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Un amore appeso a un filo
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E-book297 pagine4 ore

Un amore appeso a un filo

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Info su questo ebook

Maurizio, trentenne milanese, ha perso il suo lavoro a seguito della crisi del 1992. È in terapia per imparare a controllare la rabbia e per capire se suo fratello Samuele sia la causa dei suoi problemi, e da anni è fidanzato con Carol, ma le nozze sono state rinviate a una data imprecisata. La vita scorre monotona fino a quando Maurizio non incontra Isabel. E si innamora. Tra continue bugie, ardenti passioni e penetranti sensi di colpa, Maurizio giungerà a scoprire che nella vita della sua nuova amante si nascondono un segreto e un’importante decisione da prendere, che potrebbero far da contrappeso a quel terribile fardello che lui si trascina dietro da tutta la vita.
LinguaItaliano
Data di uscita24 nov 2017
ISBN9788863937725
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    Anteprima del libro

    Un amore appeso a un filo - Aurora Auteri

    SÀTURA

    frontespizio_Auteri

    Aurora Auteri

    Un amore appeso a un filo

    ISBN 978-88-6393-772-5

    © 2016 Leone Editore, Milano

    www.leoneeditore.it

    Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi ed eventi narrati sono il frutto della fantasia dell’autore o sono usati in modo fittizio. Qualsiasi somiglianza con persone reali, viventi o defunte, eventi o luoghi esistenti è da ritenersi puramente casuale.

    I

    «La mer qu’on voit danser, le long des golfes clairs, à des reflets d’argent, la mer des reflets changeants sous la pluie.»

    Il sobbalzare dell’automobile sulla strada sterrata faceva singhiozzare la voce di Charles Trenet, spezzandone le parole in una lingua per Samuele incomprensibile.

    Il bambino rimaneva in silenzio per tutto il viaggio, in quelle domeniche mattina, a guardare il nuovo apparecchio, autoradio si chiamava, che emetteva suoni. Era abituato a sentirli in casa ma a portarseli dietro, a sentirli mentre il padre guidava, sembravano diversi.

    Ogni tanto guardava fuori dal finestrino, vedendo il mare avvicinarsi sempre di più anche se, pensava, erano loro due ad andargli incontro.

    Non sempre gli risultava semplice ascoltare la voce del cantante, perché il padre, sommessamente, ripeteva quelle frasi all’unisono, accompagnandole con espressioni di rilassata spensieratezza. Sapeva solo che la mer voleva dire il mare, e questo gli bastava. Samuele si immaginava, poi, un testo tutto suo, in cui la voce del cantante francese spargeva parole come vento, onde, in una storia che va da sé, in cui una ragazza un po’ goffa di nome Claire rimaneva seduta sulla spiaggia, a fianco a un ragazzo di nome Jean, aspettando il buio. Era un’immagine che gli piaceva. Pensava che forse i sorrisi un po’ trasognati del padre potevano ricollegarsi a quella storia, in cui lui era Jean e Claire era sua moglie.

    Imbrigliato a questa fantasia, Samuele si faceva trasportare ogni domenica fino al mare e accettava di ascoltare quel brano, ogni volta, come se fosse un pensiero che entrambi in quell’automobile stessero rivolgendo alla moglie e alla madre rimasta a casa.

    I metri che dividevano il parcheggio dal posto barca non erano più di cinquanta. Samuele e suo padre imbracciavano, con l’aria di chi ha un affare importante da svolgere, le canne da pesca, i due cestini e un piccolo zaino. Di tanto in tanto l’uomo guardava il figlio e gli sorrideva.

    «Sei pronto a riempire il tuo cesto, questa volta?»

    Samuele annuiva, guardando dritto verso la piccola barca azzurra che li aspettava da una settimana sotto la cerata verde scuro. Una volta aveva scritto un piccolo racconto su quelle due compagne, immaginandosele mentre si tenevano compagnia in quei giorni in cui nessuno le vedeva, dando alla cerata il merito di proteggere la piccola barca nei giorni di pioggia e di vento. Gli sembrava proprio che la cerata l’abbracciasse con il suo manto verdastro, proteggendola da tutto e da tutti, assumendo, in quel suo fare amorevole, le stesse forme della sua protetta, come a diventare un tutt’uno.

    Samuele fantasticava spesso, su tutto, e i suoi apparenti silenzi erano in realtà grandiosi e intricati discorsi, in cui ogni cosa aveva vita ed era relazionata con un’altra.

    Il padre lo sapeva, gli piaceva, ne scrutava gli occhi sempre affaccendati a rincorrere qualche elaborata attività del pensiero o i capoversi che scalettavano le pagine dei libri che gli regalava. Samuele si nutriva di mondi di fantasia: li ingurgitava con la lettura e li cucinava con la penna. Anche quando andavano a pescare, erano pochi i minuti in cui il dodicenne teneva in mano la sua canna, perché in breve tempo il suo desiderio volgeva altrove, a storie di sirene, inventate sul momento, che in fondo a quel mare scappavano nel vedere i loro ami o al libro di racconti che il padre gli aveva donato e che portava sempre con sé nello zaino.

