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La storia di San Lorenzo: Dalla Preistoria ai giorni nostri
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E-book382 pagine4 ore

La storia di San Lorenzo: Dalla Preistoria ai giorni nostri

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Per cominciare il viaggio alla scoperta di San Lorenzo, si percorre l’antica via Tiburtina alla ricerca di un tempio dedicato al dio Ercole. Si vede Annibale spingersi quasi fino alle mura di Roma. Ci si meraviglia di fronte al sepolcro di un fornaio e a quello del generoso Lorenzo, il Santo che considera i poveri il vero tesoro della Chiesa.
Il Medioevo si apre con le grida dei barbari e l’esecuzione capitale di un grande generale, Stilicone, sospettato di tramare insieme al nemico. Attraversano questo territorio sovrani e capitani di ventura, pontefici e alchimisti alla ricerca della formula che trasforma il comune metallo in oro.
Alla fine dell’Ottocento, vediamo arrivare i primi abitanti, quegli edili che costruiscono la nuova Capitale. Da qui passano Edoardo Talamo e Maria Montessori, decisi a riqualificare un quartiere nato povero e degradato. Qui vive il sor Capanna, l’ultimo cantastorie romano. Sorgono fabbriche, botteghe e osterie. San Lorenzo lotta strenuamente per impedire al fascismo di entrare e la sua comunità viene perseguitata ed esclusa. Poi arriva la guerra che sventra palazzi interi e lascia dietro di sé una scia di morti.
Ma c’è anche un dopo. Ci sono gli anni dell’Unità e di Paese Sera in via dei Taurini, le occupazioni e gli scontri alla Sapienza, l’ultima cena di Pasolini da Pommidoro, l’arrivo di una nuova ondata di creatività che riempie il quartiere di atelier d’arte. Si arriva fino ai giorni nostri, all’epoca del Coronavirus e del grande sgombero del Nuovo Cinema Palazzo, un simbolo per l’intero quartiere.
LinguaItaliano
Data di uscita13 mag 2021
ISBN9788836260607
La storia di San Lorenzo: Dalla Preistoria ai giorni nostri

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    La storia di San Lorenzo - Sara Fabrizi

    Copertina_SanLorenzo_ebook.jpg

    CommunityBook – La Storia di Roma

    Credits

    CommunityBook – La Storia di San Lorenzo

    Edizione Ebook marzo 2021

    Un’idea di: Luigi Carletti - Edoardo Fedele

    Progetto di: Typimedia editore

    Curatore: Sara Fabrizi

    Project manager: Simona Dolce

    Progetto grafico: Chiara Campion

    Impaginazione: Francesca Mori

    Foto: Antonio Tiso e Sara Fabrizi

    Organizzazione generale e controllo qualità: Serena Campioni

    Product manager: Melania Tarquini

    In copertina: Un puttino di piazza dei Sanniti, foto di Antonio Tiso

    ISBN: 978-88-3626-060-7

    CommunityBook online: www.typimediaeditore.it

    Direttore responsabile: Luigi Carletti

    Crediti fotografici: Museo di Casal de’ Pazzi, zanne di elefante, ValeGua / Wikipedia Commons; Porta Maggiore, incisione di Luigi Rossini / Wikipedia Commons; Maria Montessori, Irisphoto / Shutterstock; Macerie della basilica di San Lorenzo fuori le Mura dopo il bombardamento, Roma, Archivio Leoni / Archivi Alinari Firenze; Gianni Rodari, Famiglia Rodari / Wikipedia Commons. L’editore si rende disponibile al pagamento dell’equo compenso per l’eventuale utilizzo di immagini di cui non vi è stata possibilità di reperire i titolari

    dell’avente diritto.

    © COPYRIGHT

    Tutti i contenuti di CommunityBook e degli altri prodotti editoriali della società Typimedia in essi citati sono di proprietà esclusiva e riservata della medesima Typimedia e sono protetti dalle vigenti norme nazionali e internazionali in materia di tutela dei diritti di proprietà intellettuale e/o industriale.

    Essi non possono essere riprodotti né utilizzati in qualsiasi modo e/o attraverso qualsiasi mezzo, in tutto o in parte, se non previa autorizzazione scritta di Typimedia.

    Ogni abuso sarà perseguito ai sensi delle leggi vigenti, con relativa richiesta di risarcimento danni.

