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La Terra Oscura
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E-book404 pagine6 ore

La Terra Oscura

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Info su questo ebook

Al calar della notte d'inverno, quando l'Oscurità scende, le fredde dita del gelo afferrano e uccidono.
LinguaItaliano
Data di uscita16 set 2016
ISBN9788868622930
La Terra Oscura

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    Anteprima del libro

    La Terra Oscura - Ursula Le Guin

    Parte Prima

    Vengono dall'Ombra

    mortalmente seducenti,

    sinistramente familiari;

    morti e mai-vivi insieme

    vagano per le terre degli Uomini.

    O sono io che vago nelle Terre d'Ombra

    in cerca di comprensione,

    in cerca di fratellanza,

    nostalgico del soffio della Morte

    il cui respiro porta il Silenzio.

    Vengono dall'Ombra

    vengono per restare.

    Mortalmente seducenti,

    morti e mai-vivi insieme

    e io, un giorno, mi unirò a loro.

    1

    Thydra si svegliò di soprassalto, madida di sudore.

    Si mise seduta, ansimante, lo sguardo vitreo rivolto alla spoglia parete di fronte. La sottoveste di lino bianco era fastidiosamente appiccicata al corpo, mentre ciocche ricciute di capelli color della notte disegnavano spirali irregolari sulla fronte umida. Per lungo tempo rimase così, con le coperte strette al petto e il rumore sibilante del suo respiro a fare da controcanto ai richiami degli insetti e degli uccelli notturni.

    Il sogno era stato così vivido, così reale, stavolta.

    Sottili lame di luce lunare filtravano attraverso gli scuroni, andando a tingere tenuemente d'indaco il centro della stanza.

    Lo sguardo le cadde sul piccolo tavolo di legno su cui erano sparsi alcuni fogli di pergamena arrotolati e diversi libri, l'ultima parte del suo lavoro.

    La ricerca era finita, il tempo degli esperimenti terminato. Il sogno le aveva mostrato chiaramente il suo prossimo compito.

    Le immagini della Strega di Rubino non si erano ancora dissolte mentre Thydra si liberava delle coperte per scivolare fuori dal letto, ed erano loro a confortarla un poco. La dea, la sua Signora, stavolta non era venuta da sola. Le visioni erano state terribili, difficili da comprendere, ancor più da giustificare. Non era stata Sjl Sabaa a parlarle, a mostrargliele. La sua Signora agiva diversamente, ma lei, la sovrana dei regni inferi, era diversa.

    Thydra si mise in piedi accanto al letto e rabbrividì. L'aria era fredda, ma lei non era certa fosse quello il motivo del suo tremore. Nella semi oscurità della sua stanza prese a lisciare nervosamente invisibili pieghe della sottoveste con mani malferme.

    Poco dopo aver preso sonno Sjl Sabaa le era apparsa, maestosa e austera, l'aveva presa per mano e condotta attraverso una foresta antica e intricata. Le aveva parlato, durante la strada, ma lei non era stata in grado in capire. Poi la foresta era scomparsa e Thydra si era ritrovata sola, immersa in uno spazio nero e senza fine. Non c'era nulla, nemmeno sotto i suoi piedi, e il vuoto era sembrato durare in eterno ed estendersi all'infinito. Nessuno rispondeva ai suoi richiami, alle sue domande: sarebbe rimasta lì per sempre.

    Thydra si impose di calmarsi. Si avvicinò a una parete, recuperò una sopraveste foderata con pelo di coniglio grigio e vi si avvolse con un gesto fluido e aggraziato. I suoi occhi si erano abituati alla scarsa luce della luna e grazie ai risultati dei suoi esperimenti poteva vedere quasi come in pieno giorno. Senza faticare trovò i legacci e assicurò l'indumento attorno al collo con un piccolo nodo. I tremori si calmarono, ma impercettibili bagliori cremisi continuavano a danzarle di fonte agli occhi, riportandola con la memoria al suo sogno.

    Nel nulla senza fine in cui si trovava, quando vide la luce, Thydra l'accolse con gioia. Prima fu un debole bagliore, come di un'alba lontana, poi divenne sempre più intensa, viva, rossa.

    Lo spazio vuoto si tinse di cremisi e grandi sagome apparvero intorno a lei, ai limiti del campo visivo. Un vapore denso si levò ovunque, strisciando pigramente attorno alle sue caviglie come un serpente in cerca di prede.

