Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Clans Saga 1. L'alba dei Clan
Clans Saga 1. L'alba dei Clan
Clans Saga 1. L'alba dei Clan
E-book379 pagine6 ore

Clans Saga 1. L'alba dei Clan

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Una giovane arciera e la sua micidiale macchina da guerra. Un barbaro con un misterioso passato nascosto nelle vene. Due fratelli goblin in cerca di riscatto. Un mago schivo e gli oscuri poteri di suo figlio. L'incombente minaccia della morte che vola. Il primo episodio di Clans Saga è un viaggio tra personaggi leggendari, battaglie epiche e alleanze segrete che porteranno alla nascita di potenti Clan.
LinguaItaliano
Data di uscita19 set 2016
ISBN9788892628014
Clans Saga 1. L'alba dei Clan

Correlato a Clans Saga 1. L'alba dei Clan

Ebook correlati

Fantasy per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Clans Saga 1. L'alba dei Clan

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Clans Saga 1. L'alba dei Clan - Ian Vesa

    CAPITOLO 1 - PERGAMENE

    Arciere

    Guarda quanto è infastidita Mrs But. Lucy ridacchiava tra sé mentre osservava da lontano Rebecca sulla Torre d’Oro, intenta a studiare la grande strada che portava alla Capitale. Stavano arrivando le arciere dell’Ovest e Mrs But le odiava. Non c’era da stupirsi, chiunque non appartenesse alla sua cerchia ristretta doveva sorbirsi i suoi polemici ma, che le erano valsi quel soprannome. Lucy lo sapeva bene: da quando era entrata a fare parte delle Invocate, Rebecca aveva fatto di tutto per ostacolarla. Ma è solo un fabbro, ma non è una guerriera, ma è figlia del nemico, ma è una codarda dei Colli, ma è troppo giovane, ma possiamo fidarci? Quei ma si erano moltiplicati quando la Sindachessa e la Regina avevano deciso di investire l’oro della Capitale per costruire l’Arco Magno, il progetto visionario di Lucy. Ma è troppo costoso, ma servirà troppo tempo, ma la comandante della difesa cittadina sono io. Ma, ma, ma. Ma alla fine aveva vinto Lucy. Presto l’Arco Magno avrebbe scoccato il suo primo dardo per celebrare il ventesimo compleanno della Regina, sarebbe stato il grande spettacolo finale, quello per cui stavano arrivando arciere da tutto il regno e Mrs But non avrebbe potuto dire alcun ma. Lucy si chinò a controllare per l’ennesima volta gli ingranaggi dell’imponente macchina da guerra. Si muovevano alla perfezione, oliati dalla speciale miscela che aveva ideato ricordando gli insegnamenti di suo padre. Salì sulla piattaforma di tiro e contemplò la sua creazione, il metallo e il legno fusi in una lunga struttura curva dall’aspetto di una minacciosa balestra. Accarezzò la corda tesa, fece ruotare l’arma, che rispondeva docile ai suoi comandi. Danzò con l'Arco Magno, seguendo il ritmo dei tamburi delle arciere dell’Ovest che ormai erano nei pressi delle mura. Appoggiò l’occhio sul mirino e lo puntò sul lungo serpentone che marciava disordinato sulla strada polverosa. Nelle prime file, le arciere più giovani percuotevano furiosamente i tamburi, intonando canti di guerra. Lucy spostò il cannocchiale e tutta la visuale fu occupata da un gigante. Non ne aveva mai visto uno così imponente, doveva venire dai monti del nord-ovest, la pelle chiara e butterata, la barba riccia disordinata, gli occhi profondi che appartenevano a un'altra epoca. I giganti erano una razza schiva e introversa, che scendeva raramente dai monti, accettando di combattere come mercenari per chi offriva loro risorse a sufficienza per affrontare i lunghi inverni, ma mantenevano un gelido distacco dalle altre razze. Eppure una giovane arciera era seduta pacificamente sulla spalla del bestione e gli stava dicendo qualcosa nell’orecchio facendolo ridere. La ragazza non dimostrava più di diciotto anni e soffiava verso l’alto per spostare la frangia verde, che le finiva in continuazione negli occhi vivaci, di un blu incredibilmente intenso. Aveva la pelle quasi bianca e un sorriso spensierato. Lucy indugiò su di lei, incuriosita e stupita, poi riprese a scandagliare la lunga fila di guerriere che trasportavano pesanti forzieri, botti e bauli intarsiati, doni preziosi per celebrare la Regina, anche se sembravano sproporzionati persino per quell’evento. Riconobbe Ashley la Predatrice, capa di Dianagrad, che camminava fiera in mezzo alle sue arciere. Tra i capelli scuri si intuivano alcune ciocche grigie e una grande cicatrice spuntava da sotto la veste per arrivare fino al collo. Il viso si era indurito da quando Lucy l’aveva incontrata l’ultima volta, cinque anni prima. In quell’occasione era stata chiamata a fare parte delle Invocate tra la sorpresa generale e Ashley fu una delle prime a congratularsi con lei, mentre sulle labbra di Mrs But si era dipinto soltanto un rabbioso ma. Da allora la Predatrice non era più venuta nella Capitale, troppo impegnata ad ampliare i villaggi dell’Ovest e a combattere i barbari. Era più avida di un goblin e feroce come un drago. Aveva attaccato centinaia di villaggi e si diceva che Dianagrad fosse diventata una roccaforte inespugnabile.

