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Le storie e i luoghi più strani di Milano
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E-book457 pagine5 ore

Le storie e i luoghi più strani di Milano

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Info su questo ebook

Alla ricerca di dettagli rivelatori, tra indizi da decifrare e inattese scoperte di una storia millenaria

Milano è nata al centro della Val Padana e, forse non a caso, il suo stesso nome indica una posizione geografica: dal toponimo celtico “Medelhan”, letteralmente "in mezzo alla pianura”. Anche dal punto di vista amministrativo, nel Medioevo e nella prima età moderna, Milano era suddivisa in ripartizioni che traevano il nome da alcuni luoghi, e cioè dalle sei porte di accesso alla città. C’erano la Porta Comasina (aperta sulla strada che univa Milano a Como, verso nord), la Porta Ticinese (in direzione di “Ticinum”, antico nome di Pavia), Porta Romana, Porta Orientale (poi Porta Venezia), infine Porta Vercellina e Porta Nuova. Questa suddivisione esprimeva benissimo la sfaccettatura delle diverse anime che componevano la complessa geografia della città. Queste aree sono legate a “storie” particolari che ne esprimono l'unicità all'interno del panorama cittadino; con nobili e straccioni che, nella città antica, spesso convivevano fianco a fianco, in un'incredibile stratificazione di vicende umane e di avvenimenti, tutti da raccontare.

Tra i luoghi della città:
Da via Moneta a piazza Affari. Le strade del denaro dalla Milano delle origini a oggi 
Sospetto di veleno tra i monaci di san Pietro in gessate. Storie torbide di scalate al potere?
I luoghi della compagnia della teppa. La ribellione giovanile nella Milano austriaca
Storie inquiete, anche dopo la morte. Musocco, ovvero il cimitero maggiore
Qualche storia delle periferie: tra l’Ortica, il Lorenteggio e il Giambellino
Tra i racconti della città: Bonvesin de la Riva. Il primo cantore della grandezza di Milano
Le osterie milanesi. Storie di luoghi che non ci sono (quasi) più
Dal borgo degli ortolani all’intera città. Storia e racconti della peste
La città della scapigliatura. Storie e luoghi di una compagnia di “maledetti”
Un siciliano a Milano: Giovanni Verga
Mauro Paesi
nato a Carate Brianza nel 1974, si è laureato con una tesi sul Trattato della Pittura di Leonardo e si è specializzato in Storia del collezionismo. Ha poi conseguito il dottorato di ricerca. Si occupa principalmente di temi riguardanti il Rinascimento lombardo. Attualmente insegna Storia dell'Arte Moderna  all'Università Cattolica di Milano e Brescia. Con la Newton Compton ha pubblicato La storia di Milano in 100 monumenti e opere d'arte, Storie segrete della storia di Milano e Le storie e i luoghi più strani di Milano.
LinguaItaliano
Data di uscita9 ott 2018
ISBN9788822726339
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    Anteprima del libro

    Le storie e i luoghi più strani di Milano - Mauro Pavesi

    Indice

    Cover

    Collana

    Colophon

    Frontespizio

    ringraziamenti

    Introduzione

    Milano racconta. I luoghi

    Da via Moneta a piazza Affari. Le strade del denaro dalla Milano delle origini a oggi

    Dal Carrobbio a via San Vito. Storie di muri, terrapieni e fanciulle rapite

    Via Valpetrosa

    L’Anfiteatro romano di Porta Ticinese I pochi resti di un colosso perduto

    Il Caval del Missori e un intreccio di storie milanesi di tutte le epoche

    Martiri, duchi ammazzati e scheletri. Il vuoto di piazza Santo Stefano

    Ara bell’Ara. Una vecchia leggenda di Palazzo Marino

    Sospetto di veleno tra i monaci di San Pietro in Gessate. Storie torbide di scalate al potere?

    Contrada del Guasto, oggi via Anfiteatro. Una strada malfamata della Milano di una volta

    I luoghi della Compagnia della Teppa. La ribellione giovanile nella Milano austriaca

    Ancora in zona Palazzo Marino Il linciaggio del ministro Prina, nel racconto di Giuseppe Rovani

    I matti della Senavra. Storia di un’ex villa di delizie, diventata manicomio, e ora chiesa

    La stretta Bagnera. Una cupa storia di sangue tra i vicoli milanesi

    Ancora al Carrobbio. Una tradizione milanese: la Tazzinetta benefica

    Buffalo Bill a Milano. Il Far West in zona Niguarda

    Storie inquiete, anche dopo la morte. Musocco, ovvero il Cimitero Maggiore

    La Milano Films, poi Armenia Films. Il cinema muto da via Farini alla Bovisa

    Scheletri in università, sotto lo studio del rettore

    Via Osoppo. La via della «rapina del secolo»

