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Rodi - il sorriso del Colosso
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E-book296 pagine4 ore

Rodi - il sorriso del Colosso

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Info su questo ebook

Nel 226 a.C., anno del grande terremoto, nella ricchissima e decadente Rodi s’intrecciano ambizioni e desideri di uomini e demoni. Filosofia, scienza e stregoneria sono una cosa sola, che dà la padronanza di potenti tecnologie oggi perdute; il clero di Elio-Apollo mira all’egemonia, sradicando tradizioni antiche e il credo negli altri Dèi; divinità con menti e fini inumani giocano con le vite dei mortali, che possono solo illudersi di cambiare il loro destino… e quando le spade si scoprono inutili, ben pochi sono gli eroi. In tredici racconti tra weird e sword and sorcery, il terremoto che distruggerà il Colosso, divenuto simbolo d’un mondo incomprensibile, s’avvicina sino a compiersi.
LinguaItaliano
Data di uscita27 dic 2020
ISBN9788894469660
Rodi - il sorriso del Colosso

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    Anteprima del libro

    Rodi - il sorriso del Colosso - Andrea Gualchierotti

    POLIFEMO 4

    Sommario

    POLIFEMO 4

    RODI, IL SORRISO DEL COLOSSO

    Copyright

    Dedica

    ***

    L’isola dell’Eternità, Prefazione di Samuele Baricchi

    Il sorriso del Colosso

    Il volo

    Il nome di Memnone

    Faccia da cane

    I Figli della Luna

    Il Dio nel palazzo

    L’esperimento di Empedocle

    Il precettore

    L’Arconte delle Macchine

    La cometa

    Le Erinni

    Le Boedromie

    Contro un nuovo Colossodi Cillenio di Lindo

    ***

    Elio, l’occhio del mondo. Postfazione di Lorenzo Pennacchi

    ANDREA GUIDO SILVI

    RODI

    IL SORRISO DEL COLOSSO

    A cura di Francesco La Manno

    Prefazione di Samuele Baricchi

    Copyright

    ISBN: 978-88-944696-6-0

    Polifemo n.4

    Curatore: Francesco La Manno

    Illustrazione: Andrea Piparo

    Progetto grafico e impaginazione: Mala Spina

    Prima edizione Dicembre 2020

    Copyright (Edizione) ©2020 Italian Sword&Sorcery Books

    Tutti i diritti sono riservati a norma di legge e delle convenzioni internazionali. Nessuna parte di questo ebook può essere riprodotta e diffusa con sistemi elettronici, meccanici o di altro tipo senza l’autorizzazione scritta dell’autore.

    Questo libro è un’opera di fantasia. La sua pubblicazione non lede i diritti di terzi. Qualsiasi analogia con fatti, luoghi e persone, vive o scomparse, è assolutamente casuale.

    Associazione Culturale Italian Sword&Sorcery

    Via Lanza, 40

    15033 – Casale Monferrato (AL)

    C.F. 91033550061

    Cell. 3384480217

    https://hyperborea.live/negozio/

    Email: francescolamanno@hotmail.it

    Dedico questa raccolta a mia figlia, nella speranza che crescendo capisca che il bianco e il nero non esistono e che il demone dell’ambizione è solo un conoscente, con cui bere una birra di quando in quando, non un vero amico.

    Prefazione

    L’isola dell’Eternità

    di Samuele Baricchi

    Nelle ere più antiche gli Dèi si spartirono il cosmo.

    Dal caos primigenio titanico Zeus ordinò ogni cosa, e a ciascuno dei Numi toccò una città consacrata, con in essa templi e ordini di sacerdoti e sacerdotesse che si occupavano di glorificarne il Dio.

    Atene era protetta da Atena, l’isola città – stato di Samos adorava Era come protettrice, sia Eretria sia Epidauro veneravano invece Apollo.