    Lucy fu felice di rivedere Ashley, ma quello che scorse in fondo alla schiera di arciere la mise in agitazione: una ventina di barbari avanzavano incatenati, sorvegliati attentamente da un gruppo di guardie con le frecce incoccate negli archi. Più della metà dei prigionieri portava l’elmo nero da battaglia con le corna spezzate in segno di sconfitta: erano comandanti o guerrieri d’elite, sarebbero diventati senza dubbio degli stalloni, destinati a dare alle arciere della Capitale figlie robuste e forti, le guerriere di domani. Con l’arrivo di quei nuovi barbari, Lucy si chiedeva cosa sarebbe successo a Mortor. Il suo Mortor, lo stallone bello e gentile che le aveva messo nel grembo una bambina, anche se nessuno ancora lo sapeva. Odiava il fatto che sua figlia non avrebbe mai potuto vivere insieme al padre, proprio come era capitato a lei, anche se per motivi diversi. Da quando il culto della Dea aveva preso piede, le regole e i dogmi si erano inaspriti. I matrimoni tradizionali erano praticamente spariti, gli uomini venivano usati solo per procreare e poi lasciati ai compiti più umili, lontani dalle loro figlie. Per le guerriere più importanti e a maggior ragione per le Invocate, questi uomini dovevano avere geni forti e vigorosi. Così la scelta era ricaduta sui barbari, che venivano imprigionati e trasformati in stalloni. Lucy era stata terrorizzata all'idea di dover giacere con quei guerrieri rudi e violenti, noti per razzie e stupri, ma quando fu assegnata al comandante Mortor si dovette ricredere. Il barbaro era calmo e pacato, a tratti dolce, Lucy vedeva in lui un animo nobile e sincero. Così quello che doveva essere un mero dovere procreativo, era presto diventato un momento che aspettava con ansia. I loro corpi si erano sincronizzati e lei adorava farsi sussurrare le storie della terra dei barbari, un giorno le avrebbe raccontate a sua figlia. O a suo figlio, anche sperava tanto che non fosse un maschio: non avrebbe potuto crescerlo e educarlo, avrebbe dovuto lasciarlo al suo destino di servitore o muratore. In ogni caso, era consapevole che non si sarebbe dovuta innamorare di Mortor, ma non aveva potuto farci niente, continuava a sognare un futuro impossibile insieme a lui. Quando aveva scoperto di essere incinta, si era sentita mancare. Sapeva che non avrebbe più rivisto Mortor, non aveva più un motivo per scendere nelle celle degli stalloni. E anche le ultimi occasioni rischiavano di sparire con l'arrivo dei nuovi prigionieri da Ovest. Cosa sarebbe successo a Mortor? Lo avrebbero abbattuto, sostituendolo con quei nuovi barbari più freschi? Era già successo in passato e il pensiero la riempì di sconforto e rabbia per le assurde regole della Capitale.