    La stazione di San Cristoforo di Aldo Rossi. Lo scheletro del gigante incompiuto fra le sterpaglie

    Qualche storia (famosa e meno famosa) delle periferie: tra l’Ortica, il Lorenteggio e il Giambellino

    Milano raccontata. Le storie

    Bonvesin de la Riva. Il primo cantore della grandezza di Milano

    Le osterie milanesi. Storie di luoghi che non ci sono (quasi) più

    Dal Borgo degli Ortolani all’intera città. Storia e racconti della peste

    La città dei Promessi sposi. Luoghi e storie di un grande romanzo

    La Milano di Giuseppe Rovani. Vicissitudini e aneddoti di un grande della letteratura lombarda

    La città della Scapigliatura. Storie e luoghi di una compagnia di maledetti

    Un siciliano a Milano: Giovanni Verga

    Ancora la città scapigliata. Storie misteriose, macabre e noir ambientate a Milano

    Il dramma di una città che cambia. la Milano di Emilio De Marchi e di Demetrio Pianelli

    I macelli di Milano. Un bozzetto di Carlo Emilio Gadda

    La Milano nera di Giorgio Scerbanenco. Qualche appunto

    Bibliografia

    Illustrazioni

    em

    580

    Prima edizione ebook: ottobre 2018

    © 2018 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-227-2633-9

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Corpotre, Roma

    Mauro Pavesi

    Le storie e i luoghi più strani di Milano

    Alla ricerca di dettagli rivelatori, tra indizi da decifrare e inattese scoperte di una storia millenaria

    omino

    Newton Compton editori

    Ringraziamenti

    Desidero ringraziare innanzitutto Elisabetta Crema, in particolare per l’aiuto nella redazione dei capitoli di pp. 219-231, 267-280, 359-371, e, soprattutto, per le parti del volume che vanno da pp. 164 a 182 e da 186 a 192. Per il materiale dell’Archivio Diocesano milanese la mia gratitudine va a Fabrizio Pagani e Alex Valota. Grazie anche a Riccardo Amato, Marco Borrè, Federico Cavalieri, Fabio Pavesi (per il capitolo sull’Armenia Films), Federico Riccobono.

    Io mi sono chiesto molte volte qual è l’odore di Milano, il suo odore dominante, il suo odore d’ogni giorno.

    È innegabile che ogni città, come ogni donna, porta con sé il suo odore: l’odore che tutta la penetra, ch’è l’emanazione raffinata e misteriosa della sua persona, quello che ce la ricorda da lontano, che ci richiama allo spirito la sua presenza e, nei momenti di passione, persino il suo aspetto vivo e palpitante. L’odore floreale di Firenze, l’odore salmastro e fermentoso di Napoli.

    Milano, nel suo travaglio giornaliero, emana grande quantità di odori. [...]

    Ma questi sono odori avventizi, di passaggio, odori che vorrei dire parassitarii perché vivono in margine al grande, al profondo, all’intimo odore di Milano, odore fatto di molle casalinga dolcezza, d’intimità affettuosa, di vecchiaia serena. È l’odore che trovate ancor schietto e vivo per certi cortiloni di palazzi patrizi o che si esalano [sic] da alcune viuzze del centro dove le case hanno ancora l’umido, l’aggrondato e il grigio di tre secoli d’ombra, quell’odore che ogni buon milanese riconosce al primo fiuto e che non muta né si scrolla mai nonostante la continua giostra d’effluvi industriali che vi si sono sovrapposti.

    Carlo Linati, Prose lombarde (1927), p. 44

    A Milano la costruzione più tipica è il Duomo. Sembra il giudizio di uno scolaro o l’inizio di una guida alla città, scritta nel modo più didascalico e ingenuo possibile, e forse lo è. Ma mi riferisco al Duomo come quel suo essere fabbrica di sé stesso, un’opera che nei secoli insegue la sua immagine e la cui bellezza possiamo cogliere proprio in questa continuità, sovrapposizione, costruzione scempio di tipologie e di pietre, insieme di decisioni diverse e contrapposte.

    Aldo Rossi, Quaderni Azzurri, 38 (1988), a cura di F. Dal Co, Milano 1999

    Ragazzi: con gambe come due spàragi. Idioti dentro la capa più che se la fosse fatta di un tubero, infanti una pur che fosse favella: dopo dodici generazioni di granoturco e di migragna dai piedi verdi venuti fuori anche loro dall’Arca bastarda delle generazioni, a cercar di barbugliare una qualche loro millanteria tirchia nel foro: lo sbilenco foro di Pastrufazio!

