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Entrate, uscite, memorie: Il registro di Bartolomeo da Orte, 1369-1403
Entrate, uscite, memorie: Il registro di Bartolomeo da Orte, 1369-1403
Entrate, uscite, memorie: Il registro di Bartolomeo da Orte, 1369-1403
E-book276 pagine3 ore

Entrate, uscite, memorie: Il registro di Bartolomeo da Orte, 1369-1403

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Info su questo ebook

““… Non mi ha quindi affatto sorpreso che Zuppante, abituato a nutrirsi come si usa dire delle midolla di leone, abbia scovato nelle “varie” dell’Archivio Storico Comunale di Orte il registro contabile manoscritto, inedito, di Bartolomeo magistri Petri Johannis Francisci che visse – non poco, per la sua epoca – settantotto anni circa, fra il 1327 e più o meno il 1405. Dovremmo chiamarlo ser in quanto era con certezza notaio, notai erano il padre Pietro e il fratello Angelo, notarile per quanto non particolarmente elegante la sua grafìa.
Il suo registro ce lo mostra proprietario di beni immobili, imprenditore, mercante, banchiere o comunque gestore di denaro e abile nelle manovre finanziarie, amministratore ed economo; e il fatto che per tre anni, dal 1370 al 1372, fosse anche appunto economo della Confraternita dei Raccomandati di Santa Maria getta uno sprazzo di luce anche sul suo ruolo sociale, sul suo impegno civico e sulla sua vita religiosa comunitaria; ebbe occasionalmente anche un ruolo nelle magistrature comunali ortane e proprio in un anno poco tranquillo, il 1367, l’anno nel quale papa Urbano V provò a rientrare da Avignone a Roma e in relazione al suo passaggio per Viterbo si verificò nel settembre una specie di tumulto popolare, la “rivolta di Piano Scarano”, le conseguenze della quale comportarono anche il coinvolgimento di oltre cinquecento armati ortani (parecchi, per la popolazione urbana del tempo).”

(Dall’introduzione di Franco Cardini)
LinguaItaliano
Data di uscita16 feb 2022
ISBN9788878539266
Entrate, uscite, memorie: Il registro di Bartolomeo da Orte, 1369-1403

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    Entrate, uscite, memorie - Abbondio Zuppante

    Abbondio Zuppante

    Entrate, uscite, memorie

    Il registro di Bartolomeo da Orte, 1369-1403

    Proprietà letteraria riservata.

    La riproduzione in qualsiasi forma, memorizzazione o trascrizione con qualunque mezzo (elettronico, meccanico,

    in fotocopia, in disco o in altro modo, compresi cinema, radio, televisione, internet) sono vietate senza l’autorizzazione scritta dell’Editore

    Progetto grafico e impaginazione:

    Stefano Frateiacci (www.studiovagante.it).

    Ebook realizzato da:

    Cristina D'Andrassi

    In copertina:

    Paesaggio tiberino con barconi da trasporto. Particolare da La visione di san Giuliano, di anonimo del sec. XVIII, nell’altare

    della Corporazione dei Barcaioli, chiesa di San Francesco, Orte.

