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La Stella di Barnard
La Stella di Barnard
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E-book294 pagine4 ore

La Stella di Barnard

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Info su questo ebook


Cosè la vita? Si chiedeva il professor Guth. E quali sono i pa­rametri che le consentono di definirsi tale? A dispetto delle esperienze del passato, abbiamo una visione delluniverso an­cora troppo antropocentrica. Partire dai cianobatteri per fi­nire alluomo può essere limitante e fuorviante. Potremmo trovarci davanti una forma di vita e non riconoscerla.
All’interno dell’osservatorio astronomico di Whiti-kaupeka vie­ne ritrovato il cadavere del professor Guth, uno stimato astro­fisico prossimo a intercettare un segnale da un esopianeta or­bitante intorno alla stella di Barnard.
Chi ha ucciso Guth e cosa cercava nel suo studio?
Le indagini sono affidate all’improvvisato detective John Bar­nard, che con lo scopritore della stella ha in comune soltanto il cognome, e ai suoi inaffidabili collaboratori Arturo e Stan.
La scoperta dei diari di Guth consentiranno a Barnard di rico­struire non solo il passato del professore, ma quello dell’intera isola sulla quale si svolgono i fatti.
Dalla sala controllo al planetario dell’osservatorio, dagli alloggi degli astronomi alla fortezza militare adiacente; questi i luoghi in cui si muoverà il detective, il quale avrà anche l’opportunità di compiere un viaggio virtuale all’interno del Sistema solare che gli consentirà di rivedere le sue idee a proposito della vita e del posto che spetta all’uomo nell’Universo.


Con “La stella di Barnard” Gennaro Loffredo (Pozzuoli 1971) chiude il ciclo dedicato al detective Barnard e all’isola di Open Arms. Ogni romanzo appartenente alla serie si svolge in una diversa regione dell’isola, aggiungendo così un tassello in un contesto più ampio. Affidandosi alla sua ironia, l’autore ci racconta di un luogo alternativo e di un futuro prossimo auspicabile proiettato nel presente. Un luogo in cui l’identità dell’individuo, l’etica della solidarietà e una radicata sinergia tra lo sviluppo tecnologico e l’ambiente si contrappongono al crescente sovranismo che caratterizza molte delle società moderne.


 
LinguaItaliano
Data di uscita4 mar 2021
ISBN9791220272995
La Stella di Barnard

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    Anteprima del libro

    La Stella di Barnard - Gennaro Loffredo

    © Copyright 2021

    Prima pubblicazione: Marzo 2021

    Tutti i diritti riservati

    Vietata qualunque duplicazione.

    Eventuali marchi e loghi citati, sono di proprietà dei legittimi proprietari.

    Questo romanzo è un'opera di fantasia. Personaggi e luoghi citati sono invenzioni dell'autore e hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi analogia con fatti, luoghi e persone, vive o scomparse, è assolutamente casuale.

    In copertina: immagine di Luizclas

    Ad Adrian Fartade

    Per aver accresciuto il mio

    interesse per l’astronomia.

    «Contro uno sfondo di stelle immobili, quella che da allora è universalmente nota come la stella di Barnard sfrecciava letteralmente nel cielo, macinando 10,3 secondi d’arco all’anno.»

    I

    28 Marzo 2020, Open Arms, Osservatorio di Whiti-kaupeka

    Lo specchio del telescopio spaziale era stato appena sostituito e, mentre all’osservatorio gli astronomi stavano col fiato sospeso, il computer caricava il software che avrebbe permesso di rilevare le prime immagini di un altro sistema planetario.

    Non era un telescopio qualunque. L’avanzata tecnologia carpita alle evolute menti aliene avrebbe consentito loro di osservare la stella di Barnard da una distanza virtuale paragonabile a quella che avrebbero avuto se si fossero trovati fisicamente su Plutone e avessero dato uno sguardo al Sistema solare interno.

    Ciò che cercavano era un esopianeta, ovvero un pianeta in orbita intorno a un’altra stella. Finora ne erano stati trovati a migliaia: giganti gassosi che orbitavano pericolosamente vicino alla loro stella, piccole lune ghiacciate e super-Terre: pianeti rocciosi grandi fino a cinque volte la Terra, alcuni dei quali orbitanti nella cosiddetta goldilock, la zona abitabile.

