Il mistero della scatola di pietra: la capsella di Montecosaro
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Il mistero della scatola di pietra - Emanuela Properzi
Note
Premessa
Questo libro si propone di offrire una spiegazione plausibile della natura e delle vicende di un’opera, qual è la capsella presente nella chiesa di Santa Maria a Pie’ di Chienti nel territorio di Montecosaro. L’esame delle ricerche si è esteso in più direzioni rispondendo a una valutazione accurata e sempre cercando di dare ampio spazio agli avvenimenti umani che si sono mossi attorno al manufatto.
Nel tentativo di venire incontro a nuove questioni, si sono espressamente ricercate deduzioni che, se pur insolite, rispondono quanto più possibile ad una rigorosa proposizione della Storia ampiamente documentata e corredata dalle fonti.
É difficile pensare che il nucleo del Sacro Romano Impero di Carlo Magno potesse trovarsi ristretto, tutto, nella bassa Valle del Chienti dove l’Imperatore " creò un territorio chiamato Palatium nel cui ambito costruì edifici regali tra cui la Scola Palatina e, molto ammirata dai contemporanei, la splendida Cappella Palatina, in sostituzione di quella avita di Saint Denis, oggi San Ginesio." [¹] .
È altrettanto difficile credere che l’intero paese dei Franchi, nato dalle delle cento e più differenti tribù della Gallia assoggettate da Giulio Cesare a Roma potesse essere contenuto tutto nelle Marche, anche se potrebbe essere vero che la prima tomba di Carlo Magno si trovasse collocata nel territorio fermano [²] .
Non è difficile però pensare che l’Imperatore del Sacro Romano Impero potesse avere i suoi interessi sull’esteso vescovato di Fermo, il cui territorio spaziava dalla Pentapoli al Teramano e confinava con il conteso, tra Papato, Longobardi e Franchi, ducato di Spoleto, la cui soggezione al Papa avrebbe significato la solida creazione dello Stato Pontificio. È altresì credibile che l’Imperatore considerasse il territorio fermano come un luogo obbligato di passaggio e di sosta per il suo esercito.
Penetrare nelle grazie del tetragono e difficile Capitolo fermano, composto da Canonici religiosi e laici, elettore di vescovi, proprio per creare vescovi disponibili alla volontà imperiale e così governare il territorio diocesano attraverso le postazioni che i Canonici avevano creato nel corso del tempo per la difesa del territorio e sistemarvi le discusse abazie imperiali, di regola benedettina, non era facile. Neppure scardinare l’ostilità dell’organizzata società longobarda, collocata a Fermo, dove manterrà le sue consuetudini e leggi fino alla soglia del XIII secolo.
Carlo Magno, che si era dovuto piegare per ricevere dal Pontefice il titolo imperiale e per poter godere di una certa libertà sui territori fermani, al Papa aveva ceduto un piccolo lembo di terra gerosolimitana, dono fatto alla sua persona dal califfo di Bagdad, perché fosse a sua volta ceduto al prelato fermano, in cambio della sistemazione sul territorio diocesano di abazie imperiali, luoghi di sosta per i suoi militari.
Nuovi enunciati in merito alle epigrafi contenute nella capsella presente nella chiesa di Santa Maria a Piè di Chienti decideranno se la lettura della storia proposta è corretta. Sono sempre disposta ad abbandonarla se ne verrà un’altra migliore.
Conosco fin troppo bene l’Idra dell’ostinatezza dell’errore per aspettarmi che dalla testa tagliata ne rispuntino altre due.
Introduzione
L’ampia scolarizzazione, voluta dallo Stato ai tempi di Augusto, aveva dato i suoi frutti anche tra i ceti popolari.
Le prove di quanto lo scrivere fosse diffuso durante l’impero romano, sono sui muri delle case di Pompei. Rivelando un animo arguto e popolare, le pareti mostrano che si poteva scrivere ovunque, certi che il messaggio avrebbe trovato fruitori. I graffiti pompeiani sono utilizzati con funzione di manifesti elettorali, per esaltare i meriti gladiatori, per vantare i pregi delle prostitute o per marcare
i valori e i vizi del proprietario dell’ insula, ma pure a ricordo di un avvenimento o per un trionfo celebrato.