    Per informazioni o richieste: info@typimedia.it

    Per cominciare il viaggio alla scoperta di San Lorenzo, si percorre l’antica via Tiburtina alla ricerca di un tempio dedicato al dio Ercole. Si vede Annibale spingersi quasi fino alle mura di Roma. Ci si meraviglia di fronte al sepolcro di un fornaio e a quello del generoso Lorenzo, il Santo che considera i poveri il vero tesoro della Chiesa.

    Il Medioevo si apre con le grida dei barbari e l’esecuzione capitale di un grande generale, Stilicone, sospettato di tramare insieme al nemico. Attraversano questo territorio sovrani e capitani di ventura, pontefici e alchimisti alla ricerca della formula che trasforma il comune metallo in oro.

    Alla fine dell’Ottocento, vediamo arrivare i primi abitanti, quegli edili che costruiscono la nuova Capitale. Da qui passano Edoardo Talamo e Maria Montessori, decisi a riqualificare un quartiere nato povero e degradato. Qui vive il sor Capanna, l’ultimo cantastorie romano. Sorgono fabbriche, botteghe e osterie. San Lorenzo lotta strenuamente per impedire al fascismo di entrare e la sua comunità viene perseguitata ed esclusa. Poi arriva la guerra che sventra palazzi interi e lascia dietro di sé una scia di morti.

    Ma c’è anche un dopo. Ci sono gli anni dell’Unità e di Paese Sera in via dei Taurini, le occupazioni e gli scontri alla Sapienza, l’ultima cena di Pasolini da Pommidoro, l’arrivo di una nuova ondata di creatività che riempie il quartiere di atelier d’arte. Si arriva fino ai giorni nostri, all’epoca del Coronavirus e del grande sgombero del Nuovo Cinema Palazzo, un simbolo per l’intero quartiere.

    L’autore

    Sara Fabrizi (1992) vive a Roma. È laureata all’Università La Sapienza in Filologia Moderna. Ha lavorato come redattrice e coordinatrice editoriale per diverse case editrici. Ha collaborato all’organizzazione di molti festival letterari tra cui Parole in cammino. Festival della lingua italiana. Collabora con Typimedia dal 2017 e ha curato alcuni volumi di successo della collana La Storia di Roma: Appio-San Giovanni, Aurelio, Centocelle, Esquilino, Flaminio, Marconi-San Paolo, Montesacro, Monteverde, Nomentano, Ostia, Parioli, Prati, San Lorenzo, Tiburtino, Trieste-Salario, Tuscolano. È autrice del volume La Storia del Coronavirus a Roma, il racconto puntuale della pandemia nella Capitale e di come l’abbiamo affrontata. Con Matteo Pucciarelli ha scritto anche Comunisti d’Italia. 100 patrioti rossi che hanno costruito la democrazia.

    Prefazione

    T ra i quartieri simbolo di Roma, San Lorenzo racchiude in egual misura il mito e la storia, la grandezza della Roma caput mundi e le aspre contraddizioni della terra di frontiera. Quasi che, fin dalla fondazione del tempio dedicato alla dea Speranza di cui oggi purtroppo non resta traccia, in questa parte della città più che altrove i romani abbiano sempre avuto ben chiaro quanto sia precario il percorso dell’essere umano, su quel filo sottile che separa la felicità dal dolore, la prosperità dalla miseria e, in definitiva, la vita dalla morte.

    San Lorenzo terra di martiri della cristianità, come il Santo che gli dà il nome, e in epoche più recenti di martiri della violenza umana. San Lorenzo che nelle sue viscere custodisce sepolture e catacombe con ritrovamenti anche recenti, come la catacomba dei bambini, ben dodici gallerie sotto la Tiburtina scoperte solo nel 2012 in seguito a dei lavori per l’interramento dei cavi dell’alta tensione. San Lorenzo che nasconde le spoglie di personaggi che hanno segnato la storia, come è accaduto con Andrea Fortebraccio, meglio noto come Braccio da Montone, sulla cui sepoltura papa Martino V fa erigere una colonna che ne sancisce la definitiva sconfitta e la damnatio memoriae.