    La nostra zona abitabile, ad esempio, è quell’area dello spazio che va da Venere a Marte; una fascia che consente la presenza d’acqua allo stato liquido in superficie e, conseguentemente, la possibilità della nascita e dello sviluppo della vita così come la conosciamo. Ma che cos’è la vita?

    Già. Cos’è la vita? Si chiedeva il dottor Guth. E quali sono i parametri che le consentono di definirsi tale? A dispetto delle esperienze del passato, abbiamo una visione dell’universo ancora troppo antropocentrica. Partire dai cianobatteri per finire all’uomo può essere limitante e fuorviante. Potremmo trovarci davanti una forma di vita e non riconoscerla.

    Perché rivolgere l’attenzione proprio su quel mondo? GJ 699 b ha una massa di 3,2 volte quella del nostro pianeta e dista dalla stella di Barnard meno della metà della distanza tra la Terra e il Sole, ma ha una temperatura media di circa -150 °C. Il fatto è che la sua stella è una nana rossa, un tipo di astro piuttosto freddo. A meno che il pianeta non possieda una spessa atmosfera come quella venusiana, in grado di generare un potente effetto serra, difficilmente ci si può aspettare la presenza di forme di vita che seguano i nostri standard.

    Ciò nonostante, i dati erano inequivocabili. I monoliti trovati sull’isola di Open Arms e altre successive scoperte avevano convinto il dottor Guth a mandare un messaggio in quella direzione ben tredici anni or sono. Ora si trattava di pazientare e, intanto, di studiare meglio le caratteristiche di GJ 699 b.

    Per l’occasione, tutti gli scienziati dell’osservatorio di Whiti-kaupeka avevano anteposto alle loro indagini lo studio delle prime immagini che stavano per giungere. Il primo specchio installato sul telescopio spaziale non aveva mai funzionato a regime per effetto di una crepa minuscola quanto una pulce; impossibile da riparare, erano occorsi tre anni per poterlo sostituire, e ora tutti incrociavano le dita.

    «Due minuti al termine del caricamento del software», annunciò il planetologo David Penzias.

    Il professor Guth si limitò ad annuire, evitando di incrociare altri sguardi.

    Diplomatosi precocemente al conservatorio e con un debole per Elis Regina, icona della bossa nova, Abraham Guth aveva intrapreso gli studi in astrobiologia, un ambito, diceva, strettamente correlato alla musica da camera. Dopo essersi laureato nella nuova disciplina e aver collaborato ad alcune ricerche relative alla fisica del plasma all’istituto Max Planck di Garching, in Germania, nel 1980 aveva partecipato alla prima ricognizione dell’isola organizzata dal professor Nathan Cassini, speleologo e divulgatore scientifico di fama mondiale. E qui, nel cuore della foresta tropicale, sulla striscia di territorio che tagliava l’isola di Open Arms in due grandi regioni, aveva fondato l’osservatorio astronomico, una struttura specializzata sullo studio degli esopianeti e dei NEO, oggetti appartenenti al nostro Sistema solare che possono intersecare l’orbita terrestre.

    «Ci siamo», disse il professor Bradley, mentre sui grandi schermi si materializzò nitida la stella di Barnard: un piccolo sole rosso che, nonostante avesse un raggio circa il doppio del pianeta Giove, appariva grande quanto una moneta da 50 centesimi. E c’era di più; aguzzando la vista si potevano osservare le macchie presenti sulla sua fotosfera.

    Dopo i primi intoppi la missione stava rivelandosi un successo. Se i calcoli erano corretti, entro qualche ora il pianeta avrebbe cominciato a distanziarsi dal corpo della stella e sarebbe stato rilevato con la tecnica del direct imaging.

    «Grandioso!» esclamò la giovane Ann Bell, responsabile del monitoraggio dei NEO.

    «Non credo ai miei occhi», ribatté Penzias, con uno sguardo estatico.

    L’emozione era palpabile. Gli sforzi compiuti da quella piccola comunità di scienziati erano stati ripagati. Soltanto il professor Guth appariva impassibile, poiché conscio che si era giunti appena alla prima fase della missione.