    isbn: 978-88-7853-925-9

    isbn e-book: 978-88-7853-926-6

    © 2022 Edizioni SETTE CITTÀ

    Via Mazzini 87 – 01100 Viterbo

    tel 0761 303020

    www.settecitta.eu

    info@settecitta.eu

    ISBN: 9788878539266

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    https://writeapp.io

    Indice dei contenuti

    Introduzione

    Premessa

    Parte 1

    La forma

    Criteri di edizione

    Il testo

    Tabella di corrispondenze nella numerazione delle carte

    Parte 2

    Il personaggio, la famiglia, la casa

    Le proprietà immobiliari

    Castel Vecchio e il popolamento delle campagne ortane

    La situazione politica locale

    Parte 3

    Le attività di Bartolomeo e il suo ambiente socioeconomico

    ​L’agricoltura e i mulini

    Il commercio

    Il credito

    ​La mobilità e i trasporti terrestri e fluviali

    I lavori edili

    ​I tessuti, gli abiti e gli ornamenti

    Appendici

    Tabella delle misure indicate nel registro di Bartolomeo

    Indice ragionato dei nomi delle persone in contatto con Bartolomeo

    Indice dei nomi di persone

    Indice dei nomi di luogo

    Abbreviazioni bibliografiche

    Bibliografia

    Ringraziamenti

    Introduzione

    Tornano, di tanto in tanto, ad affiorare tra gli studiosi – ma sono molto più frequenti nell’ormai vasta e rumorosa schiera dei cultori della materia, categoria sorprendentemente composita nella quale si annoverano eruditi di alto livello insieme a sinceri e appassionati ricercatori liberi e a rumorosi dilettanti allo sbaraglio – le polemiche attorno alla storia locale, o cosiddetta minore, mentre di tanto in tanto si torna a discutere sulla divulgazione o ci si appassiona al vero o preteso new deal della public history (potenza delle definizioni alla moda!...). Tutte le volte che m’imbatto in quest’ordine di veri o supposti problemi torno con la mente a una fulminante battuta del non mai troppo compianto Marino Berengo, che del resto riprendeva nella sostanza pareri già espressi da altri studiosi e che continuano a rimbalzare ancor oggi tra le pagine di saggi e di riviste. Non esistono, affermava perentorio Berengo, la grande storia e la storia locale, quella maggiore e quella minore: esiste la buona storia, quella fondata sulla corretta analisi delle fonti e sviluppata alla luce di una problematica scientificamente condotta, e la storia falsa e inutile, quella che ignora l’impianto filologico delle questioni e che non vive di ricerche di prima mano.

    Ci appassionammo tutti, anni fa, nel leggere il Montaillou di Emmanuel Le Roy Ladurie e nell’ammirare con quanta perizia, partendo da una sola fonte – il registro inquisitoriale trecentesco riferito a una piccola comunità occitana -, lo storico riuscisse a ricostruire il panorama di una histoire à part entière , una histoire totale dalla quale emergevano insieme, in se stessi e nei loro complessi rapporti reciproci, i connotati sociali, civili, economici, religiosi, culturali di un mondo intero: un microcosmo ch’era al tempo stesso una prospettiva affascinante sul macrocosmo di una società intera, quella pirenaica, còlta in una fase particolarmente significativa di crisi. Tutto ciò comportava anche la necessità di affrontare le strutture profonde di una fase storica, i suoi fattori di continuità e quelli di discontinuità e di rottura, la sua imprevedibile dinamica e al tempo stesso la necessità di coglierne al di là di qualunque tentazione deterministica i caratteri non già del suo progresso (o regresso), bensì del suo processo dinamico.

    Monografie come quella di Le Roy Ladurie possono segnare un’epoca e proporsi come paradigmatiche: ma in realtà la storia recente e anche meno recente conosce molti esempi di questo genere; si pensi ad esempio a un vetusto, glorioso caso ormai divenuto un classico nel suo genere, la monografia dedicata da Gioacchino Volpe al centro di Montieri, sulle Colline Metallifere toscomeridionali, noto per le sue vene estrattive d’argento; oppure – sempre a proposito di quel pregiato metallo – al libro dedicato da Marco Tangheroni alla città di Iglesias in Sardegna.

    Bisogna dire che, riguardo a questi studi innovativi che prendono avvìo sovente da un àmbito di ricerca in apparenza molto limitato o addirittura da un solo documento, la medievistica europea (e, al suo interno, quella italiana) ha svolto negli ultimi due-tre decenni un ruolo originale di punta, raggiungendo risultati un tempo inimmaginabili: e ciò proprio nel campo delle istituzioni e delle strutture del territorio, con risultati di alta qualità anche per quel che riguarda la storia quotidiana, quella delle culture materiali e dei ceti subalterni o addirittura marginali, un territorio che fino a tempi relativamente recenti era considerato secondario o infido per l’incertezza e la labilità delle fonti fino a venir troppo spesso relegato nel limbo delle curiosità erudite. E va detto al riguardo che l’interdisciplinarietà e il diffondersi delle ricerche di gruppo capaci di riunire specialisti dalle competenze e dagli indirizzi in apparenza molto lontani fra di loro sono stati sovente in grado di mutare profondamente lo statuto di molte discipline.

