Rumenta
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Anteprima del libro
Rumenta - Sergio Cardone
Fragile
RUMENTA
Storia in cinque parti
PARTE I
Roma, marzo 2010
Mauro e Stefano erano di nuovo insieme dopo oltre vent’anni. Non si erano più visti da quando Mauro se n’era andato via dal condominio di via De Andrade a Sestri Ponente, per inseguire chissà quale idea di futuro. Ora Stefano guidava per le strade di Roma la vecchia Ritmo che mostrava incipienti segnali di stanchezza di sopravvivere. Parlavano. Altre volte, a tratti, tacevano.
Le strade erano bagnate. Ripetuti scrosci di pioggia non avevano dato all’aria sciroccosa di quella notte di marzo il tempo di asciugare l’asfalto bluastro. Per via della Conciliazione i sampietrini brillavano di luce catturata chissà dove.
Era una notte di quelle in cui ci si racconta.
Come in certi film.
Si erano incontrati per caso alla stazione Tiburtina.
Stefano aveva appena finito di lavorare e, ancora in divisa da ferroviere, stava per tornare a casa. Mauro invece voleva prendere un treno e andare al suo paese. Aveva suonato in un paese vicino Roma e adesso voleva andare a trovare i suoi. Ma non poteva presentarsi alle tre di notte. E poi non c’erano treni che proseguissero oltre Tivoli prima delle sei. Decisero che avrebbero passato la notte insieme in giro per Roma. Almeno fino alle sei.
Genova, marzo 1981
Stefano era partito per Genova ai primi di marzo del 1981. Una notte, con un treno lungo lungo che puzzava di varecchina, di ferrovie bulgare. Aveva vinto un concorso da conduttore, cioè da bigliettaio, delle ferrovie e, nonostante a Roma avesse un lavoro, aveva deciso di andarsene. Aveva ventun anni e aveva perso sua madre l’anno prima. Suo padre non c’era più da molti anni, perciò aveva deciso di andarsene e se n’era andato. Il treno che lo portava via bucò la notte tra le distese di girasoli addormentati che, quasi ininterrotte, affiancavano la linea tirrenica fin nei pressi di Livorno, passò le gallerie tra Calafuria e l’Ardenza, la pineta di Migliarino, la Versilia e la Lunigiana fino a La Spezia e poi percorse la galleria quasi ininterrotta della linea accidentata della riviera di levante. Ogni tanto un tratto di linea fuori dalla galleria gli lasciava intravedere spezzoni di paesaggio nel buio rischiarato da una bella luna quasi piena. Ed erano promesse di paesaggi fantastici. Che i pescatori non perdono tempo ad inventarsi le case. Le costruiscono dove trovano un po' di spazio, tra i pini, i cipressi, le ginestre, il lentisco e l’erica. Poi ci vivono poco. Perlopiù stanno in mare. Non hanno tempo o energie da spenderci sopra. E allora se vogliono metterci uno stucco, una lesena sulla facciata, ce li dipingono. Costa meno e si fa prima.
Sbarcò su un marciapiede di Genova Principe alle sei meno venti. Aveva fame di Genova. Voleva andare in via del Campo e baciare per terra. Lì un giorno, certamente, era passato Fabrizio.
C’era stato solo una volta a Genova, quasi due anni prima, con l’autostop. Andava a Torino ad un concerto di un gruppo inglese, i Jethro Tull. Allora aveva appena diciannove anni ed aveva faticato molto a convincere sua madre a lasciarlo andare. Le aveva detto che avrebbe preso il treno ma poi, per risparmiare, aveva fatto l’autostop. Una macchina lo aveva fatto scendere sull’autostrada dalle parti di Rivarolo. Aveva disceso un erto pendio pieno di rovi, ruzzolando anche per un buon tratto prima di arrivare in una strada, a Rivarolo. Quella parte di Genova gli era sembrato un posto piuttosto insolito. Casermoni popolari e diverse persone, soprattutto donne anziane, sedute in strada con sedie di paglia proprio come nei paesi. Poi aveva preso l’autobus, il 10 se non ricordava male, ed era andato a Principe da dove avrebbe proseguito il viaggio col treno. In attesa del treno per Torino aveva disceso via Andrea Doria ed improvvisamente gli era apparsa la Stazione Marittima e le grandi navi, i transatlantici che avevano portato centinaia di migliaia di italiani a cercare fortuna oltreoceano. Che a quell’epoca i viaggi in aereo erano per pochi e tra quei pochi non c’erano emigranti. Poi aveva preso il treno per Torino, via da Genova, via dalla voglia di mare. Che da bambino, quando abitava a Ostia, aveva sempre sognato di fare il marinaio, guardare l’onda di spuma che la prua sollevava quando si metteva al timone del barcone di Quirino, padre del suo amico Paolo, la Cleopatra
, il barcone che faceva fare un giro al largo ai bambini per cinquanta lire, cento lire gli adulti.