    Lentamente, il professore prese posto alla sua postazione e, rivolto al dottor Bradley, disse: «Albert, oscura la stella. E tu, David, attiva lo spettroscopio e il coronografo a vortice ottico. Non facciamoci cogliere impreparati. Se dovessimo mancare all’incontro ci toccherebbe attendere altri sette mesi, prima che il nostro amico ci conceda un altro rendez-vous».

    «Quanto impiega il nostro GJ a compiere una rivoluzione completa?» chiese la tirocinante Lara Ricciòli.

    «Duecentotrentatré giorni», le rispose Penzias.

    Dopo le disposizioni date dal professor Guth, la stella di Barnard era scomparsa dai monitor; di lei non restava che il bagliore che il coronografo non era in grado di mascherare.

    Quando il pianeta fosse stato sufficientemente lontano dalla stella madre, soprattutto durante la massima elongazione della sua orbita, sarebbe stato visibile con relativa chiarezza.

    L’energia necessaria per mantenere i contatti con il telescopio spaziale, l’Argo ST, non costituiva un problema; tuttavia, l’enorme sensibilità di uno strumento in grado di proiettarsi a quasi sei anni luce di distanza richiedeva che non ci fosse la minima interferenza negli immediati paraggi dell’osservatorio. Durante le trasmissioni bisognava disabilitare tutta una serie di impianti, comprese le telecamere di sorveglianza.

    Nel frattempo gli scienziati fremevano: i secondi sembravano minuti e i minuti ore. C’era chi abbandonava la postazione per sgranchirsi un po’ e chi prendeva a grattarsi il lobo dell’orecchio con lo sguardo sempre incollato agli schermi. I grandi occhi nocciola di Ann facevano il giro della sala circolare, soffermandosi su ogni collega, per poi ricominciare.

    «Eccoti qua», disse Penzias indicando lo schermo principale. «Preciso come un orologio atomico.»

    Mentre l’Argo cominciava ad analizzare la composizione del pianeta, dal margine destro della stella aveva fatto capolino un punto bianco: aveva le dimensioni della capocchia di uno spillo e orbitava qualche grado a sud dell’equatore stellare.

    I primi esiti della scansione, compresi i dati ottenuti nell’infrarosso, erano impietosi. Il pianeta aveva un’atmosfera troppo tenue per proteggersi dai raggi cosmici e stellari, per di più era composta da metano ed etano, come Titano, la principale luna di Saturno. Inoltre, non vi era traccia d’acqua o di altri elementi che avrebbero potuto favorire la vita, seppur nelle forme più semplici. La superficie era arida, gelida. Il suo nucleo non era in grado di generare un significativo campo magnetico. L’energia che riceveva dalla propria stella era appena il 2% di quella che la Terra riceve dal Sole. Un mondo geologicamente morto.

    Penzias e Bradley si fissavano senza aprir bocca. Il professor Guth distolse lo sguardo dai monitor.

    «La stella di Barnard si sta avvicinando sempre più al Sistema solare e continuerà a farlo per altri 7.800 anni circa, quando raggiungerà la distanza minima di 3,75 anni luce.»

    II

    29 Marzo 2020, Open Arms, Osservatorio di Whiti-kaupeka

    L’impianto era stato lasciato attivo, il telescopio spaziale era  libero di continuare a raccogliere i dati relativi a GJ 699 b. Gli astronomi, imbarazzati dai risultati ottenuti, si erano recati nei loro alloggi senza cenare. La possibilità che l’indomani avrebbe riservato loro qualche sorpresa era più scarsa dell’atmosfera di quell’ingannevole super-Terra.

    Il più afflitto di tutti era naturalmente il professor Abraham Guth; alla rispettabile età di settantasette anni quello non era un bel modo di chiudere la carriera, soprattutto in virtù del fatto che era il principale responsabile del progetto.

    Più di dieci anni prima aveva lanciato un segnale nel vuoto assoluto. Quando avrebbero metabolizzato la notizia, persino i suoi più stretti collaboratori si sarebbero presi gioco di lui.

    E pensare che nel suo ambiente era considerato una personalità di spicco, l’uomo che aveva messo a frutto la tecnologia aliena riuscendo a sviluppare concetti come antigravità e balzo quantico applicato alla fisica classica, per poi custodirne i segreti nel server sotterraneo, onde evitare che la concorrenza ne facesse un cattivo uso.