    All'improvviso una voce allegra la riscosse, facendola trasalire: Lucy! Che diavolo è quell’espressione cupa? Non sei pronta a festeggiare? Era Dafne, Invocata e comandante dell’esercito. I piccoli e vivaci occhi castani le brillavano mentre srotolava una pergamena davanti a Lucy: Guarda e dimmi se non è un capolavoro! Era una sorta di manifesto pubblicitario, vi erano raffigurati con colori sgargianti tre goblin che correvano e saltavano, inseguiti da enormi dardi appena scagliati dall’Arco Magno, dietro al quale si stagliava un’arciera che assomiglia incredibilmente a Lucy. Era proprio il suo ritratto: i capelli castano chiaro con la frangia curata, gli occhi azzurri dolci e un po’ malinconici. C’erano persino le piccole lentiggini sopra il naso. Nella parte alta della pergamena campeggiava una scritta in caratteri gotici: Goblin VS Arco Magno. 5.000 monete d’oro per chi sarà più veloce della macchina da guerra della Regina. Lucy si sentì avvampare e scosse la testa, aveva cercato in ogni modo di opporsi a quella brutale follia, ma non c’era stato niente da fare. Dafne invece la guardava eccitata, aspettandosi grande entusiasmo per il manifesto: Lucy, hai visto come ti assomiglia il disegno? Sono proprio i tuoi occhioni azzurri.

    Lei provò a obiettare: Dafne, lo sai come la penso, un conto è la corsa dei goblin, un conto questo. Li ammazzeremo tutti quanti.

    Dafne sbuffò: Dai Lucy, basta con questa storia, i goblin sanno a cosa vanno incontro. E non vedono l’ora di farsi crivellare per un po’ di oro! La risata fragorosa e con una vena di follia non lasciava spazio a repliche, ma Lucy ci provò comunque: Potrebbero esserci disordini, rovinare la festa.

    L’amica non ci voleva sentire: Disordini? I goblin? Non essere ridicola! È una loro scelta, conoscono il rischio che corrono, non ti preoccupare. E poi sono goblin, Santa Dea! Chiuse lì la questione e cambiò discorso: Forza Lucy, andiamo ad accogliere quelle dell’Ovest, non sai cos’ho visto!

    Un gigante?

    Fuochino, Lucy.

    Uhm.

    Sopra il gigante! Mimò la silhouette della ragazza dell’Ovest, accompagnando il gesto con commenti degni della peggiore taverna barbara. Dafne era così, irruenta, volgare, adrenalinica e con un debole per le giovani arciere. Però era anche la persona più generosa al mondo e Lucy le doveva tutto. Senza di lei sarebbe rimasta nei sobborghi, ingobbita ad affilare punte di frecce. L’aveva conosciuta in uno dei momenti peggiori della sua vita: sua madre era morta da poco più di un mese e doveva mandare avanti da sola la piccola bottega di archi e frecce. Dafne era comparsa alla porta in un pomeriggio piovoso e l’aveva squadrata dicendole: Le mie arcierine mi dicono che c’è una ragazzina dei Colli che fa degli archi fantastici. Fammi un po’ vedere, frangettina. Lucy era sbiancata quando aveva visto la leggendaria comandante dell’esercito. Si limitò a passarle un arco senza neanche riuscire a guardarla negli occhi. Dafne scoccò tre frecce sullo sgangherato bersaglio di prova, facendo tre centri perfetti. Saggiò la consistenza del legno e chiese a bruciapelo: Come fai a renderli così flessibili? Che razza di incantesimi usi?

    Lucy arrossì, trattava i materiali con una blanda formula magica, niente di particolarmente potente, ma era comunque contro la legge. Provò a negare balbettando, ma la comandante la interruppe bruscamente: Dai ragazzina, cosa vuoi che me ne freghi se fai qualche trucchetto magico? Prese altre tre frecce e martellò di nuovo il bersaglio con precisione, per poi esclamare stupita: Straordinario. Quelle vecchie mummie della fucina reale non fanno archi così buoni, come diavolo fai?

    Lucy prese coraggio e iniziò a spiegare come miscelava i diversi tipi di legno. Era stato suo padre a insegnarle quelle tecniche, quando ancora viveva tra i Colli ad Arco della Rugiada, prima che la guerra mettesse fine ai rapporti tra maghi e arciere.

    Dafne la fermò quasi subito: Non ci capisco niente di queste robe tecniche, ma da oggi devi costruirmi un bel po’ di questi archetti. Quanti riesci a produrne in una settimana?

    Tre mentì Lucy. Già faticava a realizzarne due, a causa della cura scrupolosa che metteva in ogni dettaglio.

    La comandante scrollò la testa: Non va bene. Ti serviranno delle assistenti e un posto più grande di questa topaia.