    Nonostante tutto il mondo aveva ripreso una sorta di consistenza e questo la spinse a muovere qualche passo incerto in avanti. Di nuovo chiamò, e questa volta una voce rispose, una voce terribile, che non avrebbe mai dimenticato e che inconsciamente aveva riconosciuto al di là di ogni dubbio.

    La voce le ordinò di avanzare, e non ammetteva indugi. Così Thydra si mosse nella nebbia e nella luce purpurea, avanti, senza meta, le forme indecifrabili accanto a lei che sembravano mutare al ritmo dei suoi passi. Il suo percorso cieco era accompagnato dalla spiacevole sensazione della nebbia che le solleticava le gambe, solida, concreta, viscida. Spirali di vapore le risalivano insidiose lungo le caviglie, su per il polpaccio, attorno alle ginocchia. Non aveva il coraggio di guardare in basso, temeva ciò che avrebbe potuto vedere. Poi i tentacoli eterei strinsero, strattonarono, affondarono nella pelle morbida e Thydra urlò di dolore. Una risata di scherno e soddisfazione si diffuse ovunque in risposta alle sue grida. Si ritrovò distesa su un suolo freddo e duro, con le tempie che le pulsavano violentemente.

    La voce parlò di nuovo, le ordinava di alzare la testa.

    Thydra provò, incapace di opporsi, ma era come schiacciata al suolo da un peso enorme che le rendeva difficile persino respirare. Riuscì appena a sollevare il viso ma ricadde sconfitta dopo un istante. La risata divenne più acuta, più alta, si mutò in un rumore assordante e infine cessò. Qualcosa le si attorcigliò ai capelli e la strattonò violentemente all'indietro, costringendola ad alzare il capo.

    Di fronte a lei la sagoma confusa di un trono si stagliava oltre il tappeto di nebbia, sullo sfondo purpureo di quel luogo terribile.

    Lo scranno era enorme, alto quanto una torre, e sembrava vibrare, muoversi, pulsare. Qualcosa di sinuoso strisciava lungo la sua superficie. Assisa sul trono c'era lei.

    Non riusciva a scorgerne i tratti, non le era permesso. Non ne era degna. Un terrore incontrollabile pervase ogni fibra del suo corpo e quando si sentì sollevare come una bambola di pezza e trascinare impotente verso il trono, la paura divenne panico. Era la pecora condotta al macello, lei avrebbe fatto ciò che voleva.

    Al solo ricordo Thydra ricominciò a tremare. Si strinse nella sopraveste, raggiunse un piccolo catino di ceramica bianca pieno d'acqua e vi immerse la testa, incurante del gelo. Rimase ferma finché non le mancò il respiro. Le serviva quell'acqua, doveva lavarsi, si sentiva così sporca...

    Nemmeno mentre le propaggini di nebbia la tenevano sollevata riuscì a scorgere le sembianze dell'entità che le stava di fronte.

    I suoi sensi erano confusi, solo della propria paura era certa.

    Ho bisogno di te, le disse la voce. Era un'affermazione, ma suonava come un ordine. Guarda!

    Fu allora che in quel sogno che le sembrava così sinistramente reale, dita di vapore umido e ghiacciato le spalancarono gli occhi, rendendole impossibile persino battere le ciglia. Cercò di divincolarsi ma riusciva a malapena a respirare ed era certa che se lei avesse voluto, avrebbe potuto strapparle i polmoni con un semplice pensiero.

    Il trono scomparve, il rosso del mondo scomparve. In qualche modo tutto attorno a lei sembrò tornare normale. Era di nuovo nella foresta ma la sua Signora Sjl Sabaa non era più con lei ed era ancora trattenuta da quella bruma innaturale. Le grida cominciarono dopo alcuni istanti.

    Un gruppo di creature arrancò di fronte a lei. Erano neeshay, con i grandi occhi, le teste allungate all'indietro e gli abiti eleganti. Stavano morendo. Strisciavano sul terreno in cerca della salvezza, contorcendosi nel dolore, gridando e invocando la pietà di Aphiel. Ma il Creatore di tutti i neeshay li ignorò, limitandosi a osservare le loro sofferenze. Ne giunsero altri, e altri ancora, e non ne sopravvisse nemmeno uno. Poi fu la volta dei nani e la grande foresta divenne simile a un campo di battaglia su cui non giacevano lame né stendardi.