    Nel leggere questo nuovo volume di Typimedia dedicato alla storia di Roma, si resta letteralmente affascinati dalla quantità e dalla portata delle vicende che hanno percorso questa porzione, tutto sommato ridotta, di territorio romano. La Storia di San Lorenzo, dalla preistoria ai giorni nostri è un’autentica perla nel racconto epico della Capitale, e bene ha fatto Sara Fabrizi – autrice di numerosi volumi oltre a questo – a soffermarsi su alcuni snodi che più di altri restituiscono la complessità e il fascino di una narrazione intensa, che non conosce pause, proprio perché la vita di San Lorenzo di pause non ne ha avute.

    Tra i diversi snodi, è quanto mai opportuno ricordare l’apertura del sesto capitolo, quando l’autrice ricorda che nell’ottobre del 1873 viene approvato il piano regolatore di Roma. Se lo si osserva attentamente, si nota a colpo d’occhio che San Lorenzo non c’è. La carta che illustra gli edifici progettati e quelli da demolire, si ferma al confine delle Mura Aureliane. Ecco, questo è un momento di svolta nella storia del quartiere, perché è come se la politica gli assegnasse – ora e per sempre – un’identità di terra di mezzo: né città né periferia, né urbe né campagna: semplicemente San Lorenzo. Ma proprio qui sta il germe di ciò che avverrà nei decenni successivi. Un’inurbazione non controllata, spesso caotica, con strade e ferrovie che incrociano le antiche, nobili vie ideate dall’acume dei progettisti romani e adesso violentate da una modernità il cui vero nome spesso è speculazione. Fenomeno che a Roma va ben al di là dei confini di San Lorenzo, ma che qui gode di un mix quasi irripetibile: il quartiere è terra di conquista ma al tempo stesso è quasi centrale, così vicino al Policlinico, all’Università, alla stazione Termini…

    Quando alle 11:13 del 19 luglio 1943 le bombe degli alleati colpiscono la Capitale, San Lorenzo è il primo quartiere a conoscere la morte che arriva dall’alto. Nelle tragedie di quelli che perdono tutto, ci sono le storie di persone che qui avevano trovato un luogo in cui stare dopo peripezie e sacrifici di ogni genere. Persone arrivate da molti luoghi diversi e confluiti in una comunità-paese all’interno di una città che è già metropoli. E quest’impronta di comunità-paese – simile a quella di altri quartieri ma ancor più forte, radicata e tenace – continua a segnare la vita e la crescita di San Lorenzo, piccolo grande quartiere compreso nel Secondo municipio, lo stesso di Parioli, Flaminio e Trieste-Salario, in quella discutibile suddivisione del territorio comunale che amministratori poco avveduti attuarono forse pensando così di mitigare orientamenti politici altrimenti conservatori. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: nel centro di Roma (perché ormai di centro parliamo) c’è un quartiere in cui degrado e spinte speculative oggi formano un mix ad alto rischio di cui si parla poco e malvolentieri. Da un lato gli sforzi di chi non ci sta, dall’altro il calcolo di chi, evidentemente, non ha interesse a risanare in nome della sostenibilità ambientale e di un autentico progresso. Anche questa è storia, e noi la raccontiamo.

    Buona lettura a tutti.

    Luigi Carletti

    Museo di Casal de’ Pazzi. Tracce della vita preistoria del territorio di Roma si scoprono al Museo di Casal de’ Pazzi, dove sono conservati reperti di grande fascino come i resti fossili di elephas antiquus.

    CAPITOLO 1

    In un tempo lontano, qui c’era il mare

    1.1 ACQUA, FUOCO, TERRA

    Nel passato più antico di San Lorenzo, c’è il mare. Una liscia distesa d’acqua, increspata appena dai venti, ricopre interamente quello che ai giorni nostri è il quartiere. Tutto ciò che conosciamo oggi, non esiste ancora. Non c’è alcun punto di riferimento a cui aggrapparsi. Eppure la storia è già cominciata.

    Ci troviamo in un tempo compreso tra i 5 e i 2 milioni di anni fa. È l’epoca geologica che gli studiosi chiamano Pliocene. L’intero territorio della campagna romana è sommerso dalle acque, che arrivano a sfiorare le pendici della catena appenninica: i Monti Sabini-Lucretili. Al di sotto di questa superficie liquida, c’è un intero mondo. Immergendosi sott’acqua, si scopre la vita delle specie che popolano gli abissi. Stelle marine, ricci di mare, molluschi con le loro conchiglie colorate, crostacei, persino coralli. Non è raro incrociare, andando al largo, la scia di un banco di pesci o anche quella di un grande squalo. Difficile, forse, crederci, ma è davvero così. Lo dimostrano le tracce lasciate da queste creature preistoriche in varie zone del Lazio. Per esempio, scorrendo le pagine del saggio Revisione dei selaciani fossili dell’Italia meridionale (1903), si ha notizia del ritrovamento nell’area di Fondi, in provincia di Latina, di un dente di Odontaspis ferox. Si tratta del cosiddetto "cagnaccio", uno squalo toro col muso corto e appuntito e denti simili a spilli, che può raggiungere la lunghezza di più di tre metri. Una specie che, al giorno d’oggi, vive negli oceani tropicali e subtropicali, nuotando a profondità che vanno dai 10 ai 500 metri.