    Era l’inizio. Poi sarebbe arrivata la direzione della fucina reale, lo speciale arco progettato per la Regina, la nomina nelle Invocate e l’Arco Magno. Poi sarebbero arrivati giorni come quello, dove camminava a testa alta al fianco di Dafne, ridendo alle sue battute.

    Goblin

    Fratello mio, so a cosa stai pensando, te lo leggo in faccia. Dovremmo tornare indietro di corsa. Raggiungere gli altri, rintanarci a Grande Quercia a goderci il nostro oro. Non c’è speranza in questi villaggi, sono tutti dei servi, al massimo dei servi disonesti. Fai bene a scrollare la testa, noi siamo un regno di ladri, ma siamo liberi, non siamo mai stati servi di nessuno. Cos’è quello sguardo, fratello mio? La parola regno non ti convince, vero? D’accordo, non siamo un regno, ogni villaggio goblin pensa a sé e al suo oro, ma le cose possono cambiare. Guardarci fratello, ci siamo addestrati e adesso siamo dei guerrieri, non semplici ladri. Possiamo creare un esercito, unire i villaggi, nominare un re. Koki si sbracciava e saltellava di qua e di là lungo il sentiero, mentre cercava di convincere il fratello della bontà delle sue parole. Yoki invece lo guardava con gli occhi gonfi per quei giorni di marcia sfiancante e incontri deludenti. Continuava a indicare la via del ritorno, ma Koki era inarrestabile, spinto da un utopico ottimismo: Andiamo in quest’ultimo villaggio, incontriamo il giovane Sibri, che sembra una leggenda da queste parti. Non è mai nato un goblin così veloce e scaltro, ci diceva quel vecchio. Lo so, fratello mio, è lo stesso vecchio che parlava della Regina delle arciere come se fosse la sua capa, servo maledetto. E poi sarei curioso di vederla questa Regina, ormai non siamo distanti dalle terre delle arciere, non vorresti dare un’occhiata alla Capitale?

    Yoki si fermò infastidito e si voltò di nuovo, sperando di convincere il fratello a fare marcia indietro, ma Koki lo strattonò per farlo proseguire. Quante ne abbiamo sentite su questa Regina, fratello mio: è più grande dei giganti, è il doppio di un gigante, è immortale, è figlia degli dei. Cosa ci sarà di vero? Lo so fratello, troppa curiosità uccide più della troppa avidità. Al diavolo questa Regina e questi nostri fratelli che strisciano ai suoi piedi per qualche moneta d’oro.

    Yoki allargò le braccia e fece alcuni gesti pacati senza ricevere l’attenzione di Koki, che non smetteva di assillarlo con i suoi piani di grandezza: Tu pensi sia una battaglia persa, fratello, ma voglio incontrare Sibri, portarlo con noi a Grande Quercia e addestrarlo. Sono sicuro che tra questi miseri villaggi sperduti c’è un grande goblin, qualcuno che potrebbe risvegliare le coscienze.

    Yoki scrollava la testa, sogghignando verso il fratello. Erano due gocce d’acqua, la pelle aveva la stessa tonalità di verde, acceso e brillante. Entrambi avevano gli occhi arancione intenso, con pupille piccole e nerissime, che sembravano uscire dalle orbite mentre si guardavo in giro. I capelli corti rossi, un colore insolito per la regione settentrionale. Erano uguali, ma Yoki era pragmatico e disilluso, Koki invece era un sognatore irrequieto e si stava di nuovo infuriando per le parole che avevano sentito in mattinata: Quel vecchio ci ha detto che i prossimi villaggi appartengono alle arciere. Che cosa significa? Come può un libero villaggio goblin appartenere a qualcuno? Dobbiamo educare i giovani, portarli con noi e farli tornare per guidare gli altri.

    Yoki non sembrava neanche ascoltare i vaneggiamenti del fratello e si limitò a fargli segno di guardare più in là. Il bosco si stava diradando, ormai erano vicini al villaggio del giovane Sibri. Aumentarono il passo e raggiunsero una piccola radura, dove si imbatterono in uno spettacolo miserabile: un gruppo di capanne era circondato da mura di legno marce e distrutte in molti punti.

    Koki era visibilmente deluso: Che tristezza fratello mio, guarda, c’è anche un cannone. Arrugginito ovviamente. In questo villaggio hanno perso ogni dignità, come possono difendere il loro oro con un cannone arrugginito e delle mura marce? Avevi ragione tu, fratello, incontriamo Sibri e andiamocene, questo posto mi disgusta e Grande Quercia è lontana giorni di marcia.

