Arrivederci Roma
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Anteprima del libro
Arrivederci Roma - Clelia Arduini
Prefazione
Se è vero che Roma non basta una vita
per conoscerla tutta, o quasi, come scrisse Gregorovius e ripeterono altri forestieri
innamorati della Città Eterna, il vicentino Silvio Nego e il romagnolo Armando Ravaglioli, la letteratura su Roma occupa chilometri di scaffalature.
Fate posto tuttavia a questo libro di Clelia Arduini che, teramana ardimentosa, appassionata d’arte, archeologia e turismo, vuole dire il suo grazie
alla Roma per lo più bonaria, divertente, piacevole che l’ha ospitata per un ventennio. Grazie, nonostante i momenti in cui Roma e i romani (ma quelli veri stanno ormai soltanto al ghetto, se ancora ci stanno) non ti si filano proprio di pezza, al più ti lasciano vivere, se ne hai i mezzi, e però non si accorgono di te e delle tue angosce.
Roma è fatta così, scrive Clelia, muta e rumorosa, allegra e indifferente, generosa e scettica.
L’operazione che l’autrice ha cercato di portare a termine è quella di una agenda dei ricordi, dal giorno dell’arrivo in cui tutto le va bene, non ha il biglietto per l’autobus e glielo offre una vecchina, non ha in tasca i soldi per il giornale e glielo danno lo stesso, non ce li ha per mangiare e la sfamano ugualmente… È la faccia favorevole di quella antica, antichissima moneta argentea in cui Roma è madre, anzi maternale, soccorrevole, sorridente. E dall’altro verso, monumentale e indifferente. Sempre capace di attrarre e di utilizzare il meglio dell’Italia, fin dall’antichità: Plauto era sceso dai monti di Sarsina in Romagna, Virgilio dal padule di Mantova, Catullo dalle rive del Garda, Plinio il Vecchio e il Giovane da quelle del lago di Como, Tito Livio da Padova, Ovidio da Sulmona, Orazio dal profondo Sud di Venosa, Lucrezio dalla più vicina Pompei, e chissà per quanto potrei continuare.
Non c’è un solo grande musicista romano (Pier Luigi da Palestrina era del contado, Giacomo Carissimi di Marino, Goffredo Petrassi di Zagarolo), ma tutti i migliori sono venuti a Roma, per anni o per sempre, con Arcangelo Corelli e Georg Friedrich Haendel che si contendevano il ruolo di maestro di cappella presso le grandi famiglie patrizie. E dico poco.
Sull’onda dei ricordi personali questo libro diventa, oltre che una agenda di persone conosciute, incrociate, frequentate, un breviario, un Baedeker di luoghi, storici e meno storici, attraversati a piedi o sulla sella di una moto lanciata nelle favolose notti romane, lungo viali di cipressi e di rovine maestose, dentro i vicoli del centro medioevale o della Suburra, in piazze dai palazzi imponenti e davanti alle facciate di chiese interamente di travertino, sbiancate da una luna altrove impossibile.
Clelia Arduini ha dunque rammemorato, evocato, resuscitato la sua
Roma, quella fra l’estate del 1998 in cui giunse qui e quella odierna in cui lei se ne va col marito nella patria di lui, nel cuore della verde (speriamo a lungo) Umbria, per ragioni di lavoro.
È malinconica, certo, tuttavia non sembra avere il cuore straziato Clelia, forse perché il suo non lo avverte come un addio definitivo ma come un arrivederci. Che poi sia una illusione coltivata ad arte per rendere meno sanguinante la ferita o una possibilità reale lo dirà soltanto il futuro. In ogni caso ha usato anche un artificio curioso, intelligente per integrare l’album già fitto e pieno di figurine, di istantanee, di luci e di estri delle proprie giornate memorabili a Roma. Servirsi cioè di un amico di un po’ di anni più anziano che può quindi raccontarle e così evocare la città degli anni ’70, dell’era nicoliniana, stretta fra sparatorie, bombe e attentati e un’estate dove la quantità e la qualità delle proposte ludiche e culturali facevano dimenticare anche le P38. Il Festival dei poeti a Castelporziano, oggi impensabile, le notti passate sdraiati sui prati davanti al grande schermo del vecchio/nuovo cinema, la scoperta delle ville e dei parchi fra mille musiche e feste.
Il racconto retrospettivo non si spinge però sino alla fine degli anni ’50, alle mitologie della Dolce Vita, fra via Veneto (che Federico Fellini poi ricostruì in studio a Cinecittà, come la sua Rimini del resto) e piazza del Popolo, dalle trattorie ancora autentiche frequentate da artisti, scrittori, registi, attori e alle case arrampicate sulle terrazze fiorite in una Trastevere ancora umana. Non ci arriva, ed è bene così perché anche questa Roma più recente raccontata da Clelia in presa diretta o attraverso Silvestro, il suo mentore, merita di venire evocata in tutte le sue suggestioni vecchie e nuove.