    Ora, tutto solo nello studio del suo alloggio, un ghigno beffardo acuì le sue rughe. Stava ripensando a quelle rare occasioni in cui partecipava a una conferenza, circondato da gesti ossequiosi mentre prendeva posto sul palco e da un riverente silenzio quando parlava, quando si fermava a scegliere le parole adatte, dicendo e non dicendo... svelando soltanto ciò che non poteva nuocere.

    Gli doleva la schiena, un fastidio sopportabile ma costante. Si fece forza e si levò dalla poltrona per prendere il suo vecchio diario. Mentre stava lì, in piedi a sfogliare le pagine ingiallite, ebbe un’illuminazione. E se...?

    Si affrettò a raccogliere una penna dalla scrivania, poi sedette a fare dei calcoli sulle poche pagine rimaste intonse, e poco importava che quel diario contenesse il resoconto delle sue giornate dai tempi in cui era approdato sull’isola.

    Al termine del lavoro, tra equazioni, operazioni di trigonometria sferica e uno schema sul trasferimento di massa, si erano fatte le 2:30 del mattino. Scrisse in calce ai calcoli il simbolo atm e si diresse all’ingresso per prendere il cappotto.

    Fece piano, per non svegliare i coinquilini. Attraversò il lungo corridoio con passo felpato e, quando spalancò il portone dell’atrio, fu investito da una piacevole brezza d’aria fresca. Inspirò profondamente, mentre osservava la volta costellata di amiche intime; tirò su il bavero del cappotto e si incamminò lungo il viale lastricato che conduceva all’osservatorio.

    La regione di Whiti-kaupeka era una zona militare che contava poco più di duemila abitanti. Delimitata da una tripla recinzione di reti metalliche, la seconda delle quali elettrificata, era costituita essenzialmente da una caserma; dall’osservatorio, con i suoi alloggi e le strutture d’intrattenimento; e da tanto spazio verde sul quale era possibile dedicarsi all’attività fisica.

    A causa del sovraccarico di lavoro cui era sottoposto il telescopio spaziale, anche il rilevatore d’iride era stato disabilitato, sicché, per entrare nell’osservatorio, al professore fu sufficiente applicare una lieve pressione sul pannello della porta a scomparsa.

    Accese le luci e prese a dirigersi nel suo studio, dietro una delle porte che circondavano la sala principale dell’osservatorio. Gli schermi della grande sala circolare erano spenti, ma il pulsare dei led di un paio di client dimostravano che l’Argo continuava a incamerare dati. Percepì un olezzo, probabilmente il residuo stagnante di uno dei collaboratori; poi, quando giunse alla sua porta, gli parve di udire all’interno il cigolio di una poltrona. Fece pressione sul pannello e la porta si aprì.

    Due militari accalcati alla sua scrivania gli davano le spalle.

    Paonazzo dall’indignazione, il professor Guth lanciò un urlo. «Che diavolo state combinando? Chi vi ha autorizzato a entrare...»

    Il più lesto dei due si voltò, estrasse una Beretta e la puntò sul professore.

    Questi, avvedutosi del pericolo, fece dietrofront e bloccò la porta dall’esterno avvalendosi del codice di sicurezza. Quanto avrebbe retto? si chiese, mentre lasciava tra sé e gli intrusi tutto ciò che gli capitava a tiro: un carrello portadocumenti, una sedia con le rotelline, un voluminoso schedario... Arrancò fino all’uscita. Quando udì che la porta aveva ceduto ai calci cominciò a correre a perdifiato, nei limiti che l’età gli consentiva. Che vantaggio aveva? O meglio: ce l’aveva un vantaggio? Il viale lastricato era deserto, provò a gridare aiuto con la voce arrochita, una richiesta di soccorso flebile come il gracidare di un rospo. Non si voltò mai, neppure per un istante, e quando svoltato un angolo si imbatté in una figura che conosceva, si disse che forse ce l’avrebbe fatta. «Presto!» esclamò afferrando la sua mano. «Sono penetrati nel mio ufficio. Non c’è tempo da perdere!»

    «Questa nana rossa è la stella più vicina alla Terra, fatta esclusione per il sistema triplo di Alfa Centauri.»