La speciale e sibillina lapide, posta all’inizio del porticato della scuola pompeiana per gladiatori, ricordava ai tanti che erano in grado di leggerla, quanto i doni della fortuna potevano essere precari [³] .
Più tardi, a Roma, le scritture delle catacombe davano l’indicazione del nome di battesimo dei sepolti o dei martiri o esprimevano la richiesta di una preghiera o ancora indicavano il modo di celebrare e di pregare dei Santi.
Nella Roma dei Severi gran parte della popolazione sapeva ancora leggere e scrivere, ma ben presto, si allontanò dalle scholae. Le pragmatiche vicissitudini, le notizie che venivano dagli accampamenti di confine, le preoccupazioni per le continue crisi economiche con la conseguente svalutazione monetaria [⁴] e le incombenti carestie nei territori imperiali, cambiarono pure le abitudini di chi viveva nella Capitale.
Subito dopo l’editto di Milano, dopo il riconoscimento del Cristianesimo a religione di Stato, Costantino, attraverso i concili, tutti tenuti nella parte orientale dell’impero, aveva ottenuto in Occidente, il pieno controllo sulla nuova religione.
Le seguenti scelte imperiali, elevarono al Soglio di Pietro, pressappoco in successione, ben quattordici vescovi siriaci
.
Roma, la capitale, entrò nell’enclave bizantina e la Chiesa romana dovette affrontare da allora una lunga questione in fatto di supremazia religiosa con la Chiesa di Costantinopoli, città denominata, non a caso, la Nova Roma [⁵] .
La diffusa scolarizzazione romana dei secoli precedenti, a partire dalla fine del IV secolo, si restrinse e, come accadeva nella parte orientale dell’impero, la scrittura divenne esclusiva dei monaci, della classe aristocratica, della corte e dei funzionari governativi. Per la maggioranza della popolazione, alla fine del V secolo, ossia dopo la morte di Teodosio, la pratica della lettura e della scrittura, tra i ceti popolari, era quasi definitivamente caduta in disuso. Rari divengono ovunque, all’epoca, gli scritti.
La Chiesa che, fino alla fine del IV secolo, aveva continuato ad avvalersi dell’illustrazione, accompagnata da note di scrittura, in seguito, comprendendo le difficoltà incontrate dai fedeli nella lettura, aveva assegnato a ciascun Santo un tratto identificativo.
Poco dopo, le lotte per il controllo dei territori occidentali e gli arrivi continui dei popoli dall’Europa settentrionale e nord-orientale distrussero definitivamente quello che era sopravvissuto della classicità latina relegandola, a partire dal VI secolo e in tutta l’Europa occidentale, agli scriptoria dei monasteri.
Per primo Cassiodoro, ritiratosi a vita religiosa dopo l’attività politica e una permanenza a Costantinopoli, nello scriptorium di Vivarium cominciò a salvare i testi che la cultura classica aveva lasciato.
I popoli barbari, venuti a contatto con i resti del dissolto Impero d’Occidente, cercarono di avvalersi di tutto quanto Roma aveva lasciato e a servirsi della scrittura e della lingua latina attraverso promettenti monaci.
Allo scrivere si dedicarono, con continuità e per tutto il Medioevo, gli scriptoria dei monasteri benedettini e canonicali. Le epigrafi del periodo riguardano fatti eccezionali.
A Roma, presso la chiesa di San Giovanni in Laterano, era stato istituito lo scriptorium dei Canonici Lateranensi per l’elaborazione e la trascrizione dei documenti papali.
Negli scriptoria, presenti nei monasteri benedettini, i monaci riservarono, inizialmente, la loro opera quasi esclusivamente alla copia dei testi religiosi.
Le pitture [⁶] dell’ipogeo della chiesa dei Santi Ruffino e Vitale, chiesa situata nei pressi di Amandola, sono da ascriversi tutti alla fine del VI secolo, ricordando dipinti precedenti, presenti nelle catacombe, dove la figura accompagna il nome.
Pure le Sante ed i Santi raffigurati nei mosaici della chiesa ravennate di Sant’Apollinare Nuovo, sono associati allo scritto del proprio nome, testimonianza del perdurare, in alcuni casi, di un ambiente culturale più alto rispetto a quello coevo presente in tutta Italia.