    A Helios, il dio del Sole, non toccò nulla. Emerse dalle acque del mar Egeo l’isola di Rodi, ed egli ne divenne il Dio Protettore, il numen tutelare di riferimento.

    Il Sole stesso. La personificazione della vita, per un abitante di Rodi, bellissima, nel mezzo dell’Egeo, con il blu del mare che si confonde con l’azzurro sterminato del cielo sopra l’area mediterranea.

    Sentiamo, vibrante, intenso, sulla nostra pelle il richiamo, l’eco, distante, di quelle culture e civiltà antiche. Sono i nostri progenitori, la nostra cultura deriva da lì, il nostro modo di essere deriva da lì, da quel tempo lontano, che tuttavia ha lasciato un’impronta indelebile sull’uomo in senso lato. Un po’ perché la cultura greca è la culla della filosofia, e quindi del pensiero stesso, dell’analisi sulla natura e sull’uomo. Il primo pensatore, per tradizione, è Talete della scuola di Mileto, un personaggio immerso quasi nella leggenda, in un’epoca talmente distante da risultare evanescente, nebbiosa, fumosa, impalpabile. Tuttavia, di quei giorni, ci sono pervenuti frammenti di letteratura, pezzi di opere teatrali, testimonianze di vite, di essenze, di mondi. Tanti piccoli tasselli di un mosaico che formano il grande lascito della cultura greca antica.

    I rodiesi si trovarono un giorno ad affrontare un assedio.

    Avvenne dopo una spaccatura nella storia antica, dopo l’inizio dell’Ellenismo, segnato dalla morte di Alessandro il Macedone, nel 323 a.C.

    Il vastissimo impero di Alessandro fu spartito tra i suoi successori, la cerchia di suoi più fedeli generali, alleati e amici. Nel 305. a.C. Demetrio I Poliorcete, un successore del Macedone, per l’appunto, attaccò Rodi con un’armata di quarantamila uomini. La città si era alleata precedentemente con il regno egizio di Tolomeo, e si trovava in una posizione militarmente strategica, anche per quanto riguardava i rapporti commerciali, e per questi motivi faceva gola a Demetrio.

    L’assedio durò un anno, con i rodiesi barricati saldamente all’interno delle mura, finché una tempesta non distrusse le duecento navi di Demetrio, che aveva costruito anche diverse macchine da guerra e torri d’assedio per riuscire a fare breccia all’interno della città.

    Non domo, il Poliorcete decise di costruire una torre d’assedio addirittura più grande delle altre, e di sferrare il colpo finale alle mura di Rodi. In risposta, i rodiesi allagarono la zona prospiciente i bastioni, rendendola fangosa e impraticabile, e la torre d’assedio, gigantesca, fu lasciata lì, abbandonata, a causa proprio dell’impercorribilità del terreno.

    Tramite questa tattica bellica, i rodiesi guadagnarono tempo, e giunse in loro soccorso, nel 304 a.C., il generale Politemo che con una flotta al suo comando costrinse Demetrio I Poliorcete alla fuga, durante la quale dovette abbandonare gran parte dei suoi armamenti, macchine da guerra, torri d’assedio e tesori nell’area del porto e nelle zone di terra adiacenti, lasciando ai rodiesi ingenti materiali, regalando così una sorta di seconda vittoria alla città.

    Fu proprio a ricordo di ciò che questi decisero di innalzare, alcuni dicono ad opera di Carete di Lindo, allievo di Lisippo, e che già aveva costruito statue di ingenti dimensioni come il suo maestro, una statua di settanta cubiti, circa trentadue metri, un colosso rivestito in bronzo, dedicato al io del Sole.

    Per costruire una statua gigantesca e onorare così il Dio Protettore della città, riutilizzarono sapientemente proprio i materiali della torre d’assedio che Demetrio aveva costruito per sferrare il colpo finale alle mura. A monito, forse, della potenza della città di Rodi.