    Passarono attraverso un varco nelle mura, dirigendosi verso il centro del villaggio. Koki non smetteva di brontolare: Ma dove sono tutti? Perché non c’è nessuno a fare la guardia? Cos’hai visto fratello?

    Yoki si era avvicinato a una capanna e osservava a bocca aperta una pergamena appesa con una freccia. Koki lo raggiunse, stava per chiedere se fosse l’emblema del villaggio, ma dallo sguardo del fratello capì che non si trattava certo di quello. Era un manifesto scritto in caratteri gotici: Goblin VS Arco Magno. 5.000 monete d’oro per chi sarà più veloce della macchina da guerra della Regina. Koki si stava già indignando, chiedendosi cosa significasse, quando delle risate attirarono la loro attenzione. Avanzarono silenziosamente, fino a fermarsi dietro a una capanna, osservando quello che stava succedendo in una piazzetta polverosa. Koki strabuzzò gli occhi e sussurrò al fratello: Hai sentito? Stanno urlando tutti il nome di Sibri. E sarebbe quello? Ma che fa? Perché corre e salta come una scimmia e tutti gli lanciano dei pezzi di legno? Ridi, ridi fratello. Prenditi gioco di me perché ho scommesso su questo giovane. Per tutti i ladri, è patetico! Ma gli altri lo osannano, sembra l’eroe del villaggio. A quanto pare qui basta comportarsi come una scimmia per diventare un idolo. Shh. Voci di donna. Guarda fratello, sono arciere.

    I due goblin si nascosero meglio, mentre dal lato opposto del villaggio stavano arrivando alcune arciere, comportandosi come se fossero a casa loro. Koki si chiedeva cosa sarebbe successo e mise mano al suo pugnale, pronto a correre in aiuto dei fratelli di quel villaggio lontano. Le arciere però non avevano intenzioni bellicose, anzi una di loro salutò Sibri in tono gioviale, anche se un po’ canzonatorio: Sibri la Scheggia Impazzita! Ti stai allenando, eh? In città tutti ti vogliono vedere sfidare l’Arco Magno.

    Anche il goblin parlò in maniera amichevole all’arciera: L’ho ben visto questo Arco Magno e forse è meglio limitarmi alla tradizionale corsa dei goblin, non voglio certo farmi infilzare da quelle frecce che sembrano lance.

    La donna insistette: Dai Scheggia, non hai idea di che giro di scommesse ci sia già in piedi. Sibri la guardò con un sorrisetto malizioso, aspettando la proposta, che arrivò prontamente: E va bene, avido bastardello, vieni in città e ci accordiamo con le allibratrici. Il goblin ridacchiò soddisfatto, mentre le arciere gli davano pacche sulle spalle. La donna che aveva parlato si rivolse agli altri goblin, una ventina in tutto: E voi altri ladruncoli? Chi ha il coraggio di Sibri? Chi vuole mettersi nella bisaccia 5.000 monete d’oro?

    Dietro il loro nascondiglio Koki fremeva e bisbigliava a Yoki: Fratello, ma che succede? Sibri la Scheggia Impazzita? Quello dovrebbero chiamarlo Sibri la scimmia di merda! Arciere che reclutano goblin per i loro giochetti? Fratello mio, questi goblin non sono ingobbiti per l’oro che hanno rubato, ma a furia di prostrarsi.

    Yoki cercava di zittire il fratello, che si stava infervorando sempre di più, alzando il volume della voce. Era troppo tardi, un’arciera stava già chiedendo ai goblin del villaggio chi si stesse nascondendo dietro le capanne, ordinando di andare a controllare. In un impeto di rabbia Koki balzò fuori brandendo il suo coltellaccio e sbraitando: Come osate dare ordini in un libero villaggio goblin? Yoki scrollò la testa, non era riuscito a fermarlo. Si vide costretto a seguire il fratello, anche se con poca convinzione. L’arciera che sembrava a capo del gruppo era più divertita che in allarme: E questi pagliacci chi sono, Sibri? Il goblin alzò le spalle, facendo segno di non averne idea. Koki non badò né a lui né alla donna che lo guardava con un sorrisetto irritante, ma si rivolse a tutto il villaggio, alzando al cielo il pugnale scintillane: Fratelli goblin, sono Koki di Grande Quercia, tirate fuori le vostre armi e difendete la libertà!