    La nebbia la sollevò e la portò lontano, attraverso gli alberi, oltre la foresta, verso monti distanti, dentro la roccia, lungo coste ghiacciate. Ovunque Thydra vide creature miserande cedere alla morte dopo infiniti spasmi d'agonia, le loro grida di dolore la raggiungevano dappertutto e le risuonavano in testa anche adesso che era sveglia.

    Quando l'ecatombe finì Thydra venne ricondotta nel mondo cremisi, in ginocchio ai piedi del trono. La nebbia la liberò e lei alzò la testa. La sua Signora era in piedi a poca distanza e lei era ancora assisa sul grande soglio, una figura indistinta e terribile che sembrava occupare ogni spazio. Sjl Sabaa le parlò.

    La Madre ti ha scelto. Per suo desiderio io ho condotto i tuoi passi fino a questo punto del cammino, ora devi compiere ciò per cui ti ho preparata, devi compiere la volontà della Madre.

    La volontà della Madre, rifletté amaramente, sollevando il viso dall'acqua ghiacciata.

    Si asciugò con un panno pulito. Andò verso la finestra e la spalancò, lasciando che l'aria fredda della notte riempisse la stanza e la purificasse. Fuori il mondo era ancora addormentato, silenzioso, illuminato da una grande e placida luna piena.

    Il piccolo villaggio di Eythetiahill si sarebbe destato solo tra qualche ora, con l'arrivo del flebile sole di tardo inverno.

    Thydra aveva iniziato il suo noviziato da quasi cinque anni ed era riuscita ad avere notti tranquille solo all'inizio, per una o due settimane. Poi erano arrivati i sogni. Qualunque sacerdotessa sarebbe stata più preparata di lei, persino molte delle novizie. Perché non erano state scelte loro?

    Aveva smesso di cercare quella risposta da molto tempo, accettando passivamente la volontà della sua Signora. Molti chierici passavano l'intera esistenza pregando senza mai udire la voce degli dei. Tra il popolo era normale che le suppliche venissero disattese. Nemmeno la tanto decantata bontà di Fýndajn era sufficiente a farlo scomodare per rispondere alle preghiere dei contadini. Ma la Strega di Rubino le parlava, le veniva in sogno e la istruiva, assegnandole dei compiti. All'inizio si era spaventata, ora si coricava con la speranza che la notte non passasse senza lasciarle il ricordo di una nuova visita.

    Eppure quelle immagini erano state così... non sapeva come definirle senza offendere lei, per cui cancellò quel pensiero. La stretta allo stomaco tuttavia rimase. Per tutti quegli anni aveva eseguito senza chiedere, e nulla le era stato spiegato. Era dunque a quello che sarebbero servite le sue ricerche?

    Aveva ottenuto innumerevoli vantaggi dagli esperimenti. La sua vista si era acuita, il suo potere accresciuto, le sue conoscenze aumentate, la vecchiaia allontanata per sempre. Si era illusa di essere una sorta di Prescelta, mentre ora si rendeva conto di essere solo uno strumento. Le stava bene. In fondo aveva scelto lei di servire e quel cammino l'avrebbe condotta lontano. Solo non immaginava che i risultati del suo lavoro sarebbero serviti ad altro, a qualcosa di così... difficile da accettare. Il sacrificio di qualche creatura sarebbe stato un giusto prezzo se fosse servito alla Sua gloria, ma quello...

    Ora devi compiere ciò per cui ti ho preparata. Le parole della sua Signora Sjl Sabaa tornavano in continuazione, e ogni volta il loro significato diventava più chiaro e sinistro. Sapeva perfettamente cosa doveva fare, lo sapeva da molto tempo, ammise, ma ora che il momento era giunto, ora che lo scopo era palese, si sentiva inquieta.

    Eppure il sogno non lasciava spazio ai tentennamenti.

    La grande figura assisa sul trono svanì, lo scranno mutò, tornando a dimensioni normali. La sua Signora la prese per mano e la fece sedere. Ora tutti sarebbero venuti a renderle omaggio, aveva pensato. Ma non venne nessuno. Thydra si volse dubbiosa verso la sua dea, ma questa non rispose.

    Infine qualcuno si presentò. Giunse una donna, una contadina vestita di panno. Aveva la carnagione scura, i capelli color del mogano raccolti in una lunga treccia.