    Secondo la leggenda il Colosso si trovava all’ingresso del porto, con le gambe divaricate, ma studi più recenti hanno smentito per motivi architettonici questa tesi, propendendo per un’altra ipotesi, ossia che esso si trovasse su una collina adiacente, e svolgesse una funzione simile a quella di un faro.

    In ogni caso si trattava di un’opera impressionante, considerata una delle sette meraviglie del mondo antico. Fu distrutto, il Colosso, da un terremoto, dopo aver fatto da fiero guardiano dell’isola per una sessantina d’anni. Anche dopo la sua distruzione per moltissimi secoli le persone continuarono a visitare, provenendo anche da molto lontano, i resti del Colosso, che erano comunque segno indelebile di un’opera titanica.

    Poi, con quasi un migliaio di cammelli, durante la conquista araba dell’isola, i resti del Colosso di Rodi vennero venduti a un commerciante ebreo, probabilmente, e se ne persero le tracce.

    Tuttavia, la sua memoria è ben presente nelle parole di Plinio il Vecchio, che nella sua "Naturalis Historia" scrive:

    Il più ammirato di tutti i colossi era quello del Sole che si trovava a Rodi opera di Carete di Lindo, discepolo di Lisippo. Esso era alto settanta cubiti. Questa statua, caduta a terra dopo sessantasei anni a causa di un terremoto, anche se a terra, costituisce tuttavia ugualmente uno spettacolo meraviglioso. Pochi possono abbracciare il suo pollice, e le dita sono più grandi che molte altre statue tutte intere. Vaste cavità si aprono nelle membra spezzate; all’interno si possono osservare pietre di grandi dimensioni, del cui peso l’artista si era servito per consolidare il colosso durante la costruzione. Dicono che fu costruito in dodici anni e con una spesa di 300 talenti ricavati dalla vendita del materiale abbandonato dal re Demetrio allorché, stanco del suo prolungarsi, tolse l’assedio a Rodi. Nella stessa città ci sono cento altri colossi più piccoli di questo, ma tali da rendere famoso qualunque luogo in cui si trovasse anche uno solo di essi.

    Rodi era quindi famosa per la costruzione di altri colossi, oltre a quello rimasto nella leggende: più piccoli rispetto a quello più famoso, ma comunque opere impressionanti.

    Questo porta ad un altro aspetto molto interessante della cultura greca, del pensiero comune, e delle credenze popolari di quel popolo: ogni gesto deve riecheggiare per l’eternità.

    Ogni vita dev’essere gloriosa, e ogni collettività deve glorificare un Dio, un’Entità Numenica superiore ed infinita, per sentirsi così parte dell’Universo stesso, del Cosmo. Per sentirsi parte del tutto, i Greci tramite l’arte – e la conquista bellica – si eternavano, per così dire, slanciandosi in una dimensione che va oltre quella terrena, caduca.

    Ad Achille, exemplum dell’eroe omerico acheo per eccellenza, fu chiesto se preferisse una vita lunga, ma senza gloria, o una vita breve, ma che l’avrebbe portato ad essere ricordato in eterno.

    Ancora oggi ricordiamo Achille proprio perché scelse di entrare nell’infinito. Ma l’infinito da chi è percepito, e poi tramandato? Dagli aedi, da Omero, dai poeti, dai cantori, dai bardi, dagli scrittori.

    Se oggi, dopo secoli e secoli, ci troviamo qui a presentare un’opera letteraria sulla grecità e sul Colosso di Rodi, una delle meraviglie del mondo antico, è segno che quella cultura ha senza alcun dubbio sfondato le porte della caducità umana, e ha raggiunto la dimensione dell’eterno, dell’infinito.