    Carlo Emilio Gadda, La Cognizione del dolore (1963), in Id., Romanzi, Torino 1997, p. 484

    Introduzione

    È vero che vivere a Milano a volte è stressante. I ritmi di lavoro sono frenetici, spesso la fretta rende nervosi, e, solo a camminare per strada, ci si sente bombardati da un’infinità di stimoli diversi e contrastanti. C’è molto traffico, con tram e autobus ovunque; e poi, anche se spesso non ci si fa caso, lo stesso contesto urbano è tutt’altro che rilassante. È impossibile che, anche a livello subconscio, la nostra mente non sia disturbata dal contrasto fra un’accozzaglia di edifici tanto diversi per età, stile, funzione, stato di conservazione, bellezza o bruttezza estetica. Edifici che spesso sono in restauro, rifacimento o manutenzione; ovunque ci sono cantieri aperti, tecnici, operai. Anche incontrare così tanta gente per strada, varia, abbigliata e pettinata in modi tanto diversi, in un miscuglio di lingue, caratteri ed etnie, non aiuta certo il nostro cervello a rilassarsi.

    Tuttavia chi sta a Milano difficilmente sarebbe disposto a cambiare città. Certo, Milano va presa a dosi (e non a caso ad agosto e nei fine settimana estivi la città si svuota), ma, a saperci vivere, è un luogo estremamente stimolante. E, anche se non sembra volersene vantare, Milano è una città bella. Anche al di là dei singoli monumenti più famosi (il Duomo, Sant’Ambrogio, San Satiro, Santa Maria delle Grazie; Brera, il Castello Sforzesco), il centro, a un osservatore attento, offre scorci di eleganza discreta e monumentale: la scenografia neoclassica di piazza Belgioioso, con l’omonimo palazzo e la casa del Manzoni; il bel campionario di architetture del xx secolo che si vede in piazza Meda (con opere in stile Novecento di Portaluppi, Magistretti senior, Greppi, un suggestivo inserto in vetro e acciaio del gruppo bbpr e, sullo sfondo, il tiburio secentesco di San Fedele); gli eleganti e bizzarri palazzi dell’area tra le vie Mozart, Serbelloni e Vivaio (con opere di Arata, Andreani e ancora Portaluppi); i suggestivi scorci del quartiere liberty di via Malpighi.

    Ma le sue strade sono piene, soprattutto in centro, dei segni della sua storia passata. Si potrebbero, come spesso viene proposto, tracciare itinerari sulla Milano di età comunale, di epoca viscontea e sforzesca, ma anche alla ricerca di reperti, esposti e visibili a tutti, della Milano romana: dalle Colonne di San Lorenzo e quelle di fianco a Sant’Ambrogio, alla statua dell’Omm de preja in corso Vittorio Emanuele (che fu, com’è noto, una sorta di Pasquino milanese), alle lastre marmoree con busti-ritratto inseriti tra i mattoni del campanile di San Satiro o negli archi medievali di Porta Nuova. L’impressione di trovarci in una metropoli di recente bellezza è quindi ingannevole: basta solo guardare al di là delle prime apparenze.

    Il suo nome originario era Medelhan, poi diventato Mediolanum, e oggi Milano. All’inizio, fu un luogo in mezzo alla pianura, su un terrapieno asciutto in mezzo a corsi d’acqua e a qualche pantano; un territorio abitato da uomini della Cultura di Golasecca, un’antica civiltà dell’età del bronzo. Il nome dovrebbe significare luogo di mezzo: in effetti, già in tempi antichissimi, la città era cresciuta proprio per la sua felice posizione al centro della Val Padana, facilmente collegabile, attraverso strade e valichi alpini, sia con le popolazioni mediterranee sia con le genti dell’Europa del nord.

    Una città fiorita proprio per questa facilità di comunicazione con tutti, per il suo essere uno snodo. Forse non è un caso che, anche dal punto di vista amministrativo, nel Medioevo e nella prima età moderna, Milano fosse divisa in ripartizioni che traevano il nome da luoghi per così dire di passaggio: le sei porte di accesso alla città. C’erano (e ci sono ancora oggi) la Porta Comasina, aperta sulla strada che univa Milano a Como, verso nord; la Porta Ticinese (in direzione di Ticinum, antico nome di Pavia); Porta Romana; Porta Orientale (poi Porta Venezia); infine Porta Vercellina e Porta Nuova.

    Anticamente, questa suddivisione esprimeva benissimo la sfaccettatura delle diverse anime che componevano la complessa fisionomia della città, dall’area più popolare di Porta Ticinese – legata alla Darsena, con i suoi facchini e i suoi trasportatori – a quella più aristocratica di Porta Venezia, costellata di eleganti abitazioni signorili e con i giardini pubblici di origine settecentesca.