    Qualcosa nei suoi tratti le fu subito familiare. Una shywarita. Discendente del popolo che mille anni prima osò insultare la Signora degli inferi permettendo che il suo araldo terreno venisse esiliato. Dovette riconoscerlo, che scherzo crudele sarebbe stato affidare tutto a qualcuno con sangue doelita! Ma la donna aveva sangue shywarita nelle vene, un sangue antico e raro che lei aveva scelto per il suo scopo. Il popolo di Shywar le apparteneva ancora e quella sarebbe stata assieme una vendetta e una punizione. Assisa sul trono Thydra si guardò per un momento le dita bianche e affusolate, si passò una mano tra i folti e morbidi capelli neri tagliati corti. In effetti c'era un'ironia sottile anche in quella scelta. Tra gli antichi shywariti soltanto il volgo aveva i tratti di quella donna, e così le migliaia di soldati di umili origini che avrebbero dovuto proteggere Dhul Shagrath e avevano fallito nel loro compito. Sacerdoti, re e regine invece conservavano il pallore della pelle come un segno distintivo, evitando di mischiare il loro sangue puro. Le piaceva pensare di avere antenati tra coloro che comandavano un tempo nel lontano occidente. Sbuffò divertita.

    Forse era per quello che in mezzo a tante novizie dai capelli biondi o rossi tipici dei discendenti della stirpe di Doel, la sua Signora aveva chiamato proprio lei. Perché anche lei apparteneva al popolo di Shywar, e per quello, anche se le cronache attribuivano la vittoria nelle Guerre di Distruzione agli shywariti, aveva ereditato la sua parte di colpa per l'esilio dello stregone. E tuttavia rimaneva un membro del suo popolo, destinato a nuova gloria, e aveva compiti troppo importanti per poter essere sacrificata. La donna dalla lunga treccia avrebbe pagato per tutti, poi sarebbe toccato ai doelisi. Quella ancestrale vittoria era costata a Shywar un prezzo troppo alto. Non era rimasto nulla su cui regnare dopo le Guerre di Distruzione. La gente di Doel doveva ancora saldare buona parte di quel debito. Alla Madre non importava dove fossero fuggiti i pochi superstiti.

    Era accaduto in un tempo lontano, centinaia di miglia oltre i monti Varidian, in un luogo remoto e in una guerra ormai dimenticata. Ma la sua rabbia non ha confini, né limiti e persino Sjl Sabaa si era piegata alla sua volontà ora che il tempo era giunto. A conferma dei suoi pensieri la parola vendetta aleggiò intorno a Thydra, pronunciata con rabbia dalla voce.

    La donna di fronte a lei era gravida, prossima al parto, avrebbe sofferto. Il suo bambino l'avrebbe condotta alla rovina perché a lei serviva un capro espiatorio per punire chi aveva fallito, qualcuno su cui sfogare la sua rabbia. Eppure il piccolo doveva vivere. Sarebbe divenuto la chiave perché tutto ciò che era stato mostrato a Thydra si verificasse, perché il lavoro svolto per la sua Signora e – ora lo sapeva – per la Madre, venisse premiato, perché l'ira di lei venisse placata. E perché quel trono su cui era seduta divenisse davvero suo, un giorno.

    Thydra tornò ad affacciarsi alla finestra. Si appoggiò con le mani al telaio di legno e inspirò profondamente. Era giunto il momento di raccogliere i frutti del suo lavoro, per la gloria della sua Signora, Sjl Sabaa, la Strega di Rubino, la dea della Morte e della Magia, e dell'antica e terribile sua madre, Hel, padrona di Hellirinn, il gelido regno degli inferi. Il prezzo, comprese, questa volta sarebbe stato pagato solamente dai responsabili. Quella consapevolezza scacciò da lei gli ultimi dubbi.

    Si voltò rinfrancata e si cambiò in fretta, carica di rinnovata determinazione. Doveva partire prima del sorgere del sole. Indossò un vestito di semplice panno, si avvolse in un mantello di lana verde e bevve un sorso d'acqua. Si avvicinò al tavolo e afferrò un piccolo sacchetto di stoffa che teneva chiuso dentro un cofanetto di cui portava la chiave appesa al collo, sotto al pendente d'argento triangolare con le mezze lune affrontate, simbolo di Sjl Sabaa. Accanto alla piccola scatola un libro era rimasto aperto. Sui fogli di pergamena gli appunti della sera prima, scritti accanto a frasi che fino a quel momento non era riuscita a comprendere, e che ora le sembravano lampanti. Fece scorrere un dito sulla pagina, indugiando qualche istante, poi richiuse il testo. Minuscoli granelli di polvere bianca brillarono nell'aria attraversando un raggio di luce lunare. Sulla copertina di cuoio il titolo dell'antico tomo era inciso in caratteri dorati: L'iniziazione di Midrielynn, figlio degli dei. Thydra rise senza allegria. Era tutto così chiaro adesso. Drammatico, spaventoso, ma chiaro.