    Ciò si può notare immediatamente non appena, ancor prima di accingersi alla lettura di questo studio che Abbondio Zuppante dedica a un suo concittadino se non proprio illustre quanto meno prominente di sei-sette secoli or sono, se ne scorrono l’elenco delle fonti documentarie tanto inedite quanto edite nonché la vasta ma al tempo stesso tanto sobria quanto accuratamente selezionata bibliografia. Confesso che in un primissimo tempo, dinanzi a un lavoro inquadrabile nell’àmbito affascinante ma rischioso dei registri e dei libri di famiglia, avevo temuto per l’Autore; e aggiungo che una volta affrontatane la lettura, sono stato assalito da una quantità di tentazioni: come quella di mettere il naso e le mani, sia pure per puro ozioso divertimento di un incompetente erudito quale mi trovo ad essere in quest’àmbito di problemi, in quell’autentico maremagno che dev’esser costituito dai ben quattro volumi manoscritti cinque-seicenteschi de La fabbrica ortana di don Lando Leoncini, custoditi nell’Archivio Storico Comunale di Orte. Le conosco e le prevedo, le magari spazientite reazioni di qualche collega al riguardo: ma come, stai da sempre nella città della Laurenziana e della Riccardiana, hai a due passi da casa tua il fondo Magliabechiano e quello Palatino, e ti fanno gola le ambages di un buon prete laziale di quattro secoli fa? Che volete. Sarà che l’erba del vicino è sempre più verde, sarà che ho sempre invidiato le incursioni di Barbara Frale nella realtà quotidiana dei suoi barcaioli tiberini e il frugare di Maria Giuseppina Muzzarelli fra sciamiti e velluti, ricami di filo d’oro e bottoni d’argento…

    D’altronde, nel piccolo si riflette sempre il grande, e attraverso quello si spiega sempre questo, e se non ci fosse questo ci resterebbe incomprensibile quello. Il che, badate, non è affatto un gioco di parole.

    E poi, ebbene sì: premesso che gli eruditi locali mi stanno molto simpatici e che personalmente in anni di lavoro ho imparato molto di più da modesti topi d’archivio e da schivi bibliotecari che non da certi solenni padreterni cattedratici, va detto che Abbondio Zuppante è tutt’altro che un erudito locale. Ho fatto la sua conoscenza in uno degli hauts lieux della ricerca scientifica del nostro paese, quell’Istituto Storico Italiano del Medioevo ch’è stato diretto da Pietro Fedele, da Raffaello Morghen, da Ovidio Capitani, da Girolamo Arnaldi, e adesso lo è da Massimo Miglio: un centro di studi nel quale da decenni sono passati e hanno sostato, magari a lungo, alcuni dei più bei nomi della storiografia europea e non solo. Non mi ha quindi affatto sorpreso che Zuppante, abituato a nutrirsi come si usa dire delle midolla di leone, abbia scovato nelle varie dell’Archivio Storico Comunale di Orte il registro contabile manoscritto, inedito, di Bartolomeo magistri Petri Johannis Francisci (gli antroponimi Pietro, Giovanni, Francesco e Angelo sono i più comuni nel suo stemma genealogico che si può far risalire alla fine del XII secolo) che visse – non poco, per la sua epoca – settantotto anni circa, fra il 1327 e più o meno il 1405. Dovremmo chiamarlo ser in quanto era con certezza notaio: tale si qualifica una volta sottoscrivendo un documento, notai erano il padre Pietro e il fratello Angelo, notarile per quanto non particolarmente elegante (tale almeno il parere di Zuppante, al quale conviene rimettersi) la sua grafìa: il registro è quasi interamente redatto da lui, per quanto si possano riconoscere in certe parti di esso anche altre mani (il curatore ne ha contate sei).