    Sono gli scrittori a tramandare le storie più antiche e misteriose. Sono gli scrittori a trasmettere le storie più sagge. In questo caso, la storia meravigliosa di un popolo che, dopo un lungo assedio di un anno intero, dopo giorni di paura e guerra, finalmente, una volta terminati, guarda verso l’azzurro sterminato del cielo sopra l’Egeo, e pensa a quanto è bello essere vivi. Il picco di un’ascesa, dunque, cui è quasi inevitabile che segua la decadenza, la corruzione, del tutto in linea con la visione ciclica, circolare, che i Greci avevano del tempo e delle vicende umane, destinate a sfiorare la perfezione per poi perdersi nelle zone oscure della natura degli uomini, come anche il lettore di Silvi scoprirà, un passo alla volta. Ma, di tutto ciò, i rodiesi non sono ancora consapevoli quando decidono di glorificare con un colosso di bronzo il Sole stesso, Helios, il loro Dio Protettore. Ed essendo i Greci un popolo sensibile ai ritmi della terra e al ciclo delle stagioni, venerare il Sole significava per essi venerare l’elemento vivificante per eccellenza.

    Nei secoli, il Colosso di Rodi è diventato protagonista di moltissime leggende, così come tutte le altre meraviglie del mondo antico.

    Esse sono, o meglio sarebbe dire erano, sette. Un numero significativo e simbolico, con riferimenti sacri e mistici in moltissime culture e religioni antiche. La piramide di Cheope, i giardini pensili di Babilonia, la statua di Zeus a Olimpia, il tempio di Artemide a Efeso, il Colosso di Rodi, il mausoleo di Alicarnasso e il faro di Alessandria. Riecheggiano, queste meraviglie, del senso mitico e titanico della cultura antica.

    In ognuna di esse c’è un riferimento al sacro inteso in senso antichissimo: la meraviglia della grandiosità, la gloria dell’eternità, raggiunta tramite la fatica dell’arte.

    Qual è il sentore, l’emozione, la percezione, che ci avvicina al mondo greco antico? Noi occidentali contemporanei siamo molto distanti da quella cultura, eppure molto vicini, e non possiamo non considerarla sempre e comunque un insieme di elementi che rappresentano le nostre radici. Siamo figli di quel tipo di pensiero. Siamo consapevoli della caducità dell’uomo e cerchiamo, tramite le nostre vite, e le nostre opere, tramite ciò che facciamo durante la nostra esistenza terrena, di interfacciarci con una dimensione dell’Oltre, dell’Infinito. Il senso di meraviglia e di mistico rispetto nei confronti della grandiosità delle opere titaniche dell’antichità è qualcosa che va oltre la contemporaneità e oltre il tempo stesso. È qualcosa che è insito nell’uomo, è dentro di esso, fa parte della sua natura. Per la grecità tutta una vita modesta era degna di essere vissuta solo se in condizione di schiavitù.

    Bisognerà aspettare l’epicureismo, e con esso il pensiero che una vita ritirata sia preferibile a una carriera politica piuttosto che militare, per avere una visione diversa del mondo, ma già ci troviamo nell’ambito della romanità, e il discorso vira leggermente verso il concreto e il materiale. Ciò che i Greci cercavano era un diretto contatto con l’essenza del cosmo. Le loro vite erano improntate sul tentare di lasciare un’impronta indelebile di sé.

    Ne è testimonianza il Colosso di Rodi, ne sono prova le meraviglie del mondo antico, opere dal fascino titanico, mistico, infinito.

    Vi è un’altra versione, più curiosa, della leggenda del Colosso di Rodi. Si dice che Carete di Lindo fosse riuscito ad animare, per così dire, l’enorme statua ricoperta di bronzo tramite una serie di congegni molto articolati che permettevano al Colosso addirittura di muoversi e così un giorno, all’improvviso, la statua se ne andò, camminando tra le acque del mare fino a scomparire oltre l’orizzonte.