    Dopo aver osservato le distese sabbiose e rocciose dei fondali, si torna a vedere la luce. Ci si guarda intorno, un po’ spaesati. All’orizzonte, si riesce a distinguere qualcosa che interrompe la continuità della superficie marina. Sono piccole isole, lembi di terra scaldati dal sole. Hanno qualcosa di familiare, anche se non lo si nota subito. Quelle isole, in realtà, sono montagne. O meglio, cime di montagne che emergono dai flutti. Uno è il Soratte, il monte che oggi si erge nella valle del Tevere. Gli altri sono i monti Cornicolani, così chiamati perché Montecelio e Monte Patulo, visti da Roma, sembrano delle corna. L’antica linea di riva si trova nella zona in cui, ai giorni nostri, sorgono Palombara Sabina, Moricone e Fara in Sabina. Esistono delle prove concrete, segni visibili che consentono di poter affermare con certezza che proprio lì, in epoca pliocenica, arrivava il mare. Passeggiando lungo i sentieri che si snodano tra quelle montagne è piuttosto comune trovare rocce crivellate di buchi. Quei fori sono il segno di un’antica presenza, quella dei litodomi, meglio noti come datteri di mare: piccoli molluschi che vivono lungo le zone costiere, dentro tane che scavano loro stessi. Per realizzarle, utilizzano delle secrezioni acide, in grado di corrodere il calcare. I fori che si scoprono lungo il proprio cammino sono ciò che rimane di quelle tane preistoriche.

    Nel corso di milioni di anni, tutto si trasforma.

    Grandi forze naturali modellano la Terra. La crosta terrestre si muove. In alcuni punti si assottiglia fino a lacerarsi. In altri, si ispessisce. È l’effetto dell’attività tettonica. Allo stesso tempo, si assiste a grandi cambiamenti climatici. Lunghi periodi glaciali si succedono nel tempo, intervallati dagli interglaciali. Le temperature si abbassano e la coltre ghiacciata si espande, imprigionando nella sua morsa nuovi territori. Il livello dei mari si abbassa. Poi, dopo millenni di intenso freddo, il clima si mitiga, i ghiacci si sciolgono e le acque tornano a occupare vaste porzioni di terra. Si procede così, per cicli di 100.000 anni. Progressivamente, il mare tende a ritirarsi, lasciando emergere la campagna romana.

    RUPE DI LARGO MAZZONI. La roccia che si vede in questo punto rappresenta un frammento di memoria preistorica. Questo è tufo del Palatino, una formazione geologica derivata da una delle antiche eruzioni del Vulcano Laziale.

    La preistoria lascia la sua impronta anche nell’area di San Lorenzo. Basta spingersi appena al di fuori dei confini storici del quartiere per rendersene conto. Ci si dirige verso largo Guido Mazzoni, appena al di là di via Tiburtina, non lontano dal cimitero del Verano. Quella che ci si trova davanti è una piccola rupe, alta 4 o 5 metri. Al di sopra ci sono un parco pubblico, Villa Narducci, e la sede della storica scuola calcio Spes Artiglio, fondata nel 1905. Poco più in là, c’è Tibus, la stazione degli autobus con il suo viavai continuo di grandi pullman. E poi la stazione Tiburtina, gigantesco snodo del traffico ferroviario capitolino. Questa è un’area completamente immersa nel caos della vita quotidiana contemporanea. Eppure, proprio qui, ci si affaccia sul passato più remoto. La rupe di largo Guido Mazzoni racconta una storia antichissima. Queste rocce che affiorano lungo il costone sono un frammento di memoria preistorica. Osservandole, ci si proietta indietro nel tempo di circa 600.000 anni.