    III

    2 Dicembre 2019, Como, Italia

    «Buona, ’sta roba», mormorò Max dopo aver aspirato la seconda striscia della serata.

    «Vacci piano!» disse Lara. «Quella che definisci roba è il meglio che c’è in giro... di questi tempi.»

    «E cerca di non abituartici», aggiunse Tino. «Dove andremo non ce ne sarà nemmeno un grammo.»

    «A meno che non ti procuri della kava. Ma non è facile avventurarsi a nord dell’isola senza farsi beccare», aggiunse Lara.

    «Kava?»

    «Sputo d’indigeno.»

    Un’espressione di disgusto comparve sul volto di Max. Si lisciò i capelli e prese il bicchiere di Vodka dal tavolino. «La coca non mi fa né caldo né freddo; se c’è, c’è. Posso benissimo farne a meno.»

    «Meglio così», ribatté Lara. «Non ci serve uno sniffatore seriale.»

    Max si strinse nelle spalle, poi si grattò la pancia piatta. Era un ex grassone che si era sottoposto a un intervento chirurgico per smaltire i chili in eccesso. Ora però la pelle gli si era raggrinzita, col risultato di farlo sembrare molto più vecchio.

    Tino, al contrario, era sempre stato magro come un chiodo. Chiaro di carnagione e con una stempiatura precoce, su un lato del viso faceva capolino una vistosa voglia di vino.

    A volte Max si domandava come facesse Lara, una donna colta e sicura di sé, a far coppia con Tino. Certo, era un po’ robusta di costituzione, ma aveva uno sguardo così eccitante... per non parlare della bocca e del mento volitivo.

    «Ora veniamo a noi», disse Lara battendo le mani. Si accoccolò sopra un bracciolo della poltrona di Tino, scoprendo le gambe. «I documenti sono pronti. I test di ammissione non saranno un problema. Una volta dentro, si tratterà soltanto di attendere la giusta occasione.»

    «E dici che faremo un mucchio di grana?» domandò Max.

    «Più di quanta ne abbia vista in tutta la tua vita», asserì Lara. «Ho già i miei contatti. Venderemo al miglior offerente.»

    Max parve sovrappensiero. «Chi mi assicura che non mi farete fuori? Insomma, quando si tratterà di spartire...»

    «Cazzo, Max!» sussultò Tino. «Da quant’è che ci conosciamo: otto, nove anni? Ti ho mai fregato?»

    «Be’, stando così le cose... Ma ti avverto: di lei non mi fido!»

    Lara fece roteare gli occhi.

    «Garantisco io per lei», disse Tino protendendosi verso il compagno. «E divideremo in tre parti uguali.»

    Dopo una breve pausa, Max commentò: «Tecnologia degli Ufo».

    «Termine improprio», lo bacchettò Lara. «Anche se il succo è questo», aggiunse rilassandosi. «Quel bastardo di mio zio, prima di essere cacciato dall’isola, svolse alcune indagini per conto suo senza crederci fino in fondo. Io ho le prove. Ho visto con i miei occhi di cosa sono capaci, ma non basta. Dobbiamo mettere le mani sulle loro scoperte; le multinazionali faranno a gara per accaparrarsi quei progetti.»

    Max annuì, poi, mentre si guardava attorno, le chiese: «Possibile che, con tutta la fortuna che ha ammucchiato, il tuo zietto ti ha lasciato solo questo?»

    Lara fissò Tino. Uno sguardo eloquente: Tino aveva confidato all’amico più di quanto dovuto. «Il grosso è andato alle sue ex e a qualche puttanella. Però, se non mi avesse donato questa villetta, non avrei mai trovato i suoi vecchi appunti. L’ho presa con filosofia; come un invito a procurarmi il contante con le mie capacità.»

    Dopo aver conseguito un dottorato di ricerca in astronomia al dipartimento di fisica dell’università Sapienza di Roma, Lara era stata ammessa all’osservatorio di Open Arms. Il confrontarsi con quelle grandi menti l’aveva messa a disagio. E se nella vita privata era molto piena di sé, sul luogo di lavoro appariva timida e impacciata. Talvolta le domande che faceva ai professori mettevano a nudo le sue lacune. Tuttavia era stata scaltra. Aveva scoperto che i progetti che cercava erano immagazzinati nel server sotterraneo, un posto che non le era permesso neppure di nominare, e che dalla postazione del professor Guth si poteva accedere a quei dati. Si trattava ovviamente di informazioni protette, e soltanto un buon hacker come Tino avrebbe potuto copiarle. Al momento giusto, lei gli avrebbe permesso di penetrare nello studio del professore; Max si sarebbe limitato a guardargli le spalle.