I nomi dei Santi, o dei presunti Santi, dell’ipogeo amandolese, sono introdotti da note di scrittura criptata [⁷] che, con un’indubbia certezza, datano le pitture non oltre l’inizio del VII secolo. Le note di scrittura non appartengono alle pitture di san Vincenzo al Volturno o a quelle di Sant’Angelo in Formis o a quelle, di poco più tarde, della cripta di San Marco dei Sabatani a Benevento, tutte nate in periodi contemporanei, o di poco successivi, e ascrivibili ad ambienti monastici longobardi.
Nel Medioevo, in Occidente, negli scriptoria dei monasteri, l’uso delle note tachigrafiche derivate dalle abbreviazioni tironiane [⁸] , o sigle, riprese dal sistema abbreviativo romano avevano aperto la strada alla brachigrafia medievale con una serie di segni abbreviativi accompagnati da note criptate.
Usati particolarmente nella scrittura corsiva per accelerare il lavoro dei copisti e ad accorciarne lo scritto, essi divennero identificativi dell’epoca e della sistemazione geografica dello scriptorium, ma complicarono non di poco la lettura e l’interpretazione degli scritti nelle epoche successive.
In pieno Umanesimo, Ciriaco d’Ancona (Ciriaco Pizzicolli, 1391-1452) si occupò delle regole abbreviative presenti nell’epigrafia e nella scrittura libraria greca e latina.
Ricercando una metodologia valida nell’approccio alle scritture, si rese conto che nell’interpretazione e nella lettura di queste non si potevano escludere le abilità individuali, l’esercizio costante e l’umiltà di riconoscere i propri errori.
Il suo modo di procedere, di fronte alle difficoltà offerte dai segni brachigrafici, fu quello di porsi in una personale posizione di ripetuto confronto, fin quando la storia, l’arte e lo scritto non convergevano in un’unica interpretazione del manufatto. Con un pizzico di ragionevole orgoglio, in un’epoca in cui talvolta pedisseque regolamentazioni soverchiavano e limitavano nuove idee, rivendicando la propria libertà di studioso, Ciriaco ebbe a dire d’essere allievo solo di se stesso
.
Nella decifrazione dei segni grafici presenti nella capsella, lo abbiamo seguito.
C’è da sottolineare il vantaggio non comune offerto ora dall’informatica per la lettura e per individuare eventuali ritocchi
presenti nelle epigrafi.
Nonostante ciò non è stato per nulla semplice definire e decifrare gli scritti della chiesa di Santa Maria a Pie’ di Chienti, nel comune di Montecosaro, particolarmente quelli presenti nella capsella e le note criptate, graffite in due diverse epoche e con l’intervento di mani differenti.
Alla luce di quanto, di contenuto, vi poteva essere stato aggiunto nel corso degli anni, è da tener presente la storia ecclesiastica della Marca meridionale.
A dimostrazione di quanto l’area della media valle del Chienti sia stata, ancora dalla fine dell’età imperiale, culturalmente vivace, è indicativo il ritrovamento, nel territorio, di un sarcofago databile allo III-IV secolo d. C., il quale non reca alcun simbolo cristiano [⁹] .
Il sarcofago mostra, in alto nella facciata rivolta allo spettatore, un elaborato disegno geometrico dove appaiono evidenti le lettere D e M ( Dicatum Memoriae = dedicato alla memoria). Ai lati della scritta vi sono i disegni di due nicchie, incorniciate da elaborate colonne. Nell’edicola di sinistra si intravede la figura di una persona dolente, forse una donna come si può dedurre dall’acconciatura, mentre l’altra nicchia si mostra scalpellata con grande cura [¹⁰] .
Nella lapide, inserita nella parte centrale si può leggere: M(arco) ACUTIO P(ro) P(retori) FILIO ACUTIANO BO(na) R(equies) L(ice) A(t) UR / IA(n) U(ar) I NO(nis) VIXIT ANN(is) XXX ME(nse) S VII DIE(bus) XXV/ LACANIA MARTINA CONIUGI CARISSIMO ET FRA(ter) CUM FILIS COHEREDIBUS SUIS / EX TESTAMENTO [dato] EIUS BENEMERENTI POSUERE IN H(oc) Traduzione: A Marco Acuzio propretore figlio di Acuzio [¹¹] sia lecito un buon riposo alle None di Gennaio, visse per anni trenta, mesi sette giorni venticinque: Lacania [¹²] Martina al carissimo coniuge e il fratello con i coeredi suoi, dal testamento di lui benemerenti (lo) posero in questo (sarcofago).