    Ognuna di queste è legata a storie particolari, a racconti che ne esprimono l’eccezionale unicità all’interno del panorama cittadino; con nobili e straccioni che, nella città antica, spesso convivevano fianco a fianco, in un’incredibile stratificazione di vicende umane e di avvenimenti da raccontare. Scegliendo, a campione, l’area di Porta Ticinese, ci si accorge che, a fianco della Milano degli artigiani di lusso – con i veri e propri quartieri-emporio di via Spadari, via Armorari ecc. (ciascuno legato a innumerevoli vicende umane e storiche di mercanti intraprendenti, committenti altolocati e operosi artefici di genio) – esistevano chiese imponenti, maestosi palazzi (come quello di Massimiliano Stampa, il gran signore che traghettò Milano, nel Cinquecento, dalla dinastia degli Sforza alla Spagna di Carlo v) e un vero tempio del sapere come la Biblioteca Ambrosiana. Nella stessa area si trovavano anche vicoli malfamati, come la famigerata stretta Bagnera (nome derivato dal latino Balnearia: in epoca romana qui c’era un piccolo stabilimento termale annesso al palazzo degli Imperatori) dove, nel xix secolo, era vissuto uno psicopatico autore di efferati, macabri delitti.

    A saperla leggere, la vicenda millenaria del capoluogo lombardo reca un’infinità di tracce per una possibile chiave di lettura articolata per luoghi e per racconti. In una città con una sedimentazione storica così complessa sono molte le località legate a importanti episodi del passato, o alla presenza di qualche personaggio celebre, o anche soltanto curioso.

    Spesso, i luoghi di Milano sono legati alle storie di scrittori e dei loro libri: dai Romantici, agli Scapigliati, ai Futuristi. Anche quella della Milano di un particolare personaggio è una strada che è stata spesso già felicemente percorsa: esiste infatti un’infinità di libri sulla città di sant’Ambrogio, di san Carlo Borromeo, di Manzoni, Carlo Porta, ma anche un repertorio recente di Franco Loi con i luoghi legati al grande poeta dialettale Delio Tessa. Una storia che forse è ancora da scrivere è quella sull’immagine della città che emerge, in tempi recenti, dallo strabocchevole numero di romanzi di ambientazione milanese di fine xx-inizio xxi secolo, o dal cinema.

    Tuttavia raccontare la storia di Milano attraverso i suoi luoghi più strani e curiosi non è, spesso, un’impresa semplice. Prima di tutto perché, a differenza delle più famose città d’arte italiane, il capoluogo lombardo si presenta, come dicevamo, con un aspetto moderno, produttivo, che non sembra lasciare nulla all’immaginazione. Non ci sono, almeno apparentemente, luoghi magici o legati a leggende misteriose. Bisogna quindi saper leggere fra le righe.

    Eppure la Storia e le storie del passato, che a volte sembrano cacciate a forza nelle pagine dei libri chiusi di qualche polverosa biblioteca, emergono invece ad ogni dove. Scavando, ad esempio; per gettare le fondamenta di qualche nuovo palazzone, o per costruire i tunnel delle nuove linee della metropolitana. Come nel sottosuolo di piazza San Babila, dove le ruspe e le scavatrici hanno smosso gli strati di terra che nascondevano le tombe di un cimitero pagano del i-ii secolo avanti Cristo. Sepolture di uomini di cui non sappiamo nulla: tra esse c’era il sepolcro di una bambina (almeno così sembra) di circa due anni, che gli archeologi hanno ribattezzato Europa. Pare che nel suo piccolo corredo ci fosse un minuscolo ago di osso, usato forse come giocattolo.

    Oppure basta mettere il naso in qualche antica chiesa del centro per ritrovarsi subissati di pompose iscrizioni o epigrafi latine; o, cambiando invece contesto storico, camminare nei quartieri di periferia (Giambellino; Gorla; Baggio; Lambrate) per trovare lapidi che celebrano i martiri della Resistenza o le vittime innocenti della seconda guerra mondiale.