    Afferrò una piccola sacca e un bastone da passeggio e uscì nel fresco della notte. Non sapeva quale sarebbe stata la sua meta, l'avrebbe scoperto durante il cammino.

    Nonostante una rinnovata convinzione si fosse fatta largo nella sua coscienza, Thydra si avviò lungo il sentiero con passo impacciato, le gambe rese rigide dalla paura e dai sensi di colpa.

    ***

    Le grida di Bera risuonarono alte nella campagna circostante al villaggio per centinaia di passi. Accanto a lei Vilbjörn inumidiva un panno per detergerle la fronte. Sua moglie stava decisamente troppo male, persino per una donna in procinto di dare alla luce un bambino. Non che lui avesse mai visto una donna negli istanti precedenti al parto. I cervi, quelli sì, gli era capitato. Cani, capre, maiali, ma donne mai. Dov'era la dannata levatrice?

    Il cacciatore scostò delicatamente la lunga treccia di Bera e le passò il panno bagnato sul collo. Lei parve calmarsi leggermente, il dolore le concesse una tregua e il respiro tornò regolare. Vilbjörn le deterse la fronte sudata. Aveva paura che potesse accadere di nuovo, che gli dei lo privassero ancora una volta della gioia di poter crescere un figlio, lasciandolo solo con la sofferenza di Bera per la perdita subita.

    Sua moglie gli strinse violentemente la mano e le grida ricominciarono. Vilbjörn rivolse lo sguardo al soffitto. Se la levatrice non si fosse presentata immediatamente quello sarebbe stato il suo ultimo ritardo, che gli dei lo fulminassero se non l'avrebbe strozzata con le sue mani.

    Il cielo dovette avere pietà della giovane donna, pensò il cacciatore maledicendola, perché la porta si aprì poco dopo.

    Una ragazza dai corti capelli corvini si precipitò verso il letto di Bera. Aveva la pelle molto chiara e i lineamenti delicati. Nel complesso il viso somigliava a quello di una bambola di porcellana. Era freddo e perfetto.

    La giovane si liberò della sacca che aveva in spalla, del semplice mantello di panno verde e del bastone da passeggio. Abbandonò tutto sul pavimento di legno scuro e prese a osservare meticolosamente Bera. Le poggiò una mano sulla fronte, le spalancò gli occhi e le controllò la bocca.

    «Guarda che non lo troverai lì, il bambino.» Vilbjörn faticava a controllare la propria impazienza. «Si può sapere dove sei stata? Non sei troppo giovane? Sei sicura di sapere quello che stai facendo?»

    La giovane donna lo guardò senza dire nulla, inespressiva, poi tornò a occuparsi di Bera. Vilbjörn ebbe di nuovo l'impulso di strangolarla.

    «Lasciaci sole.» La levatrice gli si rivolse con un filo di voce, eppure, osservando il suo viso, Vilbjörn non poté far altro che restituirle un impacciato cenno di assenso, lasciare la mano di Bera e uscire con passo meccanico dalla stanza. Pregò nuovamente gli dei perché questa volta il bambino vivesse.

    Accanto a Bera, nella penombra della stanza, Thydra rivolse a Sjl Sabaa la stessa preghiera.

    La donna stava male, aveva la febbre alta, e il bambino sarebbe già dovuto essere nato. C'era il rischio concreto che lei morisse, o peggio, che il bambino morisse. Thydra frugò frettolosamente nella propria sacca, scartando gli oggetti fino a che la sua mano si strinse attorno al sacchetto di stoffa che aveva preparato così meticolosamente. Quel sacchetto conteneva il risultato di anni di studi e ricerche, la chiave del suo futuro e della volontà di due dee. Se il bambino fosse morto tutto sarebbe stato vano, e Thydra temeva che ne avrebbe potuto condividere la sorte.

    «Ti darò una mistura di erbe. Indurrà il bambino a nascere» disse a Bera. E creerà un nuovo mondo, per la gloria della Strega di Rubino e la vendetta della Signora di Hellirinn. E per me.