Fra l’altro l’autrice ha il merito di scoprire
una meta ludica e culturale di massa come quella del Parco della Musica, del nuovo imponente Auditorium di Renzo Piano ormai cresciuto al punto da capeggiare la graduatoria europea dei complessi da spettacolo quali il Barbican Centre di Londra.
Clelia dà per acquisito da tutti ciò che per lei è stato subito familiare e cioè che l’area del nuovo Auditorium sia uno dei nuovi perni attorno ai quali ruota la vita culturale di massa di Roma, di quella musicale anzitutto, dal gregoriano al rock, da Bach a Springsteen, purché sia buona musica. E si sofferma giustamente sul più simpatico e gentile e umile degli assessori capitolini alla Cultura, Gianni Borgna, poi presidente di Musica per Roma, grande affittasale
di lusso, ormai cinque sale compreso quel teatro a lui dedicato, finalmente. Sì perché in vita Gianni non ebbe dal suo partito le medaglie che si era ampiamente meritato, non le ebbe a vantaggio di gente mediocre, di burocrati senza storia.
In questo viaggio nei ricordi di un ventennio l’Auditorium acquista tutto il rilievo di un nuovo luogo di ritrovo, di comunicazione, di aggregazione di massa. Quale esso è, di giorno e di notte. Anche se romani e non romani spesso ne ignorano la vera storia - per certi aspetti avventurosa - e finiscono per non valutare in giusta misura il più grande e riuscito investimento culturale pubblico dell’ultimo settantennio in Italia. Realizzato, in fondo, in un decennio, visto che l’area venne scelta dal Comune nel 1990 e la prima sala fu inaugurata dieci anni dopo, e gestito come da Roma e dai romani non ci si aspettava (per una certa stampa a Roma possono succedere soltanto disastri e malegestioni).
Questo di Clelia Arduini è un viaggio veloce, senza soste, volante, come le fresche folate del vento di Roma che rendono vivibile pure in agosto un’organizzata marea di mattoni e di pietre antiche addensate sul Tevere. Folate di vento che ci fanno sperare, nonostante tutto, in una rinascita della città ripulita e riscattata dopo anni flaccidi, corrotti, melmosi in cui ci si è applicati ad imbruttirla, a sporcarla per sempre. Senza riuscirci, nonostante quel canagliesco impegno. Perché, amata e odiata, esaltata e detestata, Roma nessuno l’ha mai davvero atterrata.
Vittorio Emiliani
Overture
I ricordi salgono leggeri, come una marea, a livello delle caviglie, poi mi avvolgono le gambe come un pannicello caldo e io mi blocco nella luce, rapita dal tempo che è stato, che è volato, che non può tornare più.
I vapori del Parco dell’Insugherata si squarciano ed esce il sole, in lontananza un campanaccio segnala la presenza di mucche, più in alto, nel folto del bosco, il rumore degli zoccoli di un cavallo si disperde nella vallata. Sembra di stare in campagna in questa zona di Roma nord, con i canneti, le rocce, le colline, i campi coltivati, i torrenti e perfino un cow boy del Terzo Millennio, Angelo, che produce ricottine e vende uova fresche. Ma tutto questo ormai non mi appartiene più perché ce ne andiamo. Sì, è deciso, ce ne andiamo. Mio marito lavora ad Ancona, mia figlia studia a Londra, io scrivo per riviste che hanno sede a Milano, non siamo proprietari dell’appartamento in cui abbiamo vissuto per quasi diciotto anni, non siamo romani.
Sì, è deciso, ce ne andiamo, ma lasciare Roma è una scelta monumentale.
Ti entra ipodermicamente nel sangue e t’illanguidisce come un bacio incompiuto o un abbraccio a metà, che vorresti finire con voluttà, ma non riesci. E rimani come un baccalà ad aspettare che Lei si conceda con tutta se stessa, che si sveli nel suo più recondito animo, che ti faccia sentire sua, ma quel momento non arriva mai. Perché Roma è di tutti e non è di nessuno.
Ripeto a me stessa che non c’è motivo per restare, la città e i suoi abitanti si sono sbracati, incattiviti, imbruttiti, e mentre penso queste cose, una struggente malinconia mi prende la gola e già mi mancano il colore del travertino che al tramonto si tinge di rosa e a volte anche di giallo, e le infinite sfumature della natura urbana, che diventa arancione, rossa e azzurra, secondo le stagioni e delle fioriture. Li ho visti infinite volte tutti questi colori così come ho visto, sovrapposte, mille altre bellezze, stranezze, bruttezze, perché Roma ti fa sentire un re e nello stesso tempo un disperato.
Di questo immenso pianeta -