    Fino a qualche giorno prima Tino lavorava in un negozio di hardware, alle dipendenze del fratello. Sostanzialmente vendevano telefonini e, quando Lara gli propose di mettersi alla prova, decise di accettare l’offerta e si fece dare la liquidazione. Mi arruolerò nel corpo dei Marines di Open Arms, in Oceania. Con queste parole si era congedato dal fratello, che lo aveva fissato sbigottito.

    Se Tino e Lara avevano qualche interesse in comune, tra Max e loro c’era un abisso. Diplomatosi a stento all’istituto di agraria, questi aveva lavorato in nero presso un mercato ortofrutticolo. Messi da parte un po’ di risparmi, li investì in un terreno per mettersi in proprio e darsi all’agricoltura. Fu il peggior affare della sua vita. Quel fondo era fertile come il suolo di Marte e per di più risultò essere contaminato da sostanze chimiche. Nel sottosuolo giacevano pile scariche, pezzi di vetro, medicinali scaduti, bombolette d’insetticida... c’erano persino delle tracce di mercurio.

    Un’ex discarica abusiva, ecco cosa aveva acquistato. Il bello era che non avrebbe potuto neppure lamentarsi; con gli affiliati ai clan malavitosi c’era poco da scherzare.

    Ora si occupava di lavoretti temporanei: tinteggiare un appartamento, curare un giardino, raccogliere pesche quand’era stagione; il futuro ormai non gli offriva più molte prospettive. Poi c’era l’assegno da mandare alla sua ex e il figlio da portare al pub nei weekend. Inutile tirare troppo la corda; se con Tino e Lara avesse fatto il colpaccio, sarebbe cambiato tutto.

    «Definire la stella di Barnard una stella vecchia è in realtà un controsenso. Le nane rosse sono le stelle più longeve in assoluto.

     A dieci e passa miliardi di anni di età, questa stella non ha ancora raggiunto neppure la metà del suo ciclo vitale.»

    IV

    2 Febbraio, 2020, cimitero di Open Arms

    Alle 5:30 del mattino Frank Antilia aprì gli occhi e se li stropicciò. Prima di decidersi ad alzarsi, fece un lungo sbadiglio. La giornata sarebbe stata piena di incombenze, e lui era un perfezionista. Così, dopo aver messo il caffè sul fuoco, si recò in bagno per le abluzioni. Mentre fissava lo specchio, si disse che forse era il caso di dare una spuntatina alla barba; prese le forbici e cominciò a tagliare, fermandosi soltanto quando il bollitore lo richiamò in cucina.

    Dopo aver sorseggiato la bevanda, spalancò la finestra che dava sulle lapidi. Fuori era ancora buio e faceva freddo, il cielo era una macchia di nuvole e una sottile nebbiolina ricopriva il manto erboso; di tanto in tanto, un lampo schiariva l’orizzonte. Qualche impavido uccellino aveva cominciato ad apporre il suo canto ai versi degli animali notturni.

    Frank indossò la camicia a scacchi gialloverdi e infilò le gambe nella salopette. Raccolse gli stivali e stette a osservarli con piglio meticoloso, finché non si risolse a calzarli. Prese la tesa e le diede una spolverata. Si stiracchiò e si diresse al capanno degli attrezzi che era situato alle spalle del rustico caseggiato.

    Mentre faceva il tragitto, ripensò al da farsi: c’erano le siepi all’ingresso del cimitero che avevano bisogno di una potatura e alcune aiuole da liberare dalle erbacce. E poi le due lapidi vuote che necessitavano di una ripulita. Erano disposte al margine dell’appezzamento, sul versante che confinava con la foresta, e quel giorno avrebbero accolto le spoglie di due anime.

    In quanti sarebbero accorsi a onorare la memoria di Miss Dalloway e, soprattutto, a piangere per la prematura dipartita di Madame Leavitt? Si chiese Frank. La morte

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