    Anche i luoghi apparentemente più prosaici nascondono, a volte, intrecci molto interessanti. Come via Camperio, tra via Meravigli e piazza Castello: qui ebbe il suo studio Francesco Londonio, interessante pittore del xviii secolo che in parte è ancora da riscoprire: su di lui grava qualche passata stroncatura troppo sbrigativa, che lo vuole un artista specializzato in scene agresti ben dipinte ma un po’ stucchevoli (ma basterebbe guardare la serie con le quattro vedute di cascinali oggi nei depositi di Brera per rendersi conto del contrario). Londonio, pittore che discendeva da una famiglia di nobili di origine spagnola, era anche famoso per organizzare feste carnevalesche; celebri, nella Milano del Settecento, dovevano essere anche i suoi scherzi, di cui parla un romanzo come i Cento anni di Giuseppe Rovani, un testo di cui si parlerà più volte in questo libro. Poco più in là, svoltando a sinistra, in via Giulini, si vedono due facciate di chiese: una gotico-rinascimentale e una barocca. Sono le due fronti della chiesa monastica di San Vincenzo, che in tempi recenti è stata abbattuta e letteralmente segata in due. Le fronti davano una sulla strada e l’altra sul giardino interno. Qui era sepolto un altro artista dalla vena un po’ folle, il cinquecentesco Giovan Paolo Lomazzo, abate di una bizzarra combriccola di artisti che si riunivano, nel nome di Bacco, a declamare misteriosi versi in un dialetto caricatissimo definito facchinesco: perché rimandava, si diceva, alla lingua gutturale dei facchini che scendevano a Milano dalla Val di Blenio, in Canton Ticino.

    Oppure prendiamo ad esempio la via Castel Morrone, fuori da Porta Venezia; una via alberata come molte altre, circondata da edifici di fine Ottocento. Qui, al civico 7, in una palazzina come tante altre, c’era lo studio di uno dei massimi pittori dell’età delle avanguardie, Umberto Boccioni, che visse qui per tre anni, a partire dal novembre 1907. In questa casa l’artista aveva realizzato capolavori immortali come La Risata e La Città che sale: oggi sono esposti al moma di New York. Dal 1912, dall’altra parte della strada, al n. 19, per poco Boccioni non si era incrociato con un giovane squattrinato, Benito Mussolini, che qui aveva vissuto con la famiglia facendo il maestro elementare e il giornalista. Erano anni in cui il futuro duce viveva un po’ di espedienti, fra risse, duelli e avventure extraconiugali, magari facendosi aiutare a tirar fine mese dalle amanti di turno.

    Tornando a Boccioni, è interessante, per comprendere l’attrattiva che Milano poteva offrire a un giovane dei primi del xx secolo, dare un’occhiata a questo brano del suo diario, scritto all’inizio del 1907, poco prima del suo trasferimento in città:

    Sono stato in campagna per lavorare e non ho trovato nulla. Le solite linee mi stancano, mi nauseano, sono stufo di campi e di casette. […] Troverò? Ieri ero stanco della gran città, oggi la desidero ardentemente. […] Domani vorrò dipingere il nuovo, il frutto del nostro tempo industriale. Sono stanco di vecchi muri, di vecchi palazzi, di vecchi motivi di reminiscenze; voglio aver sott’occhio la vita di oggi.

    Di cose da dire ce ne sarebbero molte, e forse si corre il rischio di divagare un po’ troppo. Per dare un filo conduttore a questo intreccio di luoghi e di storie tutte milanesi, questo libro è stato suddiviso in due parti.

    La prima è dedicata a brani in cui è Milano stessa a raccontare, con alcuni siti che fanno da spunto alla rievocazione di fatti e vicende del passato dal sapore particolare: episodi che possono essere tratti da brani letterari, antiche tradizioni, e, in qualche caso, da documenti d’archivio. Nella seconda sezione, il punto di osservazione è invece ribaltato: qui, invece, sono gli scrittori a raccontare Milano. In una panoramica che non può, ovviamente, essere esaustiva, ma che contiene una scelta minima, assolutamente parziale, tra le testimonianze letterarie più utili a capire quale possa essere veramente l’anima della città.

    Cosa emerge dai luoghi e dai racconti scelti per comporre il percorso di questo libro? Gli spunti sono numerosi. Si potrebbe dire molto, ad esempio, sul carattere dei milanesi: gente tutt’altro che seria, compassata e dedita unicamente al lavoro. Provvista, al contrario, di un’indole sanguigna, passionale; con una vivacità e una gioia di vivere assolutamente inaspettate; in cui grandi slanci di generosità si alternano, se c’è un po’ di energia da sbollire, a risse, urla e alla preparazione di scherzi goliardici e beffardi. Come quelli che Carlo Romussi, ad esempio, ricorda architettati da parte della plebe ai danni dei soldati austriaci occupanti negli anni che precedettero le Cinque Giornate (1848).

    Carlo Linati – uno scrittore che è ancora, in parte, da riscoprire – mette in rapporto la nascita di un’importante avanguardia artistica e letteraria come il Futurismo proprio con questo lato tutto lombardo del carattere del suo fondatore, Filippo Tommaso Marinetti; il quale ebbe la fortuna di avere idee geniali e innovative in una Milano che era allora in un periodo particolarmente stimolante, dinamico. Una città, in poche parole, che attraversava uno dei «momenti più tumultuosi della sua espansione economica, industriale, edilizia»; rispetto alla quale il Futurismo fu, secondo lo scrittore, «una delle sue tante manifestazioni della sua febbre di crescenza».