    La figura leggendaria e titanica del Colosso rodiese rappresenta a pieno l’immaginazione collettiva degli antichi Greci e la loro tendenza a vivere dentro una storia. La narrazione, il tramandare, il raccontare era uno degli elementi fondamentali della loro società, echi di storie che rimandavano ad altre storie, senza una precisa connotazione morale o un intento propagandistico.

    Ancora oggi, tramite la letteratura fantastica, tramandiamo e raccontiamo storie più grandiose rispetto alle nostre vite quotidiane, racconti permeati di magia e di sapore esotico e misterico, ma che comunque, mantengono nonostante tutto un aggancio al Reale. Andando oltre le porte di ciò che è tangibile, rappresentano una realtà ancor più vera, dai tratti essenziali, primigeni, arcaici, che sono poi i tratti che fondano la natura dell’uomo. Meraviglia, stupore, senso di profondo sgomento e rispetto di fronte alle opere del mondo antico, e la profonda consapevolezza di essere un granello di sabbia nell’infinito e sterminato deserto che è l’Universo. Ma, comunque, un granello cosciente, un granello che pensa, e scrive, e si guadagna un posto nell’eternità.

    All’ombra del colosso caduto,

    giace la gloria delle rovine d’un tempo

    di Divinità senza senno e uomini ciechi

    che all’infinito si ripete.

    (Museo di Tracia)

    Rodi, terzo anno della 138a Olimpiade

    (226 a.C., anno del terremoto)

    Il sorriso del Colosso

    Era impossibile non riconoscere il suo sangue punico in mezzo alla folla dei rodioti dalla pelle chiara: la carnagione era bronzea e gli occhi castani e stretti; il volto allungato era curato secondo la moda cartaginese, coi baffi rasati ma contornato da barba e capelli lunghi, ricci e neri, appena macchiati di grigio. Immune all’energia che sentiva crescere nella stretta strada, Annone guardava con un misto di curiosità e distacco alla torma di chitoni e pepli bianchi danzanti ed esultanti che circondavano lui e Gisgo, suo compatriota e socio. Giù nei quartieri del mercato, dove s’incontravano genti provenienti da ogni porto del Mediterraneo, il suo viso straniero e le vesti di porpora s’erano mescolati a visi e colori di tanti altri, tutti diversi, ma lì, tra i rodioti in festa per le vie che circondavano l’acropoli, lui e Gisgo spiccavano come papaveri tra le spighe. Un tempo erano stati soldati di Cartagine, poi pirati e saccheggiatori, infine erano diventati due mercanti che sfoggiavano ricche tuniche di lino tenute sul petto da fasce multicolori. Entrambi mettevano bene in mostra sia gli anelli e le collane d’oro che le loro falcate, le spade curve che portavano in vita, ed un occhio esperto, avvezzo alla guerra, mai avrebbe dubitato della loro capacità nell’utilizzarle.

    Venivano da Lebda per vendere schiavi ed acquistare vino e spezie, volendo tentare la fortuna sulla rotta orientale, per loro una delle più promettenti dopo che Cartagine aveva dovuto rinunciare alla Sicilia, conquistata dalle legioni di Roma. Prima non s’erano neppure mai avvicinati all’isola di Rodi. Di Rodi la lussureggiante, Rodi l’Isola delle Rose, gloriosa e grandiosa, sapevano quello che avevano sentito da altri mercanti, navigatori e pirati: che offriva uno dei porti più ricchi del Mediterraneo, dove si poteva vendere e comprare ogni cosa, e che le ciclopiche mura della sua capitale, che avevano sostenuto l’assedio di Demetrio Poliorcete, erano solo una delle sue difese, la più evidente.