    Anche Yoki aveva sguainato il pugnale, ma nei suoi occhi c’era già rassegnazione. Non si sbagliava: nessun goblin si mosse di un millimetro, nonostante la netta superiorità numerica. Si limitarono a guardarli allibiti, come se avessero davanti due pazzi. Un attimo dopo le arciere circondarono i due fratelli, puntando gli archi. Yoki buttò subito a terra il pugnale e fu lui a disarmare il fratello prima che si facesse ammazzare. Koki stava ancora sbraitando e non smetteva di incitare i fratelli goblin. L’arciera a capo del piccolo gruppo non si era ancora tolta quel sorrisetto dalla faccia: Oh bene, abbiamo guadagnato due volontari per la sfida all’Arco Magno. Le compagne fecero una risata servile, mentre Koki, con il viso paonazzo, aveva iniziato a insultare gli abitanti del villaggio: Servi maledetti. Perché state lì impalati? Miseri vigliacchi!

    Continuò a ringhiare minacce e insulti anche mentre lo trascinavano via con le mani legate. Una delle arciere si rivolse a Yoki: E tu rosso numero due, non dici niente? Lasci fare tutto al tuo compare cialtrone?

    Yoki si passò un dito sulle labbra, facendo segno di essere muto.

    Maghi

    La magia è fatta di rituali. Formule e regole da rispettare. Così avevano insegnato a Tirosh durante il suo addestramento e lui aveva sempre seguito le regole e i rituali senza farsi troppe domande. Era appena diciottenne quando gli affidarono il compito che ancora oggi, quindici anni dopo, svolgeva scrupolosamente. Ogni dodici giorni partiva da Torre Bianca e si metteva in marcia verso nord, otto ore di cammino per raggiungere Galos, il villaggio più a sud del regno delle arciere. Arrivato a destinazione, entrava nella piccola capanna in muratura appena fuori dalla cittadina, dove lo aspettava il tributo che le arciere dovevano versare ai maghi come stabilito negli accordi di pace.

    Non aveva mancato un solo appuntamento e dopo aver passato la notte in quella che era diventata la sua seconda casa, ripartiva il giorno seguente per rientrare a Torre Bianca. Si chiedeva cosa sarebbe successo di lì a qualche mese, allo scadere di quel lungo periodo di tregua. Una nuova guerra? Gli sembrava impossibile, i maghi dei Colli non ne avevano intenzione e neanche le arciere di Galos e dei villaggi vicini, almeno secondo quanto gli diceva Elin la Cerbiatta. Aveva iniziato a frequentare la giovane arciera quasi subito durante quei soggiorni a Galos. All’inizio era stato il brivido di una relazione proibita, poi si erano davvero innamorati e ci era scappato anche un bambino, Licino. Ormai aveva tredici anni e dimostrava un’intelligenza fuori dal comune, stava apprendendo le tecniche di magia a una velocità che sorprendeva Tirosh. Elin ne era fiera e lo lasciava crescere come un vero mago, anche se viveva in una città arciera. Prima della guerra era normale, maghi e arciere dei Colli vivevano in armonia aiutandosi a vicenda. Ora però la situazione era completamente diversa, la Capitale aveva messo al bando ogni forma di magia e gli stregoni continuavano a essere considerati dei nemici. Laggiù a Galos però se ne infischiavano e spesso le arciere del villaggio avevano chiesto l’aiuto di Tirosh per piccoli incantesimi di guarigione. La Capitale era lontana e quelle donne si sentivano più vicine ai maghi dei Colli che alle spocchiose compagne della grande città.

    Tirosh era di nuovo in viaggio verso Galos, portando nella bisaccia i testi che aveva scovato per Licino: suo figlio gli chiedeva sempre qualcosa da leggere e sembrava assorbire ogni singola riga. Lo aveva implorato di portargli altre pergamene sul controllo del ghiaccio, un argomento che nessuno aveva affrontato se non il vecchio Ickay. Erano testi confusi, che Tirosh aveva sempre trascurato, ma il figlio si era appassionato e si divertiva a fare piccoli esperimenti. Tirosh stava meditando su quali nuove formule avrebbe potuto insegnargli, quando una voce allegra lo riscosse dai suoi pensieri: Tirosh! Mio bel mago tenebroso! Elin la Cerbiatta si stava sbracciando, correndo lungo il sentiero tortuoso della collina. Gli era venuta incontro per salutarlo prima di partire per la Capitale, dove avrebbe assistito alle celebrazioni per il compleanno della Regina e partecipato alla gara di tiro. Si abbracciarono, lui la baciò sulla guancia, lei sulla bocca, attirandolo con passione verso di sé. Gli prese la mano e si misero a camminare a passo spedito. Sono in ritardo Tirosh, devo raggiungere le altre a Colle Rosso, Murcia è già partita per andare a parlare con la Regina e la Sindachessa.