    Una vibrazione sotterranea scuote la campagna intorno. Un rumore cupo mette in allerta l’intera natura. Nell’aria si percepisce che sta per accadere qualcosa. Spostando lo sguardo verso sud-est, si nota una coltre scura che copre l’orizzonte. Laggiù, nella zona degli odierni Colli Albani, si sta sprigionando tutta la violenza del magma che risale dalle profondità della terra. È una delle prime, spaventose eruzioni del Vulcano Laziale. Un’esplosione violenta proietta nel cielo un’immensa nube, composta di gas, cenere, frammenti di magma. È la pressione, accumulata in precedenza, a imprimere una spinta decisiva al getto. Il soffio dei venti disperde parte delle ceneri, che vanno a depositarsi in zone anche molto distanti. Poi, la spinta si esaurisce. La colonna eruttiva, all’improvviso, collassa. Si forma una colata piroclastica, un flusso ad alta temperatura in cui si mescolano frammenti di magma e gas, che corre a una velocità incredibile. Può superare anche i 100 chilometri orari, spingendosi a molta distanza dal punto in cui si è originata. Non è come una colata di lava. È molto peggio. A vederla, sembra una nuvola che scende verso terra, avvolgendo tutto quello che incontra lungo il proprio cammino. Per questo la chiamano anche nube ardente. Lascia dietro di sé soltanto distruzione e morte, terra bruciata, alberi sradicati e anneriti. Uno spettacolo che fa salire il cuore in gola. Affascinante e terribile allo stesso tempo.

    Durante la prima fase di vita del Vulcano Laziale, detta Tuscolano-Artemisio, le esplosioni si alternano alle colate di lava. Ma ci sono anche periodi di relativa calma, durante i quali il vulcano si fa silenzioso. Sembra quasi voler dare tregua al territorio circostante, alle piante che cominciano a germogliare tra la cenere, agli animali che sono sopravvissuti alla sua furia. Eruzione dopo eruzione, il vulcano cresce su sé stesso, raggiungendo una larghezza di 60 chilometri e un’altezza di oltre 2000 metri. La coltre dei materiali si deposita in tante zone, vicine e lontane, colmando valli, formando rilievi, dando una nuova forma al paesaggio. La rupe che si può osservare in largo Mazzoni parla proprio di come il territorio sia stato plasmato dal vulcano. Per capire qualcosa in più, occorre fare ricorso alle conoscenze e agli strumenti della geologia. Si può farlo sfogliando le pagine di un prezioso volume, I geositi del territorio di Roma capitale (2014), edito dalla Sigea, Società italiana di geologia ambientale. I geositi, come spiegato in un testo posto in apertura del libro firmato da Giuseppe Gisotti, sono parti di territorio sensibili dotate di un elevato valore geologico in senso lato. Si tratta di un vero e proprio patrimonio che andrebbe preservato e tutelato ma di cui, spesso, si ha scarsa consapevolezza. Per chiunque passi distrattamente da qui, queste sono soltanto pietre. Lo sguardo scivola via, senza soffermarsi più di un istante. Eppure in questo luogo si può toccare con mano qualcosa che ha a che fare con le origini. Questa roccia di color grigio marrone, che ingloba al suo interno scorie più scure, è tufo. Per essere più precisi, si tratta di tufo del Palatino. Si è formato da una di quelle terribili eruzioni iniziali, centinaia di migliaia di anni fa.

    Non lontano da qui, c’è un altro sito interessante, che consente di osservare la stratificazione dei materiali derivati dalle eruzioni. Ci si incammina verso viale delle Province per fermarsi all’altezza della scalinata che sale verso via Paolo Zacchia. Così, ci si trova al cospetto di una parete verticale che, almeno in apparenza, sembra frutto di un intervento edilizio. In realtà, osservando bene, al di sotto di uno strato di vegetazione che cresce tra le crepe, c’è della roccia. Se ne distinguono due tipi diversi, con caratteristiche specifiche. Lo strato più alto è simile a quello già visto in largo Mazzoni: un deposito grigio marrone con scorie nere e grigie. Anche questo è tufo del Palatino. Al di sotto, però, c’è un altro strato, più antico. È un deposito grigiastro, che contiene pisoliti di cenere, corpi di forma più o meno sferica o ellittica di dimensioni variabili. Si tratta di quella che viene chiamata Unità di Tor de’ Cenci. Il fatto che si trovi più in basso permette di capire che è una formazione precedente.

    È l’esito di una colata piroclastica più antica.

