risultato nel minor tempo possibile: via depressione, via cose brutte e ripartire alla grande;a fresh start, come dicono loro.

    Avevo provato con tutte le mie forze a riprogrammarmi, a immaginarmi come una donna di luce pura che non deve chiedere mai. O qualcosa del genere. Però tutti quei discorsi sul prendere il buono da ogni situazione, sul ritrovare la sintonia con il e finalmente ricostruirsi, sul resettarsi, sul riprogettarsi con consapevolezza attraverso facili esercizi, all'atto pratico si stavano rivelando un cumulo di panzane. Avevo perso tempo sui blog, in biblioteca e a parlare con gente sedicente esperta ma che alla lunga si era rivelata inadeguata.

    Tutto per cercare risposte dov'era chiaro fin dall'inizio che non ne avrei trovate. La PNL? Ma che cavolo mi era venuto in mente? Non ero Per Nulla Lucida.

    Respirai profondamente. Avevo voglia di cazzottare fitto fitto qualcuno.

    Mi rendevo conto di non essere neanche un caso particolare, un fortuito parafulmine della sfiga. Io ero la massa, non avevo neppure la magra soddisfazione di essere speciale. Infatti, statistiche alla mano, in quel periodo eravamo in tanti nella stessa situazione, un mucchio di gente destinata ad aumentare nel corso dell'anno successivo e anche di quello dopo ancora, potevo scommetterci.

    Come tanti altri, avevo dato il mio sanguinoso contributo alla formazione del grande esercito di quasi-disperati-senza-futuro che si allargava a macchia d'olio. Un esercito che contava nelle sue fila non soltanto disoccupati, ma soprattutto tanta di gente con lavori così precari da non poterci fare affidamento nemmeno per pianificare una spesa irrisoria, come uno scooter, un frigorifero nuovo. Gente disperata sì, ma troppo spesso con il pudore ridicolo – figlio di questi tempi fatti di apparenze cafone – della povertà e dell'ostentazione del bisogno, con la vergogna anche di far sentire la propria voce. Figuriamoci incazzarsi.

    Un esercito disinnescato e bolso.

    I famigerati neopoveri.

    Ed io ero una di loro.

    Una bella fregatura.

    Era davanti agli occhi di tutti come la situazione stesse peggiorando di giorno in giorno: la crisi economica, gli scossoni delle borse di tutto il mondo, la mancanza cronica di lavoro, il dissolversi delle prospettive e della visione del futuro.

    Il presente era diventato senza senso, in balia di una sconcertante causalità contingentale immediata e capillare. Un titolo di giornale apocalittico significava il verificarsi a ruota di eventi sfigati nella vita quotidiana di centinaia di migliaia di persone. Questa regolarità mi lasciava attonita e sempre più impaurita da un futuro che non lasciava presagire nulla di decente per tutti noi. Era come correre in massa verso il burrone. Un branco di stupidi lemming.

    Proprio non lo vedevo un futuro, mi ero afflosciata in una specie di limbo ridicolo. Come tanti altri, vivevo momento per momento, senza pensare a quello che sarebbe successo, non dico l'anno successivo, ma anche il mese successivo. Un carpe diem estenuante, che non aveva nulla di suggestivo e che mi portava a trascorrere giornate apatiche e sempre più solitarie, togliendomi a poco a poco l'entusiasmo di vivere. Mi rendevo conto del pantano di depressione che mi si offriva davanti, sempre più esteso, sempre più minaccioso, ma non riuscivo a far nulla per ribaltare la situazione.

    Soffocai uno sbuffo acido.

    Mi accorsi che stavo strascicando i piedi, avevo le gambe pesanti e la schiena contratta.

    Avevo combattuto per anni, cercando di salvare l'azienda in cui avevo lavorato fino a pochi mesi prima. Sforzi inutili: alla fine aveva chiuso, mettendoci tutti in mezzo a una delle tante strade che andavano dritte verso quel burrone.

    Avevo iniziato a mangiare di continuo e a non dormire quasi più. La sera crollavo in coma sul divano, come una carcassa di balena spiaggiata. Nel bel mezzo della notte mi svegliavo di soprassalto, senza più riuscire a riaddormentarmi. In quelle ore antelucane mi dava sollievo uscire. Il più delle volte andavo alla stazione. Da sola. Camminavo allucinata sul marciapiede lungo i binari: avanti e indietro, avanti e indietro. Quando ne avevo abbastanza mi fermavo a leggere il tabellone con gli orari dei treni in partenza. Dopo finivo sempre al bar, a bere caffè e ingurgitare calorie notturne, notoriamente le più sane.