    Quando gli scappò di mano questo cavallo imbizzarrito del Futurismo [Marinetti] aveva poche in sé di quelle tendenze cosmopolitiche e dinamiche e orgiastiche che gli vedemmo poi. Vantava sì una sua origine egiziana, un allattamento sudanese, ma era, in fondo, buon ragazzone, matto di poesia, che rincorreva le sartine pei vicoli, che andava nei salotti milanesi a declamare Baudelaire e Verlain. […] Io lo ricordo perché a quei tempi s’era amici e spesso si trascorreva la notte insieme nel suo salotto orientale di via Senato, scrivendo e sorbendo tazze di buon caffè turco. Ma il nostro convegno consueto era certa redazione di giornale […] fondato allora e situato dirimpetto allo sbocco dei Portici Settentrionali [di piazza Duomo]. Là sotto passava sempre un gran fiume di gente, e Marinetti, già maestro di chiasso fin d’allora, dal terrazzino si divertiva ad apostrofare i passanti, a tender loro ogni sorta di gherminelle e, per far réclame al giornale, rovesciar loro sul capo interi pacchi di giornali.

    Come non ricordare qui i veglioni spettacolari del vecchio carnevale milanese, testimoniato, fin dal xvii secolo, da una quantità impressionante di dipinti o testimonianze letterarie in versi e in prosa? Oppure, restando in tema, lo stupore dei viaggiatori francesi del Settecento che rimanevano basiti dal contegno che l’aristocrazia lombarda teneva durante gli spettacoli alla Scala? Con la bella architettura del salone del Piermarini che, all’entrare in scena di qualche tale cantante o ballerina, si animava di urla, applausi scroscianti, schiamazzi, fischi, colpi di bastone, quasi a creare un’atmosfera da moderno tifo da stadio.

    Ma insieme a questo lato pungente e canzonatorio, i milanesi hanno sempre mostrato una grande generosità. Sono molte le associazioni benefiche tipicamente meneghine, e la maggior parte è fiorita proprio negli anni del primo boom economico, negli anni tra l’unità d’Italia e la prima guerra mondiale. Di questo tratto del carattere dei milanesi è testimonianza anche il glorioso Ospedale Maggiore, con il suo museo dei ritratti dei benefattori (ce ne sono di molto pregevoli anche dal punto di vista artistico: con opere di Hayez, Segantini, Carrà, Casorati, Sironi).

    Tutto, insomma, si intreccia in modo non lineare, ma il quadro che ne esce è vitale, effervescente, con una città che, all’occorrenza, sa essere materna, accogliente con tutti.

    Il lato inquieto di Milano si vede soprattutto nell’aspetto con cui si presenta la città. Molto stratificato, si diceva, fin quasi all’eccesso; con una tendenza quasi impressionante a distruggersi e a rinascere sulle proprie ceneri.

    In effetti, nonostante il continuo succedersi negli ultimi due secoli di una serie incredibile di piani regolatori, la crescita di un organismo urbano grande e complesso quale è la metropoli lombarda dà l’impressione di essere avvenuta in modo impulsivo, disorganico, senza regole.

    Si può osservare, ad esempio, la vera e propria ossessione della città che, invece che estendersi in larghezza, continua, in alcuni punti, a crescere ossessivamente su se stessa. Con il Duomo, ad esempio, che è stato costruito su un complesso paleocristiano-medievale che doveva essere unico: con due basiliche, due antichissimi battisteri e altri edifici minori. Tutto spazzato via, tranne pochi resti celati nei sotterranei; e poi, una volta finita la cattedrale, a morire e rigenerarsi in una forma completamente nuova è stato lo spazio circostante della piazza, che ancora oggi (si vedano le polemiche per la recente sistemazione a palmizio del lato ovest) non sembra trovar pace.

    Anche un altro dei luoghi simbolo della città, il Teatro alla Scala, è sorto sulle ceneri della bella basilica in stile gotico da cui prende il nome; e anche in questo caso, meno di un secolo dopo il completamento, è stato lo spazio intorno a modificarsi, con la creazione di una piazza ottocentesca che ha distrutto un intero quartiere medievale e la bella chiesa barocca di San Giovanni alle Case Rotte (costruita, a sua volta, sulle rovine dei palazzi della famiglia Torriani sconfitta dai Visconti).