    La cerata fu lasciata ad aspettare in cabina, a guardare la sua compagna allontanarsi sul mare. Le sarebbe senz’altro piaciuto, pensava Samuele, andare con loro, almeno per una volta, su quella immensa cerata blu sempre in movimento.

    I minuti si lasciavano dietro altri minuti, ondeggiando sul quadrante al ritmo del mare. L’unica preda che abboccò alla lenza di Samuele fu la voglia di interrompere il suo pescare e di leggere i libri che lo attendevano nello zaino, animati dalla frenesia di raccontargli qualcosa.

    L’uomo che seguiva la pioggia

    Una stanza dalle pareti impreziosite dai capolavori di altri. Il fatto che si trattasse non di originali ma di semplici riproduzioni, poi, aggravava maggiormente i sentimenti di impotenza e insofferenza a cui gli occhi, fissi su quella carta stampata, aprivano le porte. Marcello le trovava per certi versi irritanti, perché non solo l’artista originale era riuscito a creare dei capolavori ma questi, riconosciuti straordinari dal mondo intero, avevano beneficiato anche della riproduzione, vero e proprio attestato di apprezzamento. Uomini di tutte le epoche, di tutte le storie, del cosiddetto «ogni dove» che, nel buio della loro mente, avevano trovato una scintilla di genialità che rischiarava quegli ombrosi antri.

    Il suo ombroso antro, invece, accoglieva solo una altrettanto solitaria eco, quella della sua volontà insoddisfatta che chiedeva di generare qualcosa, di creare, lo desiderava proprio ma non trovava creta da plasmare, note da legare, parole da rimare.

    Marcello lasciava trascorrere le ore, nella sua stanza, poteva quasi vederle scivolare lungo il muro, come su di una pista di pattinaggio, solo nell’attesa di altre compagne, leggere, poiché su nessuna gravava il profondo peso della creazione, dell’idea geniale a cui il pubblico sulle gradinate avrebbe applaudito, di cui i venditori ambulanti, fuori dalla pista, avrebbero venduto fedeli riproduzioni.

    Spesso aveva sentito dire che l’artista, quello più puro e romantico, era un animo tormentato, malato, perennemente alla ricerca di qualcosa, ma lui non riusciva a immaginare di cosa un uomo, una volta creato un capolavoro, avrebbe potuto ammalarsi, dietro a cosa avrebbe potuto tormentarsi, percorrendo quella strada che lo divideva da essa, massa informe ancora da generare. Non riusciva a spiegarselo anche perché lui stesso, che pure non si riconosceva artista, si sentiva in quel preciso modo! Se per essere artisti fosse bastato sentirsi artisti, magari uno di quelli tormentati, di certo avrebbe subito richiesto l’iscrizione all’albo dei grandi, ma quella non era l’idea che aveva scolpita in mente.

    Una volta che hai creato un capolavoro, pensava, non hai più nulla da patire, sei a posto con te stesso e con l’universo che hai contribuito ad arricchire. Non puoi chiedere altro, anche perché sarebbe da ingrati. Mettiamo il caso che ci sia un genio universale che dispensa un po’ di se stesso agli uomini di ogni tempo: non sarebbe corretto dare sempre alle stesse persone.

    Marcello non aveva mai sopportato l’immagine del genio recidivo. Detestava l’idea che una persona potesse avere più colpi di genio, vedeva il fatto come una privazione nei confronti di tanti che, come lui, aspettavano la propria occasione. Odiava visceralmente l’immagine d’ombra che questi eletti dal caso gettavano senza vergogna e senza coscienza addosso a quanti, forse con più impegno e fatica di loro, si cimentavano nella stessa arte. Erano sempre gli stessi i nomi che la moltitudine conosceva e di tutti gli altri nessuno sapeva niente.

    Un giorno aveva anche pensato di effettuare delle ricerche sui geni trasparenti, quelli non riconosciuti o solamente dimenticati perché rientranti nel raggio d’ombra di qualche artista ingordo, che aveva fatto più volte il bis alla mensa delle idee geniali.

    Marcello rimaneva fermo, in silenzio, aspettando che arrivasse anche il suo turno, con la mente plasmata a forma di scodella, con la speranza che una sorta di brodo artistico primordiale vi fosse riversato dentro così che potesse permeare tutto il cervello e guidare le sue mani verso la sua personale opera d’arte.