    Avevo anche provato a fare un paio di sedute di psicoterapia. In un certo senso aveva funzionato.

    Ma non per me.

    Avevo aiutato la giovane dottoressa, fresca di specializzazione, a prendere consapevolezza sulla sua esistenza precaria e sul devasto sociale che ci circondava. Ero diventata bravissima: tempo una seduta e già riuscivo a spegnerle il sorriso con due frasi. L'ultima volta l'avevo lasciata con una faccia attonita, immersa nei suoi pensieri. E l'avevo pure pagata: trentacinque euro, senza fattura.

    In quattro sedute l'unico suggerimento concreto della strizzacervelli era stato di smettere di prendere il caffè la notte.

    In seguito avevo deciso di lasciar perdere la terapia. Piuttosto preferivo investire quei soldi per comprarmi una calibro 38 e iscrivermi al poligono.

    L'idea mi era venuta guardando un film. C'era questa attrice famosa di cui non ricordavo mai il nome che stringeva una pistola con tutte due le mani e con le braccia tese sparava all'impazzata contro una sagoma nera disegnata su un foglio bianco. Indossava un abito elegantissimo, occhiali di protezione con lenti gialle e cristalline e un paio di grandi cuffie di plastica lucida. Dopo ogni sparo chiudeva gli occhi senza perdere la concentrazione né il ritmo. Non poteva permettersi distrazioni: aveva un conto da regolare, una vecchia storia che le ritornava continuamente alla mente sotto forma di ricordi sgranati e obliqui. Ogni volta che finiva i colpi in caricatore premeva un bottone e la sagoma si avvicinava ondeggiando: tutti centri. Lei la osservava senza tradire emozioni, con gesti esperti caricava di nuovo la pistola e ricominciava da capo. Era una di quelle donne sicure di sé, che non fanno una piega, quelle donne che danno le dimissioni e via verso una nuova vita, senza guardarsi indietro, senza aprire la partita IVA per forza, senza perdersi nella nebbia, senza farsi prendere dal Nulla. Quelle donne che all'occorrenza sparano e diventano letali, perché è necessario. Punto.

    Ne ero convinta: frequentare un poligono sarebbe stato un metodo antistress di gran lunga più efficace di qualsiasi terapia.

    Ciò che non mi andava giù, che mi toglieva oltre al sonno anche una bella fetta di tranquillità nelle ore diurne, era la consapevolezza che non avessimo chiuso per un calo degli ordini e delle commesse. Avevamo perso il lavoro in seguito a scelte finanziare inadeguate della proprietà. Era stato il classico passo più lungo della gamba che ci aveva catapultati in un mondo di debiti a valanga e rientri impossibili.

    Fino all'ultimo gli ex titolari – due tizi di mezza età, fieri proprietari anche di altre aziende moribonde in città – ci avevano dato l'illusione che avremmo potuto salvare il nostro posto di lavoro. In fondo si trattava soltanto di fare uno sforzo collettivo, stringere i denti e procedere a testa bassa per superare insieme quel momento di crisi.

    Una grande famiglia.

    A sentir loro era solo una questione di mera contingenza: la crisi non esisteva, invece eravamo tutti vittime della paura della crisi. Loro lo sapevano, potevamo fidarci. Avremmo superato tutto, bastava fare quadrato e andare avanti con decisione, senza pretendere chissà che cosa (da loro).

    C'era stata una riunione del personale nella sala grande: i due ci avevano esposto la situazione in modo freddo, come se fossimo stati un gruppo di adolescenti viziati a cui spiegare un concetto lapalissiano e instillare, se dio vuole, un po' di disciplina.

    Eravamo a rischio chiusura, i soldi erano pochi, tutti noi eravamo chiamati a fare qualche sacrificio, dedicandoci con docile abnegazione al salvataggio dell'azienda che, non dimentichiamolo, ci dava da mangiare con tanta generosità. Procedere a testa bassa, massima flessibilità, poche pretese.

    Una grande famiglia.

    Appena erano iniziate le domande, uno dei due era corso via per una riunione urgente e improvvisa, blaterando supercazzole prematurate. L'altro invece aveva detto che ne avremmo riparlato un'altra volta e aveva sciolto quella pseudo-assemblea, rimanendo a chiacchierare con un gruppetto di noi che faticava a rimettersi al lavoro. Ne aveva approfittato per mostrarci il suo iPhone nuovo di cui andava orgoglioso: all'epoca ce n'erano ancora pochi in giro, il telefono con la mela destava ancora una certa curiosità, sempre come se fosse antani.

    In quel momento avevo cominciato a sentire un bruciore alla bocca dello stomaco, una fiamma ossidrica che mi aveva fatto compagnia per il resto di quella giornata schifosa e ogni tanto si ripresentava ancora adesso.