Diversamente dall’epigrafe del sarcofago le incisioni o meglio le iscrizioni grafite su tutti i lati, sia interni sia esterni, della piccola capsella
di Montecosaro mostrano, sebbene l’effettiva difficoltà di scrivere su delle superfici ridotte e malagevoli, la volontà di conservare un breve ricordo dei fatti accaduti.
Le abbreviature presentate dai nomi della capsella, nonostante la complessità, non riguarderebbero nomi propri i quali, secondo la tradizione romana e la pratica cristiana, andrebbero sempre scritti per intero.
É da ricordare che l’incisione di nomi propri, i quali, ad esempio, ricoprono interamente la giara
romana di Falerone, sono scritti sempre per intero. Sicuramente rappresentano la persistenza e il potere evocativo della scrittura in un’area permeata da un Cristianesimo primitivo e orientale in cui erano avvertiti forti i messaggi biblici [¹³] .
Un’ipotesi del perché, nomi propri, compilati per intero, ricoprano completamente l’enorme contenitore faleronese potrebbe essere quella che, dal suo ritrovamento avvenuto probabilmente all’inizio dell’VIII secolo, epoca in cui sono state edificate o in parte riedificate le chiese di Falerone, la giara fosse stata utilizzata come raccoglitore per le elemosine.
Probabilmente i fedeli, dopo aver deposto l’obolo, scrivevano o facevano scrivere il proprio nome di battesimo o quello del caro estinto cui l’offerta era dedicata [¹⁴] . L’abitudine deporre denaro nella giara e di scrivere il proprio nome evidentemente dovette perdurare nel tempo con una sorta di discontinuità alla soglia dell’anno Mille per riprendere, poi, con un significato differente o semplicemente per lasciare una traccia di sé, intorno alla metà del XIV secolo [¹⁵] .
Alle chiese si affidava il compito di conservare, qualche volta per superstizione, il ricordo di particolari avvenimenti e di speciali oggetti di cui restava sconosciuto il significato come una serie di ben levigati pesi romani di diorite, trovati nel corso di scavi eseguiti nei pressi dell’edificio sacro [¹⁶] .
La capsella della chiesa di Santa Maria a Piè di Chienti, tranne che nel coperchio, presenta scritte che, se pur eseguite diligentemente, mostrano una decisa difficoltà nella lettura per la presenza di abbreviature spesso di tipo notarile pur non mancando comuni abbreviature paleografiche ed epigrafiche.
Le iscrizioni presenti nel manufatto offrono l’opportunità di rivedere e di completare gli studi in precedenza condotti non solo sulle chiese del territorio, ma anche sugli Ordini religiosi e laici che sono stati decisivi nella storia del territorio e del Cristianesimo delle origini nelle province delle Marche.
Per interpretare gli scritti della piccola scatola
di steatite [¹⁷] è servita, senza dubbio, la cognizione paleografica ed epigrafica e, in modo particolare, si è sentita pure la necessità di abbandonarsi all’intuito. [¹⁸] Per formulare delle ipotesi sull’importanza dello scritto e sull’utilizzo del manufatto, si è ricorso a tutte le conoscenze della Storia, bella e intrigante, del territorio del Fermano-maceratese-ascolano e di quella poco conosciuta, ma altrettanto singolare e avvincente dell’Archidiocesi di Fermo, fatta da vescovi pronti a difendere la città in armi, pure dichiaratamente templari
, di partenze per le crociate, di defenestrazioni, di scomuniche, di un gran tesoro sparito
e ritrovato.
Abbiamo raccontato e commentato la Storia, ma questa non è stata assolutamente piegata e aggiustata a nostro piacimento, ben consapevoli del valore delle fonti.
A volte, nella Storia, gli accadimenti reali hanno superato la fantasia.
I. La capsella di San Paolino vescovo di Nola
La capsella, conservata nella chiesa di Santa Maria a Pie’ di Chienti nel comune di Montecosaro, fu trovata sotto l’altare della chiesa superiore, durante i lavori di restauro eseguiti dalla Sovrintendenza delle Marche nel 1927-28 [¹⁹] .
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