    Forse questa difficoltà nell’imbrigliare le forze vitali della crescita cittadina trova una sua motivazione anche in secolari consuetudini storiche. Non va dimenticato che la pianificazione urbana era stata pressoché nulla, ad esempio, nei due secoli di dominazione spagnola; durante la quale, l’unico intervento di una certa importanza era stato l’edificazione della imponente cinta fortificata in mattoni. Erano le cosiddette Mura Spagnole, costruite dal governatore Ferrante Gonzaga per conto dell’imperatore Carlo v.

    Quello delle fortificazioni (peraltro abbattute quasi del tutto tra fine Ottocento e gli inizi del secolo scorso) fu un intervento che, col chiudere la città entro una morsa strettissima, aveva forse contribuito ad intasare ulteriormente un centro storico già di per sé parecchio congestionato. Proprio quel centro che, dopo i tentativi naufragati del non disprezzabile piano urbanistico napoleonico, fu letteralmente stravolto dagli interventi di fine xix-inizio xx secolo. Fu in quel momento, a partire dal piano regolatore di Cesare Beruto in poi (1884), che si cancellarono per sempre interi quartieri popolari a ridosso del Duomo, spingendo gli abitanti in casermoni di periferia appena costruiti; eliminando poi (con una scelta che oggi è giustamente rimpianta) anche un pezzo di storia come l’antica cerchia del naviglio interno. Lo si fece, ovviamente, per motivi speculativi: i terreni edificabili in centro fruttavano molto di più.

    Fu poi il turno del piano Pavia-Masera, redatto tra il 1909 e il 1912, e del piano Albertini, decretato nel 1932. Nel 1929 si interrarono i navigli. Si volle far nascere la città del futuro partendo dal centro; esigenze di rappresentanza e, soprattutto, affaristiche avevano fatto sì che fossero le zone centrali ad implodere, divenendo oggetto di una febbrile attività demolitoria, edilizia e speculativa. Così è forse lecito affermare che la ricostruzione, appena precedente, di piazza Duomo, fu veramente il big bang che fece deflagrare la frenetica corsa all’edilizia nel centro. Oggi si può dire che stia accadendo il contrario: tutto sembra già cambiato alla velocità della luce. È da tempo ormai che gli interessi dei costruttori si stanno accanendo su alcune aree periferiche; tutto ciò sta, di conseguenza, lasciando inquietanti vuoti nelle zone centrali. In circa un secolo, infatti, il nuovissimo centro otto-novecentesco appare già svuotato da qualsiasi funzione abitativa: oggi quasi tutti i palazzi delle vie intorno al Duomo sono occupati da negozi, uffici, banche. Alla sera, strade e piazze si svuotano.

    Proprio pensando al centro, si possono chiudere queste note sparse con un paradosso. Lasciando la parola a un grande architetto, Aldo Rossi, che, pensando al massimo monumento milanese, la cattedrale, l’ha eletta a paradigma della storia della città, proprio per essere nata e cresciuta in mezzo ai dibattiti, alle contestazioni, ai contrasti; emblema di «continuità, sovrapposizione, costruzione scempio di tipologie e di pietre»; e, al contempo, sintesi finale di una serie infinita di contrasti, resistenze, opposizioni, e «di decisioni diverse e contrapposte». Forse non perfetta né coerente ma, in ultimo, ricca di fascino.

    E, si potrebbe aggiungere, archetipo dell’incessante lavorio su se stessa che è un tratto dominante della storia di Milano: perennemente ricoperta da ponteggi, mai finita per tre secoli e anche oggi, dopo il suo definitivo completamento, in costante necessità di manutenzione.

    Milano racconta. I luoghi

    Da via Moneta a piazza Affari. Le strade del denaro dalla Milano delle origini a oggi

    Milano sembra nata, come insediamento stabile, due millenni e mezzo fa. Forse le prime casupole erano state costruite intorno a un luogo sacro, legato al culto di qualche divinità misteriosa; in breve questo primo, rudimentale insediamento, era diventato il centro di un antichissimo reticolo di strade, riprese e consolidate in età romana e in parte percorribili ancora oggi. Tanto che, verrebbe da dire, i reperti più visibili della Milano delle origini sono proprio gli spazi vuoti, immateriali dei percorsi di alcune vie.

    Ma qual è il punto esatto in cui la città è nata? Ovviamente non è possibile saperlo; oltretutto non è neanche tanto semplice, da un punto di vista più o meno letterario, scegliere un luogo che abbia una valenza simbolica utile a raccontarne le origini; origini che, come è stato più volte ribadito, sono da ricercare in un passato dai contorni indefiniti, lontanissimo e nebuloso.