    Erano state tutte panzane, naturalmente. Era già deciso da chissà quanto tempo che i due avrebbero fatto colare a picco l'azienda. Di lì a pochi mesi saremmo andati tutti a casa, senza tanti complimenti: non ce la facevano più ad andare avanti, gli istituti di credito gli stavano mangiando tutto. A quel punto bastava un direttore di banca qualsiasi che, svegliandosi con la luna storta, gli avesse chiesto di rientrare: li avrebbe mandati a gambe all'aria in un nanosecondo e con loro, tutti noi dipendenti.

    E in effetti andò proprio in questo modo.

    Una grande famiglia.

    Adesso facevo fatica a lasciarmi alle spalle quella presa in giro reiterata, i sacrifici fatti per sostenere i due disgraziati che stavano affondando lentamente nella merda che avevano creato loro stessi per colpa delle loro manie di grandezza ingiustificate. Ci avevano riempito di menzogne per mantenerci attivi e tranquilli nel momento del (loro) bisogno.

    Mi avevano trasformata in neopovera, con la costosa aggravante della partita IVA per forza.

    «È l'unica soluzione, se vuoi continuare a lavorare qui.»

    Ed io, cretina, c'ero cascata con tutte le scarpe. Avevo accettato subito, terrorizzata da ciò che avrei trovato là fuori.

    Esci dalla vasca degli squali.

    No, rimango qui perché ho paura di quello che c'è all'esterno.

    Ero stata debole, connivente e ora ne pagavo le conseguenze.

    Mi forzai di scacciare quei pensieri, ormai erano storia vecchia. Prima fossi riuscita a liberarmene, prima sarei stata meglio.

    Volevo guarire dalla sfiga professionale che percepivo come una malattia lunga e fastidiosa, i cui fattori scatenanti, oltre ad essere ambientali, erano anche psicosomatici.

    Dovevo guarire, o perlomeno iniziare un percorso di guarigione. Uno qualsiasi.

    Respirai ancora, a occhi chiusi.

    Caffè, dai.

    Scelsi quel bar che mi piaceva tanto per la vista sul fiume. Un passo alla volta. Respiravo profondamente, cercando di visualizzare i polmoni che si riempivano e si svuotavano di aria. Per stare meglio avrei dovuto farlo otto volte di seguito, secondo un antico metodo buddista di rilassamento.

    Sono qui, sono viva.

    Viagra e Moldavia – i soprannomi che avevamo dato ai due titolari dell'azienda – erano il passato che non c'era più. Che andassero a quel paese, io dovevo passare oltre.

    Lasciai perdere la tecnica buddista al secondo respiro.

    Mi sarei iscritta ad un poligono di tiro, mi sarebbe tornato utile un giorno. Era fondamentale che imparassi a maneggiare un'arma da fuoco.

    In fondo alla strada vidi il bar.

    Una pistola piccola, una 38 Special da tenere sempre in borsa.

    In realtà non avevo alcuna idea delle dimensioni di una 38 Special, però mi piaceva il numero: trentotto. Suonava bene.

    Il soprannome Viagra era venuto fuori per ovvi motivi, avallati da aneddoti che circolavano nell'ambiente e ci erano giunti all'orecchio da varie fonti indipendenti tra di loro e perciò plausibili. Si narrava di ordinazioni online di grossi quantitativi della pillola blu e delle conseguenti ostentazioni di performance chimiche con signore prezzolate dalla sessualità fluida, in vari bordelli dell'hinterland. C'erano stati anche dei testimoni oculari, i soliti amici di amici.

    Oppure una semiautomatica, come quelle dei poliziotti dei film americani.

    Me la sarei portata in campagna e avrei imparato ad usarla per conto mio, durante il periodo di apertura della caccia, per mascherare gli spari. Sarei diventata veloce e letale come la tizia del film.

    Avevo coniato io stessa il nomignolo Moldavia, dopo aver letto un suo report sulle opportunità di investimento offerte dal nascente mercato finanziario moldavo. Sulla carta, uno scenario idilliaco che offriva una miriade di occasioni da cogliere al volo. L'Est Europa, per decollare, attendeva solo i due imprenditori rampanti e soprattutto il loro proverbiale, innato senso degli affari. Moldavia si era gasato oltremisura; vagava per l'azienda con lo sguardo al cielo, blaterando sulla bellezza dell'Est Europa, dove tutto è facile, mica come da noi che ci riempiono di tasse, burocrazia, paletti inutili e non ci fanno lavorare. Con l'entusiasmo di un bimbo, aveva scritto

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