Adesso però poteva vederla davvero, Genova. C’era del tempo.
Scendendo in via Prè per primi vide i mucchi di rumenta. La mondezza si dice a Roma, l’immondizia nel resto d’Italia.
Accanto ai cassonetti ricolmi oltre il lecito di rumenta stantia il cui odore lasciava intuire piuttosto datato l’ultimo intervento degli automezzi comunali, facevano bella mostra di sé dei cartelli con su scritto DERATTIZZAZIONE IN CORSO. ATTENTI ALLE ESCHE
.
Era evidente che quei cartelli erano stati messi lì per quegli imbecilli degli umani ché i sorci avrebbero sicuramente preferito la rumenta fermentata.
C’è bisogno di un altro cartello che avvisi i ratti che le esche sono lì per loro e dunque, che diamine, se ne cibassero, pensò. Non gli ci volle molto a valutare l’esito di quella singolare campagna contro i topi. All’imbocco di via Prè un topone grosso come un coniglio rosicava placidamente avanzi proprio in mezzo alla strada.
Quella parte della città aveva appena smobilitato i baracconi della notte. Abbondanti resti testimoniavano banchetti e libagioni di ogni genere.
Stefano entrò in un bar. Aveva la bocca cattiva di sonno e sigarette e di treno di notte. Ordinò un cappuccino. Aveva anche fame ma non vide cornetti o paste dolci. C’erano invece dei pezzi di pizza bianca fumante ben disposti in un vassoio da un lato del bancone.
- Potrei avere un pezzo di pizza bianca? - Chiese al barista.
Quello finse di non capire.
- Quale pizza bianca? - Domandò cantilenando la dolce parlata genovese.
- Quella lì. - Stefano indicò il vassoio.
- Non è mica pizza bianca questa. A l’è a fugassa.
- Non fa niente se si chiama fugassa o focaccia o in qualunque altro modo. Me ne dia un pezzo, per favore.
Mangiò la pizza bianca, anzi la focaccia o come cavolo si chiamava quella specie di pizza, con voracità, trovandola buona quanto insolita, con la sua spugnosa oleosità, poi si avviò verso la stazione di Brignole dove c’era il Deposito Personale Viaggiante. Il suo posto di lavoro. Gli veniva un po’ da ridere a sentire questa storia del Deposito di Personale. Viaggiante poi. Bah, mai sentito di personale in deposito. Viaggiante, poi.
Quella mattina Stefano ebbe modo di sbrigare le formalità riguardanti il suo nuovo lavoro, ricevette persino l’ambita tessera effe
, un cartoncino rosa che consentiva di viaggiare in seconda classe su tutti i treni d’Italia. Tranne i rapidi, per quelli doveva consumare un bollino, dodici ogni anno e pagare il supplemento di prima classe per posare il culo sui velluti azzurrati delle carrozze per i ricchi. Poi si mise alla ricerca di un posto dove dormire.
Trovò una stanza in vico Damiata, zona piazza Cavour, proprio nei pressi di Caricamento, il vecchio porto di Genova. Era in un appartamento di un vecchio e umido palazzo alla fine di un carruggio che finiva con un muro. Dall’altro lato c’era il porto. In un’altra stanza dormiva un impiegato postale di Reggio Calabria. Poi c’era la stanza della padrona di casa, la Michelina, una vecchietta originaria di Torre Annunziata che ora, dopo una vita in quel vicolo adiacente il porto di Genova, parlava genovese stretto. Completavano l’alloggio il bagno e la cucina. Dalla finestra si vedevano le navi, anzi si sentivano le sirene delle navi, che in realtà se ne potevano vedere solo gli alberi.
Strano posto per uno che deve stare sui i treni. E se la mattina sbaglio e vado a mettermi al timone di un cargo battente bandiera liberiana? O panamense? Chissà quale bandiera è meglio.