    Bera scosse freneticamente il capo per acconsentire e masticò la mistura quasi con rabbia. Era amara, ma non le importava. Avrebbe mandato giù qualsiasi cosa pur di far cessare il dolore.

    La mistura scese rapidamente lungo la gola e si fece largo nel suo corpo, animata dalla volontà nera che Thydra le aveva infuso. Raggiunse lo stomaco, e poi si diffuse alla ricerca della sua meta. Ramificandosi esplorò ogni angolo, contaminando, corrompendo, finché giunse al bambino. Invase la piccola creatura fino a colmarla, cambiandone per il sempre il destino, chiudendo un cerchio disegnato più di mille anni prima.

    Pochi istanti dopo aver deglutito Bera si sentì come se qualcuno la pugnalasse al ventre. Il dolore divenne così acuto da risultare insopportabile. Gridò, e se tutti, nel villaggio, non fossero stati al corrente della sua condizione, di certo sarebbero accorsi in suo aiuto. Vilbjörn spalancò la porta, il viso stravolto dalla tensione.

    «Bera!» gridò.

    «Vai fuori!» gli intimò Thydra abbandonando per un attimo la precedente compostezza. Questo momento non è tuo, pensò. È mio, mio soltanto! Con riluttanza Vilbjörn obbedì.

    Piccoli piedi. Dannazione, rifletté Thydra, il bambino si è girato. Thydra non era una levatrice ma sapeva bene che se un bambino mostrava prima i piedi era perché gli dei lo stavano trattenendo per le braccia. Sapevano, e non volevano che nascesse. Non certo la Madre, né Sjl Sabaa, ma ce n'erano altri. Eppure quel bambino doveva nascere. La sua Signora lo voleva, lei lo voleva, e nessun altro si sarebbe intromesso. Thydra afferrò delicatamente i piedini del nascituro.

    «Vedo la testa, ci siamo» mentì.

    Rinfrancata dalla bugia, Bera trovò la forza di sorridere.

    La mistura fece il suo dovere e il bambino nacque. Thydra lo tenne con sé per un istante prima di rendersi conto che aveva le labbra violacee e non respirava. Una paura atavica la pervase. No! Non può andare così! Vivi! Mia Signora fa che viva. Hel, sbarra del porte di Hellirinn a questo bambino!

    Le sue preghiere vennero ascoltate e il bambino si mosse, producendo un flebile vagito.

    Thydra rise di gioia e porse lentamente il bambino a Bera, che lo tenne vicino al viso e pianse. Col passare dei minuti i vagiti del piccolo crebbero d'intensità e richiamarono all'interno Vilbjörn.

    Il grosso cacciatore dalla barba fulva si affacciò timidamente sull'uscio e solo quando vide il fagottino sul petto di Bera si fece avanti.

    «Sono padre!» gridò, volgendosi verso l'esterno. Rudi esclamazioni di gioia giunsero alte in risposta da uomini che dovevano essere rimasti là fuori per tutto il tempo. Con passo incerto e rigido Vilbjörn si avvicinò a sua moglie. Le accarezzò la fronte e la baciò, poi fece lo stesso con suo figlio. Scostò leggermente il panno che lo copriva e tornò a gridare rivolto al suo pubblico.

    «È un maschio!» I complimenti e le acclamazioni divennero ancora più rumorosi.

    Thydra si lavò con calma le mani, richiuse la sacca e indossò in silenzio il mantello di panno verde. Raccolse il bastone da passeggio e si avviò verso l'uscita.

    Vilbjörn le parlò, per la prima volta sorridendo.

    «Aspetta. Hai fatto nascere il mio bambino. Voglio darti qualcosa per ringraziarti. Ho ucciso un'oca questa mattina, bella grassa. Voglio che tu la prenda.»

    Thydra rispose senza nemmeno voltarsi. Non le servivano i regali d'un boscaiolo con sangue doelita nelle vene. Aveva la benevolenza della sua Signora. «Ho solo adempiuto al mio dovere» disse. Mentre si richiudeva la porta alle spalle si arrestò. Le venne in mente una cosa che quei due contadini avrebbero effettivamente potuto fare per lei. Le dee avrebbero apprezzato.

    Si voltò e si avvicinò al letto di Bera. Si sforzò di sorridere e prese delicatamente in braccio il neonato. Aveva la pelle olivastra, come sua madre. Come gli antichi shywariti del volgo, figlio di una contadina e di un boscaiolo. Meritava il ruolo che era stato scelto per lui.