    Vanno esclusi dalla nostra selezione i siti in cui sono stati ritrovati i cosiddetti ripostigli preistorici (xvii-xii sec. a.C.), luoghi cioè in cui i nostri antenati nascondevano oggetti importanti; segno, sì, del passaggio umano, ma non sufficienti a testimoniare un’effettiva vita di tipo cittadino. Le prime memorie di veri e propri stanziamenti abitativi sono infatti di età più recente, del v secolo a.C. Risalgono a quest’epoca i reperti trovati a via Meravigli, piazza Cordusio, via Correnti e in altre aree del centro; altri resti coevi, architettonicamente più consistenti, raccontano di una fornace preistorica, che stava sotto l’odierno Palazzo Reale. Tracce di palafitte della stessa epoca sono emerse negli scavi della moderna piazza Diaz.

    Il luogo forse più adatto al nostro scopo potrebbe però essere il tracciato di via Moneta, una strada antichissima che sta tra la Biblioteca Ambrosiana e il quartiere otto-novecentesco del Cordusio. La via, di per sé, non è molto appariscente, inquadrata com’è da edifici che risalgono, per lo più, al xx secolo.

    Sembrerebbe impossibile, a prima vista, che proprio qui il sottosuolo abbia rivelato tracce aurorali di edifici su palafitte, con l’aggiunta di una discreta quantità di monete bronzee emesse dall’antichissima zecca insubre che aveva sede in quest’area. Dal punto di vista archeologico, questa zona è infatti una delle più importanti miniere di informazioni sulle fasi più remote della storia di Milano: nell’adiacente spazio occupato dalla Biblioteca Ambrosiana, ad esempio, è stata rinvenuta anche una fibula (fibbietta) in bronzo databile anch’essa al v secolo a.C., mentre, come è noto, nella vicina cripta della chiesa del Santo Sepolcro sono state reimpiegate, come pavimentazione, parecchie lastre in pietra già appartenenti all’antico Foro romano, centro della vita cittadina nell’età della Repubblica e del primo Impero.

    L’esempio di via Moneta è anche utile a illustrare come, talvolta, le strade più antiche – a Milano come in altre città storiche – spesso conservino traccia del loro passato soltanto nelle sillabe del nome. L’appellativo Moneta, in effetti, rimanda all’antica zecca che stava in quest’area e che, due millenni e mezzo fa, coniava emissioni di denaro che ricalcavano le dracme provenienti dalla colonia greca di Marsiglia. La sua attività era durata, quasi ininterrottamente, fino all’Alto Medioevo; dopo una breve pausa, le coniazioni avevano avuto seguito anche con la conquista romana della Gallia Cisalpina, continuando poi, per un certo periodo, perfino dopo la caduta dell’Impero.

    In una data imprecisata, forse coincidente con i ripetuti soggiorni in città della corte imperiale (iii-iv secolo), la zecca milanese aveva mutuato il nome dall’analogo istituto che, a Roma, era collocato nei pressi del tempio di Giunone Moneta (=ammonitrice); era stato proprio quest’ultimo attributo dell’antica regina degli dei a dare indirettamente il nome al piccolo dischetto metallico usato fin dai tempi antichi come strumento di scambio commerciale.

    L’immagine odierna di via Moneta non offre comunque granché allo spettatore curioso. La strada, discretamente ampia ma abbastanza breve, ha inizio, partendo dal lato del centro, con la mole seicentesca della Biblioteca Ambrosiana e si chiude, dalla direzione opposta, in un incrocio a T con il tracciato di via Bocchetto, inquadrando una veduta scorciata del grandioso palazzo in stile littorio del Banco di Roma, opera dell’architetto Cesare Scoccimarro. Quest’ultimo edificio, cominciato nel 1941, è stato costruito rimpiazzando il bel fabbricato in stile liberty del Banco Jarach, costruito da Achille Manfredini e rimasto in piedi per meno di trent’anni. È del resto curioso come tutto, qui, dia l’impressione di cambiare incessantemente, anche per la continua presenza di gru, camion di traslochi, riparazioni stradali. Solo i nomi delle strade sembrano resistere al passare del tempo; è il caso della stessa via Bocchetto, la cui intitolazione antichissima segnala forse la passata esistenza di una fontana o una fognatura di epoca romana.

    Sul lato destro di via Moneta, avendo l’Ambrosiana alle spalle, lo spazio è occupato dalla pretenziosa mole marmorea della sede della Banca d’Italia, attardato edificio classicheggiante progettato e costruito da Luigi Broggi e Giuseppe Nava tra il 1907 e il 1913. Il palazzone sostituisce un vecchio isolato di case in cui era inclusa la già citata chiesa parrocchiale di San Mattia alla Moneta: le fonti antiche la ricordano

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