    Era l’alba quando la bireme dei cartaginesi aveva raggiunto l’isola, e tutti a bordo avevano guardato con timore ed ammirazione quelle stesse mura, tanto massicce e lisce da sembrare scolpite in un unico blocco, rese dorate e invincibili dalla magia degli stregoni al soldo dei potenti della capitale. Più alto dei bastioni, posto quasi al centro delle case e dei bassi palazzi che salivano verso i templi lucenti dell’acropoli, v’era il Colosso, di cui potevano vedere le spalle bronzee e il capo riccio volto ad ovest: non posto a salutare chi arrivava, ma a benedire la città stessa con lo sguardo che accompagnava il Sole. Guardando alla meravigliosa città, non s’erano stupiti del fatto che Demetrio non fosse riuscito ad espugnarla.

    Il sovrano macedone aveva schierato quarantamila soldati, tra cui gli opliti a metà tra uomini e macchine concepiti dal mago e filosofo Aristotele, di cui anche Rodi era dotata, nonché catapulte e baliste a ripetizione, ma nonostante simili truppe e armamenti, nonostante gli ornitotteri lanciati contro le difese da piloti suicidi, nonostante infine l’imponente elepoli di bronzo costruita su suolo rodiota, era stato respinto: Annone immaginò lo scontro titanico che doveva aver sconvolto i giorni ed illuminato le notti della città; le cariche e le mischie tra i guerrieri meccanizzati d’entrambi gli schieramenti; il lancio incrociato di proiettili infuocati; i fulmini e le maledizioni degli stregoni che si confrontavano. Si diceva che i fuochi della battaglia fossero stati visibili dalle coste dell’Asia. Infine Demetrio s’era ritirato, e così le mille e più navi al suo seguito, quelle che erano state ritenute necessarie per il fallito saccheggio.

    Mentre la bireme entrava nel porto Mandraki, superandone le fortificazioni armate di baliste a ripetizione, lo sguardo di chi era a bordo aveva potuto scorgere il profilo del favoloso Colosso, dal volto imberbe. A quell’ora, l’enorme fiaccola che la statua teneva alta nella mano destra, faro nella notte, era ancora più luminosa del giorno che nasceva. Da quella posizione Elio-Apollo, al centro della città sul suo piedistallo squadrato ornato di marmi e balaustre dorate, era sembrato ad Annone un Dio freddo e indifferente.

    Eppure quello era l’ultimo giorno delle Alièe, le principali feste in onore del patrono, durante le quali tutti gli isolani erano presi dalla febbre dei giochi e non facevano altro che levare lodi al Dio. Durante le celebrazioni in onore del Sole Divino, la ricchissima e avida Rodi non pensava troppo al denaro, come Annone e Gisgo avevano avuto modo di scoprire, e per i mercati si muovevano perlopiù forestieri come loro. Dopo aver compreso che v’era la possibilità di perdere buone occasioni a non trattare coi rodioti, i cartaginesi avevano quindi deciso di muoversi verso l’acropoli per assistere a competizioni e spettacoli. Le Alièe attiravano atleti da tutta la Grecia, dando la possibilità di piazzare buone scommesse. Così, s’erano inoltrati per le vie affollate della città, diretti all’acropoli.

    Muovendosi al tempo della calca, i cartaginesi percorsero strade e vicoli fino a passare per la piazza di fronte al piedistallo del Colosso. Già il solo piedistallo, orlato in cima da una balaustra dorata, era alto poco più delle case e dei palazzi a due piani che lo circondavano, di modo che anche le suole dei sandali del Dio, su un’ulteriore pedana squadrata, stessero sopra i mortali tutto intorno: Elio-Apollo guardava all’orizzonte e pareva ignorarli come essi stessi avrebbero fatto con le formiche che avessero trovato sulla strada. Nonostante il Dio gli sembrasse indifferente, o forse proprio per questo, Annone e Gisgo furono impressionati e intimoriti.

    «Parrebbe davvero poter sollevare una bireme come la nostra con facilità», commentò Gisgo. «Se dovessi immaginare un titano, avrebbe queste dimensioni.»