    «Lasciate che vi suggerisca un nome» disse osservando il piccolo. «Chiamatelo Emild

    «Emild?» le fece eco Bera. «È un nome insolito» rifletté.

    «Non è un nome di queste terre» spiegò Thydra. «Significa toccato dagli dei». Un nome perfetto, pensò con soddisfazione.

    Vilbjörn tolse il piccolo a Bera e lo tenne alto davanti al viso.

    «Emild» ripeté, valutandone il suono. Guardò Bera, che gli restituì uno sguardo incerto, tra il sorridente e il preoccupato.

    «Diamine, e perché no! Chi sono io per oppormi alla volontà degli dei?» decise l'uomo. «Tu sarai Emild, figlio di Vilbjörn. Grazie ancora...» proseguì, rivolto alla levatrice, ma non trovò nessuno.

    Thydra era già uscita.

    ***

    Emild pensò seriamente di prendere a testate il muro. Uno, due colpi forti e il dolore alle tempie sarebbe svanito. Se avesse perso conoscenza forse sarebbe persino riuscito a riposare, finalmente. Nemmeno la ferita al braccio l'avrebbe più tormentato. Quando aveva cambiato le bende era stato assalito dallo sconforto. Nessun segno di rimarginazione, nemmeno un lieve miglioramento. La lacerazione aveva lo stesso aspetto marcescente di quando se l'era procurata, nello scontro con il dermørk. Il braccio sinistro era percorso da venature violacee, e il suo pallore era preoccupante.

    Di quel giorno aveva ricordi confusi, come di tutto il resto.

    Era uscito a caccia, la creatura l'aveva sorpreso al ritorno. Simile a un drago senz'ali, grande come un cavallo, maligno. Solo la visione dei suoi piccoli occhi gialli persisteva nitida nella sua mente. Da quel momento in poi aveva solo immagini confuse.

    Il nano – Brannor – e il mercante – Agreawir –, di loro si ricordava. L'avevano accompagnato fino a Minar. Quando si erano conosciuti? Una nuova fitta lo costrinse a piegarsi in due sul pavimento. Ogni volta che tentava di ricordare qualche particolare la sua testa sembra voler esplodere.

    Il dolore impiegò diversi minuti ad affievolirsi.

    La cosa più terribile erano le visioni. Ogni volta che il dolore tornava a fargli visita le visioni lo accompagnavano. Lo perseguitavano orde di mostri in parte umani e in parte demoni, con visi bianchi come la neve e orbite vuote aperte su abissi neri e infiniti. Con voci gracchianti e inumane lo insultavano, lo sfidavano, lo chiamavano. Lo temevano.

    In ciascuno di quegli incubi il mondo era ridotto a un simulacro grigio e bruciato di quello che conosceva. Nessuno era sopravvissuto alla furia dei demoni e un'ombra perenne gravava su tutte le terre.

    Emild allentò la presa sulle tempie e cercò di guardarsi attorno. Dove si trovava? La stanza era piccola, arredata con sobrietà, essenziale anche se non povera. Pensò che gli ricordasse la sua casa nei boschi del nord, ma quando tentò di figurarsela nella mente, si accorse di non riuscirci, e dovette accontentarsi della sensazione di familiarità. Il letto aveva una semplice struttura in legno intarsiato. C'erano una cassa, un tavolo rotondo e due sedie, una delle quali adagiata in terra. Sul tavolo alcune candele ormai spente erano colate in rivoli biancastri sulla bugia di metallo argentato, raggrumandosi sul legno.

    Una statuetta di castagno finemente scolpita era appoggiata a una mensola sulla parete. Raffigurava un guerriero col pugno sollevato verso il cielo. Kyrios. Sono nel tempio del dio della Forza.

    Le immagini lo travolsero, e con esse il dolore. Vide sé stesso per le strade della capitale, attorniato dai demoni dalla pelle candida. Erano state persone fino a poco tempo prima, ma a lui non importava. Volteggiava in mezzo a loro macellandoli uno dopo l'altro, senza posa, con piacere, in una danza frenetica che non faceva che aumentare la sua soddisfazione, morte dopo morte. Fino a quando era giunto all'incontro col suo obiettivo. Gli altri erano stati solo un intermezzo.