    In effetti, può darsi che non esercitasse l’arte alla quale la sua preparazione e la sua consuetudine familiare l’avevano destinato. Ignoriamo a quale delle molte corporazioni professionali presenti in Orte egli appartenesse: e, visto l’ampio ventaglio dei suoi interessi, delle sue competenze e delle sue probabili forme di abilità, avrebbe potuto svolgere parecchie attività. Il suo registro ce lo mostra difatti proprietario di beni immobili, imprenditore, mercante, banchiere o comunque gestore di denaro e abile nelle manovre finanziarie, amministratore ed economo; e il fatto che per tre anni, dal 1370 al 1372, fosse anche appunto economo della Confraternita dei Raccomandati di Santa Maria getta uno sprazzo di luce anche sul suo ruolo sociale, sul suo impegno civico e sulla sua vita religiosa comunitaria; ebbe occasionalmente anche un ruolo nelle magistrature comunali ortane e proprio in un anno poco tranquillo, il 1367, l’anno nel quale papa Urbano V provò a rientrare da Avignone a Roma e in relazione al suo passaggio per Viterbo si verificò nel settembre una specie di tumulto popolare, la rivolta di Piano Scarano, le conseguenze della quale comportarono anche il coinvolgimento di oltre cinquecento armati ortani (parecchi, per la popolazione urbana del tempo).

    Era molto agiato, forse possiamo senz’altro definirlo ricco. Le doti assegnate alle due figlie e la disponibilità economica di entrambe ammontano a somme consistenti; e gli inventari dei beni mobili presenti presso di lui – croce e delizia costanti di questo tipo di fonti – ci propongono una certa abbondanza di oggetti di pregio, addirittura argenteria e gioielli. Non altrettanto felice fu invece, a quel che sembra, la sua condizione personale e familiare: a quel che pare superò agevolmente la Peste Nera del ’48-’49, ma era allora giovane; in cambio l’epidemia dei primi Anni Ottanta si prese nel 1384 entrambi i due figli di sesso maschile, il primogenito Giovenale che doveva avere una trentina d’anni e l’ultimo, Pietro, più giovane di un decennio. A sua volta, abbondantemente passata la sessantina, fu egli stesso còlto da una malattia d’incerta origine che gli procurò una certa almeno temporanea disabilità, né è chiaro quando e fino a che punto poté ristabilirsi.

    Histoire à part entière, s’è detto. Il fatto è che un registro contabile, almeno fra Tre e Quattrocento, è testimone sia pure in modo e misura differenti di tutti gli aspetti della vita del suo titolare. Si amministrano i propri beni, si compra e si vende, si attraversano gioie e si affrontano dolori – nozze e funerali obbligano a confrontarsi con le leggi sontuarie -, si fanno viaggi (e, come il suo più celebre collega pratese Francesco di Marco Datini, anche Bartolomeo compì ad esempio il suo bravo pellegrinaggio): insomma si vive a tutto tondo, mostrando volta per volta il proprio aspetto di civis, di pater familias, di homo politicus, di homo oeconomicus, di homo religiosus, e anche talora, più semplicemente, di pover’uomo con i suoi guai e con qualche magagna che si cerca di nascondere. Zuppante riesce a ricostruire con buoni dettagli e con sicuro metodo prosopografico la cerchia delle relazioni di Bartolomeo – le conoscenze, se non proprio le amicizie –, che man mano emergono in relazione alle sue attività principali: il credito, l’appalto delle gabelle, l’attività socioreligiosa incentrata sulle confraternite laiche.

    Infine, la lingua e lo stile. La parlata ortana tre-quattrocentesca non è troppo attestata né particolarmente studiata: Zuppante si rende conto che questa è una lacuna che in varie occasioni egli cerca di attenuare, ma per la quale dichiara esplicitamente la sua insufficiente competenza; nella speranza che l’edizione del testo faccia da battistrada agli specialisti della materia per porvi rimedio.