    Quasi del tutto identiche al Colosso ma ben più piccole, v’erano statue alte due volte un uomo a tutti gli incroci delle strade principali. Rispetto al Colosso, le uniche differenze oltre alle dimensioni erano che nella destra, al posto della fiaccola del faro, tenevano una spada sguainata e, per lo più, erano realizzate in marmo e non in bronzo. Il loro volto era lo stesso, freddo e ieratico, con tratti che sembravano voler fondere quelli di tutti i popoli che s’affacciavano sul Mediterraneo.

    Giunsero finalmente oltre l’abitato, fino ai templi. Il tempio di Zeus ed Atena era il primo che videro, e il più grande, giusto tributo al padre degli Dèi e alla figlia prediletta, che anche Annone e Gisgo sapevano essere nata già adulta, armata di lancia e scudo, partorita direttamente dalla testa di Zeus. Ma era il tempio di Elio-Apollo poco oltre, interamente circondato da colonne, quello che più attirava l’attenzione nella spianata: su ogni pilastro s’arrampicavano rose rosse, e le metope e i bassorilievi che lo decoravano erano d’oro intarsiato di malachite e diaspro, così come parte del tetto, abbagliante nella luce del giorno.

    Svoltando oltre il teatro raggiunsero lo stadio, dove videro con rammarico che in quel momento non si stavano svolgendo giochi. Gli spalti venivano abbandonati in fretta dai pochi che ancora vi si muovevano. Gisgo, ben più abile di Annone con il greco, ebbe conferma da uno dei passanti che nelle ore più calde le competizioni venivano interrotte, e questo anche per far sì che riti e sacrifici fossero svolti quando lo sguardo di Elio era più forte. Per questo gli spettatori lasciavano i seggi dello stadio, e loro li seguirono.

    La folla proseguiva più a sud. Non v’erano solo nobili o benestanti, ma anche i più poveri, ripuliti alla bene e meglio e mescolati agli altri in vesti bianche, con l’illusione di potersi dire tutti uguali in quel giorno di festa. Annone conosceva la Grecia e le sue colonie, eppure si convinse presto che v’era qualcosa di diverso rispetto a quanto aveva visto ad Atene, Megara e Corinto, o ad Erice prima della conquista romana: v’era un che di febbrile e forsennato oltre l’espressione gioiosa di uomini e donne, ragazzi e ragazze dell’isola.

    «Per Tanit Mirionima», sbottò d’un tratto Gisgo. «Ho visto facce simili solo tra i fanatici di Baal-Ammon.»

    Annone annuì, con un fastidioso brivido che gli salì lungo la colonna vertebrale:

    «Per un anno dopo la pace di Amilcare ripresero i sacrifici sulla Collina delle Due Corna… Prima che il popolo tornasse alla saggezza di Tanit, onorando la bellezza della Luna…»

    Ricordava l’energia estatica che esalava da quelle celebrazioni in onore di Baal-Ammon: gli occhi di quelli che si preparavano ad onorare un Dio con un sacrificio di sangue brillavano tutti della stessa luce.

    «Sai», gli confessò Gisgo sorridendo. «Credo che Lebda sia un posto migliore dove mettere su una nuova famiglia.»

    «Ma Cartagine è nelle mie vene, Gisgo» rispose lui, e lo disse con pari orgoglio ed amarezza.

    Incuriositi, volendo assistere ai riti, accelerarono il passo.

    Oltre lo stadio v’erano i palazzi dei sacerdoti dei diversi templi, strutture squadrate di due piani circondate da ulivi secolari e prati curati, che proseguivano sino alle massicce mura meridionali. Sapevano che ancora oltre, senza difese, v’erano interi quartieri di baracche, dove vivevano i disgraziati che servivano i mercanti e i nobili della ricchissima città. Erano poco più che schiavi guardati con disgusto, ma necessari alla comodità e al benessere dei cittadini, che solo durante le Alièe gli consentivano di muoversi al loro fianco, perché si prostrassero al

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