    Uhm e cosa si diranno?

    Di fare una pace definitiva, no? Quante volte ne abbiamo parlato?

    Sì, certo. E tu sei pronta per la gara di tiro? Il mago provò a cambiare argomento, parlare del futuro lo metteva sempre in agitazione.

    Elin invece era elettrizzata per quelle nuove prospettive: Cosa vuoi che me ne freghi della gara? Se Murcia convince quelle della Capitale, potremo finalmente vivere insieme, io, te e Licino. È assurdo che tu non ci abbia ancora portato a Torre Bianca.

    Lo so Elin, ma la situazione è ancora tesa.

    Non lo sarà più, Tirosh. Ne hai già discusso con il tuo capo?

    Il mago arrossì: Lo farò al ritorno.

    Elin si indispettì subito: E cosa aspetti? Tra qualche mese la tregua sarà finita.

    Norish non vuole un’altra guerra, ne sono certo. Bisognerà vedere cosa pensa Quattrotorri.

    Non c’è il tuo maestro lì?

    Sì, Thundosh è uno dei Colli e ci aiuterà, ma gli altri Signori non so cosa abbiano in mente.

    L’arciera si stava infervorando: Dovremmo mandare al diavolo la Capitale e Quattrotorri e accordarci tra le città dei Colli. Qua nessuno voleva la guerra e siamo stati quelli che hanno pagato il prezzo più alto. Sarebbe come ai tempi di Duncan, un nuovo Clan dei Colli.

    Tirosh scrollò la testa: Dai Elin, lo sai che non è possibile, la Capitale e Quattrotorri non lo permetterebbero mai.

    L’arciera non si dava per vinta: E chi ha detto di chiedere il permesso? Se unissimo le forze, terremmo testa a chiunque.

    Il mago non ne era per niente convinto e considerava quei discorsi come dei vaneggiamenti, ma non se la sentì di interrompere Elin, che continuava a sognare: Pensaci, io, te e Licino diventeremmo la prima famiglia di una nuova era. Un esempio per tutti.

    Una nuova era ripeté Tirosh sovrappensiero.

    Continuarono a discutere del futuro e della pace, fino a quando non raggiunsero un bivio: la strada principale proseguiva verso Colle Rosso e la Capitale, mentre un sentiero più stretto si infilava nel bosco, scendendo verso Galos. Devo scappare Tirosh, voglio raggiungere la Capitale prima possibile per parlare con l’Invocata dei Colli.

    Chi?

    Quante volte te ne ho già parlato? È successo 5 anni fa, una sorpresa per tutti.

    Sì, sì, certo si affrettò a rispondere il mago, senza avere ben chiaro a cosa Elin si stesse riferendo, per poi aggiungere: Beh, potrebbe essere d’aiuto.

    Per quanto ne so, non ha una grande influenza nel Concilio, però è lei ad avere costruito l’Arco Magno, insomma una cosa non da poco. È intima con la Regina ed è una brava persona. Elin si interruppe per proseguire a voce più bassa: Mi raccomando, non una parola a Torre Bianca sull’Arco Magno, è una confidenza.

    Tranquilla, lo sai che sono riservato.

    Elin fece la sua risata contagiosa: Oh sì, questo è vero, mio bel mago. Lo baciò di nuovo e si allontanò velocemente, pronta iniziare il suo viaggio. Tirosh la trattenne per un braccio: Aspetta, ti ho portato una cosa.

    Un regalo? Oh, finalmente fai un po’ il romantico anche tu.

    Il mago sorrise imbarazzato e tirò fuori dalla bisaccia un’ampolla ben sigillata, che conteneva un liquido denso.

    Una pozione di guarigione? Ma che meraviglia! E io che mi aspettavo un mazzo di fiori, una collana o chissà, un anello. Tirosh era risentito del sarcasmo dell’arciera, la sua pozione era la migliore di tutto il regno. Il viaggio verso nord è lungo e potrebbe essere pericoloso, una pozione mi sembrava più utile di un mazzo di fiori.