    Franco Cardini

    Premessa

    L’edizione del manoscritto di Bartolomeo magistri Petri giunge dopo un lungo percorso che si è snodato non solo nei secoli passati, ma anche successivamente al suo ritrovamento, tra le carte sciolte, durante una inventariazione dell’Archivio Storico del Comune di Orte di fine anni Novanta del Novecento. Fatte all’epoca la trascrizione e le prime indagini sul personaggio, ho dovuto – a causa degli impegni professionali che andavano crescendo – sospendere e ricerche che già si profilavano piuttosto laboriose, soprattutto sui protocolli

    notarili. Il lungo periodo trascorso prima di riprendere il lavoro è stato comunque utile allo scopo, perché negli anni ho accumulato numerose ulteriori informazioni sulla Orte del Trecento che ho utilizzato per delineare l’ambiente dove si è sviluppata la vicenda umana di Bartolomeo. Vicenda personale, familiare, mercantile che, in questo modo, si inserisce completamente nella storia di una piccola città tardo medievale. Ma al di là dell’interesse storico, economico e paleografico-codicologico, il manoscritto rappresenta un unicum per delineare l’evoluzione della lingua italiana in un’area assolutamente priva di altre testimonianze, che supera abbondantemente i confini comunali di Orte. Per cui, offrendo nuove prospettive di ricerca, mi auguro che a questa pubblicazione possa far seguito, prima o poi, anche uno studio filologico e storico-linguistico sulla lingua ‘volgare’ del redattore, discipline per le quali non dispongo di adeguate competenze. L’edizione del registro di Bartolomeo non avrebbe visto la luce senza i ripetuti incoraggiamenti di Massimo Miglio per la ripresa di questo mio lavoro: a lui vanno i miei ringraziamenti ai quali unisco, per i preziosi suggerimenti, quelli per la compianta Isa Lori Sanfilippo, per Alfio Cortonesi e per Elisabetta Gnignera. Un pensiero particolarmente grato lo rivolgo ad Attilio Bartoli Langeli, che mi ha consigliato e assistito concretamente nell’ordina

    A.Z

    Parte 1

    Il registro

    La forma

    Il registro contabile di Bartolomeo magistri Petri è costituito da 25 carte cucite tra loro, prive di copertina e non cartulate, che misurano mm. 294 x 224 [1] .

    La consistenza della carta è piuttosto spessa e la trama è di 20 vergelle in mm. 55: parametro che rientra perfettamente nelle caratteristiche delle carte prodotte tra gli anni 1350-1380, anni intorno ai quali il codice è stato scritto [2] . Ogni foglio ( bifolium) del codice – che piegato forma due carte – presenta in filigrana l’emblema del cartaio che lo ha prodotto. Soltanto cinque carte, delle quali la solidale è stata asportata, non hanno alcuna filigrana: evidentemente l’impronta era collocata sulla parte mancante [3] . Altre due carte singole, mancanti della solidale, hanno invece mantenuto il loro marchio di fabbrica [4] . Le undici filigrane disponibili rappresentano, in dieci casi, una lettera ‘h’ minuscola cui si sovrappone una croce latina; in un solo caso invece l’emblema è costituito da una nave stilizzata che inalbera una vela triangolare rovesciata, sormontata dalla coffa. Ambedue le tipologie, con piccole varianti nel disegno e nelle dimensioni, sono presenti nel dizionario di C.M. Briquet; la prima delle due, con una ulteriore variante, è inclusa anche nella raccolta Piccard-Online [5] .

    Lo stato di conservazione delle carte è complessivamente buono, nonostante una parte di esse presenti tracce d’umidità nel margine superiore e alcune, segnatamente le prime tredici, modeste corrosioni da topi nell’angolo esterno inferiore: piccoli difetti che non interessano l’intelligibilità del testo. Soltanto il verso dell’ultima carta del codice, che è stata a lungo a contatto con l’esterno, è sensibilmente sbiadito e parzialmente abraso nei primi quattro righi. Tale stato di degrado non si riscontra invece per la prima carta del codice, segno evidente che essa era preceduta da una o più carte (scritte o di guardia) mancate in tempi molto più recenti.