    Se si allarga la visuale per un momento, si nota che anche a nord del territorio dove verrà fondata Roma sta succedendo qualcosa. Là dove oggi si innalzano i Monti Sabatini, c’è un altro vulcano che comincia la sua attività più o meno nello stesso periodo. È un distretto vulcanico con centri eruttivi diversi, disseminati in un’area piuttosto vasta. Il magma ribollente che si fa strada verso la superficie trova uno sbocco nella zona di Morlupo-Castelnuovo di Porto. Poco più tardi, entra in attività anche il centro di Sacrofano, che produce una quantità enorme di materiali, lava e tufi. Ceneri e lapilli, depositatisi ai fianchi dell’edificio vulcanico, danno vita a grandi coni di scorie.

    La presenza di questa sorta di cintura di fuoco ai due estremi opposti di Roma ha un’altra importante conseguenza sul territorio. I prodotti dei vulcani, infatti, vanno a colmare la valle del Paleotevere, il fiume preistorico che si snoda in questa campagna. Già in passato, il corso d’acqua ha dovuto deviare dal suo percorso a causa del sollevamento della dorsale di Monte Mario, più o meno 700.000 anni fa. Anche questa volta, il fiume che diventerà l’odierno Tevere, trova di fronte a sé ostacoli difficili da superare: prima i depositi del Vulcano Sabatino, poi quelli del Vulcano Laziale. Così, il Paleotevere è costretto a scavarsi una via, aggirando i rilievi, puntando in una nuova direzione. Col passare del tempo, troverà il suo posto definitivo nella geografia della campagna romana.

    La prima fase di attività del Vulcano Laziale si interrompe più o meno 360.000 anni fa. È una nuova eruzione, particolarmente potente, a far crollare il gigante. Un boato, poi un getto incandescente che si innalza sopra il cratere, portando con sé cenere e lapilli. Ancora una volta si innesca il meccanismo che dà vita alla colata piroclastica. Alla fine, a forza di spingere fuori materiali incandescenti, la camera magmatica si libera completamente. Il grande serbatoio che alimenta il vulcano resta vuoto. La pressione prodotta dai gas si esaurisce. Così, senza più nulla a sostenerlo dall’interno, il Vulcano Laziale implode. Nelle pareti di roccia si aprono grandi crepe, lunghe fratture, come delle ferite. La parte superiore frana, con un rumore assordante. Quando il velo di polvere che si è sollevato si dissipa, si vede un’enorme conca: una caldera. Il vulcano dei Colli Albani, però, non è scomparso. Ha solo cambiato forma. Ci vorrà del tempo per assistere a nuove eruzioni. Qualche migliaio di anni di calma e poi comincerà una nuova fase, quella detta Delle Faete o Dei Campi di Annibale, a cui seguirà l’ultima fase, quella di via dei Laghi.

    PARETE ROCCIOSA, VIALE DELLE PROVINCE. Lungo la parete si intravedono strati di roccia differenti. Derivano da diverse eruzioni del Vulcano Laziale

    Ancora oggi, il vulcano è lì, in stato quiescente. Non è estinto, solo addormentato. Ha cominciato, da diverso tempo, a dare segni di vita. Il terreno, lentamente, si sta sollevando. Due o tre millimetri all’anno. Le camere magmatiche si stanno riempiendo di nuovo. Ci saranno nuove eruzioni? La risposta viene da Fabrizio Marra, ricercatore dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia e coordinatore di uno studio che ha consentito di ricostruire la storia eruttiva dei Colli Albani: In quanto tempo questo magma potrebbe trovare una via di risalita e dar luogo a un’eruzione è difficile da stabilire con precisione, quello che è certo è che i tempi fisici per cui ciò possa avvenire sono nella scala delle migliaia di anni.

    1.2 650.000 ANNI FA, UN ELEFANTE PREISTORICO VICINO ALLA VIA TIBURTINA

    Quando il Vulcano Laziale comincia a far sentire la sua voce, la campagna romana è un territorio vivo, popolato da tante specie animali differenti. Laggiù, mimetizzata tra l’erba, si muove sinuosa una tigre dai denti a sciabola. Fiuta l’aria, alla ricerca di una preda da attaccare con un balzo felino. Deve condividere il suo territorio di caccia con altri predatori. Da queste parti, infatti, si aggirano anche grandi esemplari di leone delle caverne primitivo

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