    Elin rispose con tono scherzoso: Come sei premuroso Tirosh, saresti proprio un ottimo marito.

    Il mago si limitò a balbettare qualche parola confusa guardando la compagna allontanarsi di corsa. Ricordava bene quando aveva fatto quella specie di promessa, solo qualche settimana prima. Era arrivato a Galos sotto una bufera di neve, che era continuata per tutta la notte. Il mattino i Colli erano completamente imbiancati e tornare a casa sarebbe stato impossibile. Così si era fermato a Galos anche il giorno successivo e quello dopo ancora. La tormenta non smetteva e decise di rimanere nella sua capanna fino a quando sarebbe dovuto tornare di nuovo a riscuotere il tributo. I maghi di Torre Bianca avrebbero capito la situazione. Furono dodici giorni meravigliosi, finalmente aveva tempo per godersi davvero Elin e Licino. Una mattina, mentre erano appena svegli e abbracciati sotto le pesanti coperte di lana, lasciò parlare l’istinto, senza pensare alle conseguenze, dicendo a Elin quanto sarebbe stato bello vivere per sempre così, come una famiglia, come marito e moglie. Elin si era aperta in un sorriso e aveva esclamato con gli occhi che brillavano: Sì! La mia risposta è sì, amore mio lasciando Tirosh in una confusione che fu subito scacciata dal calore dei due corpi che si univano con dolcezza. Era a tutti gli effetti una promessa. Ora il mago ne era terrorizzato, anche se amava davvero Elin e desiderava rimanere vicino a Licino. Il problema era un altro. Tirosh da dieci anni aveva già una moglie a Torre Bianca.

    Barbari

    Novantotto, novantanove e cento. Mortor si staccò dalla sbarra, aveva appena finito di fare le sue trazioni quotidiane. L’unica cosa positiva di essere diventato uno stallone era che poteva tenersi in ferma. Le sue carceriere lo tenevano ben nutrito e avevano acconsentito a mettere nella sua cella un paio di sbarre per le trazioni e un sacco per l’allenamento nel combattimento a mani nude. Non aveva neanche dovuto insistere troppo, in fondo era nel loro interesse che fosse in buona salute. Si allenava costantemente, prima o poi avrebbe trovato il piano giusto per uscire da quella dannata gabbia e sarebbe tornato a combattere. Completate le trazioni, iniziò a simulare i movimenti di un duello. Si muoveva rapido a destra e a sinistra, mimando parate, affondi e infilzando nemici immaginari. Una voce acerba mise fine alla strage: Mortor, hai visite. Era Lorette, la carceriera più giovane e anche uno dei suoi principali piani di fuga. Ci aveva messo un po’ a conquistarla, ma alla fine era riuscito a fare innamorare perdutamente l’arciera, grazie alle sue parole gentili e ai suoi grandi occhi azzurri ammiccanti. Le aveva promesso una vita da regina se fosse uscito da lì: oro, abiti con i migliori tessuti dell’Ovest, banchetti sontuosi e un posto al suo fianco per governare una città dell’Altopiano Barbaro. La ragazza, che passava la maggior parte del suo tempo a fare la guardia in quelle prigioni buie, aveva iniziato a fantasticare e ad assecondarlo, ma non era ancora riuscita a offrire al barbaro una concreta possibilità di fuga. Mortor le sorrise mentre entrava nella cella guardandolo con occhio languido. Lorette, scintilla nelle tenebre, mi riempie il cuore vederti. La ragazza arrossì e rimase imbambolata con gli occhi fissi sul petto scolpito e sudato del barbaro. Sospirò, parlando sottovoce: C’è una di quelle, sarà meglio se ti dai una lavata. Mortor si immerse nella vasca gelida, si gettò l’acqua sul viso, sui capelli biondi lisci e sulla barba che gli teneva curata proprio Lorette. La schizzò con l’acqua e lei fece la sua risatina sciocca. Dopo essersi asciugato si distese sul letto, era arrivato il momento di svolgere il suo compito da stallone. La ragazza si avvicinò e gli legò le mani alla sponda del letto con un nodo blando. Era la prassi e spettava alla carceriera preparare il barbaro per l’arciera che avrebbe cercato una figlia con

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1