    Tjodalv era stato il suo nome. Era giunto a cavallo di un essere smisurato, Dryashkoort, sì, quello era l'appellativo della bestia. Tjodalv era più pericoloso degli altri demoni, più intelligente, ed era lì per sfidarlo. Ce n'erano altri come lui, lo sapeva. Quando era morto gli aveva mostrato frammenti di verità. Una fortezza nelle viscere della terra, un'enorme montagna di vetro nero, immagini del suo futuro. Silenoz – un altro nome emerso dalle profondità del suo spirito – era stato il primo ostacolo da abbattere. Ma due o mille non aveva importanza, li avrebbe uccisi tutti. Sarebbe stato lui a prevalere. Era una certezza che permaneva anche dopo che le visioni lo abbandonavano, quasi una necessità.

    Nomi e fatti si confusero. Un forte boato e l'immagine di Tjodalv che cadeva colpito da un sacerdote posero fine ai suoi ricordi. Fu di nuovo seduto accanto al letto, sul pavimento della piccola stanza. Come era giunto nel tempio di Kyrios?

    Qualcuno, fuori, gli parlò di cibo depositato davanti alla sua porta. La voce ripeté la richiesta di aprire due o tre volte, poi rinunciò. Emild ascoltò in silenzio il rumore dei passi che si allontanavano. Il solo pensiero del cibo gli diede il voltastomaco. Non ricordava l'ultima volta che aveva sentito il bisogno di bere o la voglia di mangiare qualcosa. Le visioni lo investirono di nuovo, in un turbine di sofferenza e immagini confuse. Urlò, non seppe dire quanto tempo passò prima che tornasse in sé. Quando si riebbe si accorse di avere vomitato. La benda sul braccio era intrisa di nuovo sangue scuro. Il liquido si era spanso lentamente sul pavimento, formando una chiazza da cui si levavano dense volute di fumo nero.

    2

    La notte era gelida e piena dell'odore del mare. I forti venti del nord sollevavano la salsedine dalla grande baia di Grojedot e la gettavano con violenza sui ripidi tetti d'ardesia nera delle case. Erano i semi dai quali sarebbe presto germogliato l'inverno.

    Ovunque, in quella notte di burrasca, si avvertiva l'aroma pungente del pesce e del sale. Le onde si abbattevano con impeto incessante sulle banchine del porto, spruzzando schiuma ghiacciata per decine di metri in ogni direzione. Se qualcuno avesse potuto ancora camminare da quelle parti, avrebbe giurato che stesse piovendo.

    Ma non c'era nessuno.

    Di tanto in tanto si avvertiva il rombo di un tuono, seguito dal bagliore violetto di un lampo, da qualche parte, dietro al muro vaporoso delle nuvole. Gli intervalli tra tuono e lampo diminuivano costantemente.

    Il cielo, pensò Alys, era simile alla sua gonna di peltro grigio quando era piena di mele rubate, pieno di bitorzoli che potevano riversare a terra il loro contenuto da un momento all'altro. La tempesta si muoveva verso la terraferma, e presto avrebbe piovuto davvero.

    Doveva trovare un rifugio. Non per la pioggia, non per i tuoni, no. Era per gli altri rumori, per le altre cose.

    La pioggia le piaceva, il vento e le bufere che spazzavano la baia anche quelli le piacevano. La facevano sentire pulita e libera. In un'altra occasione, in un'altra città, sarebbe rimasta a dormire all'aperto. Magari proprio al porto, nascosta fra due barili. Forse dentro un barile. Avrebbe sgranocchiato un po' di cibo trovato durante il giorno, spostando appena il coperchio per poter vedere uno spicchio di cielo solcato dai fulmini e ascoltare i rumori della notte. La tempesta, i marinai che si affannavano per mettere in sicurezza le navi, il fuggi fuggi delle persone che si affrettavano a rientrare nelle proprie case di legno e pietra, il rumore del vento che fischiava tra le banchine. Il clangore dell'insegna di legno e ferro battuto di una locanda che, spinta dal vento, sbatteva ritmicamente contro il palo di sostegno a cui era appesa. C'era sempre una locanda nei porti, e nelle notti fredde e tempestose era traboccante di vita e schiamazzi. Rumori confortanti che avevano accompagnato la sua esistenza da che ricordasse.

    Forse anche in quella città c'era stata una locanda al porto, fino a poco tempo prima. Che peccato, pensò.

    Ma adesso doveva cercare un rifugio, per... sicurezza.

    Da quando era entrata

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