    L’odierno registro – formato da due fascicoli, di 13 carte il primo e di 12 il secondo – presenta le date estreme 1369-1403 [6] ed è soltanto un frammento del codice originario del quale non è facile valutare la consistenza iniziale; tuttavia, essendosi conservata per intero la struttura interna del dorso, si possono avanzare alcune ipotesi.

    Il registro era formato in origine da sei fascicoli, come testimoniano i due fascicoli superstiti e le cordicelle di cucitura dei quattro fascicoli asportati. Il dorso era poi solcato da cinque nervature trasversali che univano i fascicoli tra loro [7] .

    I due fascicoli superstiti sono oggi composti ambedue di otto fogli, che darebbero sedici carte a fascicolo, ma sette carte sono state asportate lasciando oggi soltanto dei mezzi fogli [8] . Dei quattro fascicoli interamente mancanti esistono ancora piccole tracce su tre delle quattro cordicelle di cucitura [9] . Dallo stato di conservazione però si deduce chiaramente che il primo fascicolo dovesse avere almeno un altro foglio che copriva l’attuale prima carta, mantenendola in condizioni particolarmente buone;

    immagine 1

    Dettaglio del dorso

    il che porta la composizione del fascicolo almeno a nove fogli. Se si ipotizza che tutti i sei fascicoli fossero stati in origine formati di nove fogli, ossia 18 carte, l’intero manoscritto avrebbe contato 108 carte, cioè 216 pagine. Ma non è certo che i due fascicoli superstiti fossero composti di sole 18 carte: innanzi tutto perché le carte sono prive di numerazione, inoltre perché manca la prima pagina del registro – contenente sicuramente la formula iniziale – che avrebbe costituito un punto fermo per valutare la consistenza del primo fascicolo e, per analogia, degli altri. Infine perché le carte non sono in ordine cronologico (quando sono datate) essendo state, con tutta probabilità, rilegate disordinatamente.

    Si può tentare allora una seconda valutazione delle dimensioni originarie del registro, più empirica, calcolando quante carte potevano essere contenute nel suo spessore iniziale; spessore che può essere stimato con buona approssimazione dalla misura di un capitello del dorso conservato apparentemente intero. In questo caso, rapportando lo spessore costituito dall’insieme delle 25 carte rimaste allo spessore del dorso originario, ne deriva che il manoscritto poteva contenere e anche superare 150 carte, ovvero 300 pagine.

    Il registro contiene quasi esclusivamente annotazioni di Bartolomeo magistri Petri Iohannis, redatte in lingua volgare, con una grafia corsiva, notarile, piuttosto elementare, con modulo e peso del tratto maggiori

    delle altre grafie occasionalmente presenti nel manoscritto nonché di quelle correnti nei protocolli notarili e in altri atti coevi.

    immagine 2

    Le due filigrane del registro

    È poco accurata sia nella forma, con frequenti linee non diritte, che nell’applicazione delle regole grafiche – i segni di abbreviazione mancano molto spesso o sono usati in modo incostante, i nomi propri sono ripetuti in modo diverso – tanto da far supporre un uso della scrittura poco frequente da parte del suo estensore. Ipotesi poco mitigata dalla destinazione a scopo personale delle registrazioni. In subordine, non si può escludere che la grafia di Bartolomeo sia frutto di un eventuale, leggero impedimento fisico, mentre invece non è certamente addebitabile all’avanzare dell’età perché tra le prime e le ultime scritture, che abbracciano circa trent’anni, non ci sono differenze significative.

    Si tratta dunque di un registro di contabilità e di altre memorie private da collocare in quel fenomeno, soprattutto italiano e ancor più del Centro Italia, che fu la nascita nel secolo XIII dei primi libri

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