Andare ai cocktails con la pistola non ne posso più
. Gli sembrò quella l’atmosfera quando, un paio di anni dopo, ascoltò Panama
, la canzone di Fossati.
Nei giorni successivi conobbe Larossa. Si chiamava Rossella ma lui preferiva chiamarla in quell’altro modo. Rosso Ferrari, pensava.
Lei aveva diciannove anni, era mora, mediterranea, mamma di Salerno scura e ciarliera come lei, papà genovese, silenzioso, educato un po’ in minoranza in famiglia dove la nonna salernitana dettava legge col suo accento campano appena imborotalcato da anni di Genova. Abitavano alla Foce in una casa che gli ricordava le case romane di Prati o di Piazza Vittorio. Un corridoio lungo e tante stanze di qua e di là.
Uscivano insieme. Lei aveva ogni volta un vestito nuovo che le aveva cucito la nonna. Quanto cazzo cuce, ‘sta nonna. Erano vestiti lunghi, con lo spacco da un lato come si usava. Larossa teneva i lembi dello spacco per non mostrare il bordo delle mutande ché la nonna aveva lo spacco generoso. Lui gli tirava pizzicotti sulla mano quando lei cercava di rendere meno esplicita la finestra sulla coscia tenendo uniti i lembi del vestito. Che cavolo te li fai a fare i vestiti con lo spacco quando ti vergogni di mostrare la coscia. Hai le gambe belle. Lascia che si vedano.
Belan
diceva Larossa per non dire belin
, che per le ragazze genovesi era volgare. Stefano aveva imparato subito a dire belin
come fanno gli uomini. Lei gli presentava ogni tanto delle sue amiche che lo chiamavano bel romano
cosa che a lui non dispiaceva affatto. Anche se da molto tempo sapeva di piacere alle ragazze, al naturale e, forse di più, quando le sue dita finivano in qualche modo dove incominciava una chitarra. Oddio lui sapeva di non essere un fenomeno con quello strumento a corde ma le ragazze non se ne accorgevano. O facevano finta di non accorgersene.
Stefano tornava a Roma ogni tanto. Più che altro per Mauro. Suonavano insieme d’estate.
Un duo chitarristico di cantautori con un proprio repertorio di ballate e canzoni e qualche cover di Fabrizio. Al massimo di Guccini. A Mauro piacevano anche Lolli e De Gregori, e Giorgi, l’altro non li sopportava. Stefano amava anche il rock, il jazz, meglio se mischiati insieme come avevano provato a fare qualche anno prima i Soft Machine, i Weather Report o Miles Davis. Quei tre cantautori là gli sembravano insulsi. Tre cretini di intellettuali che scrivono cose che sembrano fatte apposta per non essere capite. Soprattutto dai destinatari del messaggio. Per lui quella era la quintessenza dell’arte borghese. Discutevano spesso, anche animatamente, ognuno a difendere i propri gusti musicali, a volte anche i disgusti.
Mauro aveva diciotto anni, tre meno di Stefano e si era appena diplomato all’ITIS. Studiava chitarra classica con un maestro privato e suonava con naturale abilità, e adesso pensava di iscriversi al DAMS. Teneva a sua volta lezioni di chitarra a un paio di ragazzini di Sambuci, il paese d’origine dei suoi, un paesino di settecento abitanti arroccato su un cocuzzolo, a destra dell’autostrada e della ferrovia per l’Abruzzo, poco oltre Tivoli. Ci andava ogni mercoledì per quelle lezioni, prendeva il treno dalla stazione di Roma Tiburtina, fino a quella di Mandela-Sambuci, poi raggiungeva il paese con l’autobus.
Stefano invece era quasi del tutto autodidatta. Aveva imparato i primi accordi da un suo amico d’infanzia che andava a lezione da un maestro. Si sentiva però più cantante che chitarrista e, comunque, usava lo strumento come accompagnamento della voce.
Quasi ogni estate Stefano e Mauro soggiornavano per un mesetto nella casa della famiglia di Mauro nel borgo seicentesco di Sambuci. Erano spesso invitati a suonare alle Feste dell’Unità del circondario. San Vito, Subiaco, Castel Madama, Vicovaro, Roviano, Anticoli, quest’ultimo paese un tempo famoso per la bellezza delle donne dato che i pittori manieristi andavano spesso a scegliersi le modelle in quel centro. Si diceva fosse passato