    Sì, perché Marcello era molto legato all’idea in un certo senso meccanica, cerebrale, dell’arte. Non credeva molto ai moti dell’animo, non concepiva l’arte come sfogo. Era maggiormente suggestionato dall’idea che essa fosse una particolare capacità di relazionalità, un riuscire a vedere connessioni tra eventi, oggetti, materiali, significati, laddove i più non coglievano nulla. Era convinto che gli bastasse renderle visibili per riuscire a generare la propria mirabile creatura.

    Un giorno, all’uscita da una mostra itinerante sulla storia dei tarocchi, si fermò in una delle sale del museo, dove era stato allestito una sorta di negozietto di gadget. C’era anche una donna che si dichiarava in grado di effettuare predizioni attraverso l’uso di un solo tarocco.

    Marcello, abbattuto dal suo continuo cercare l’idea giusta, si volle affidare alle indicazioni di un’estranea, chiedendosi se forse non avrebbe potuto trovare all’esterno quello che fino a quel momento aveva vanamente cercato all’interno.

    La donna lo fece sedere davanti a sé e gli disse di mischiare le carte, lasciando a lui il compito di sentire quando avrebbe dovuto fermarsi. Terminato quel mescolare, che Marcello avvertiva come un ruotare del suo destino, della sua vita, lui, in quanto richiedente, doveva porle una domanda specifica e, dopo averlo fatto, avrebbe dovuto spezzare il mazzo, mostrando alla donna l’ultima carta del gruppo che gli sarebbe rimasta nella mano destra.

    «Avrò un colpo di genio?»

    Marcello spezzò il mazzo e mostrò alla donna una carta raffigurante un carro. Arrivò la risposta: «Sì. In un giorno di pioggia, avrai un colpo di genio».

    Le parole così perentorie e così sicure riversate in quel calice vuoto che Marcello sentiva di essere, lo riempirono e inebriarono di ansiogeno ottimismo e il suo cervello cominciò a mettersi in moto, o forse, sarebbe più corretto dire che il suo cervello mise in moto lui.

    Dopo il vaticinio di quella donna dagli occhi scuri e senza luce, Marcello trascorse due interi giorni senza dormire, riempiendo i minuti di ciascuna di quelle quarantotto ore scegliendo e mettendo da parte oggetti vari e vestiti. I primi trovarono ordinato posto all’interno di un grande baule mentre i secondi divisero lo spazio con gli oggetti occorrenti per la toelettatura, dentro valigie rigide comprate per l’occasione.

    Il terzo giorno, Marcello era pronto per uscire da quello stato di artistico torpore e soprattutto era pronto per partire. Mancava solo una cosa, un dato.

    Fermo all’ingresso di quella grande casa comprata e mantenuta con rendite ereditate dal padre e ancora prima dal nonno, Marcello aspettò che il domestico gli si affiancasse e gli suggerisse: «Udine».

    Come all’aver udito una parola d’ordine, Marcello si infilò i guanti, alzò il bavero del cappotto imbottito, aggiustò il cappello e con lo sguardo rosso e lucido per la stanchezza si diresse alla grande automobile che lo aspettava davanti la villa, già carica delle valigie e del baule.

    «A Udine» indicò all’autista e la vettura cominciò così quel viaggio senza ritorno.

    Da allora, Marcello visitò innumerevoli città, borghi, paeselli sperduti, sempre con a seguito l’autista, i suoi bagagli e la pioggia. Sì, perché ciò che Marcello seguiva era lei: la pioggia. Aveva deciso di non starsene seduto in casa ad aspettare che le perturbazioni scegliessero di adombrare la sua stanza e rischiarassero la sua mente con la geniale intuizione. Aveva altresì deciso di andare incontro a quella pioggia salvifica che avrebbe irrigato il suo talento fino a quel momento così nascosto.

    Seguendo la pioggia avrebbe seguito il colpo di genio. La meteorologia divenne la sua nuova scienza; del resto, lo stesso Aristotele ne aveva dispensato il nome e chi meglio di lui poteva conferire sacralità alla sua impresa.

    Marcello non rimaneva mai per più di una settimana in un posto e, soprattutto, non rimaneva mai in un luogo che non fosse battuto dalla pioggia. Aveva portato con sé gli strumenti più disparati: scalpelli, pennelli, spartiti, fogli bianchi e penne stilografiche, perché non sapeva quale arte avrebbe scelto quel suo genio così timido e meteoropatico. In ogni stanza d’albergo apriva quel suo grande baule e ne estraeva tutte le ferraglie con cui l’uomo viviseziona e duplica l’arte, in un processo di mimesi creativa.

    Gli anni si susseguirono uno dopo l’altro al suono del ticchettio della pioggia sui vetri di una stanza costantemente illuminata da una lampada ma non dal genio, sull’asfalto o il ciottolato di una strada su cui Marcello passeggiava solitario, seguito solo da un’umida ombra che via via si annegava nelle pozzanghere.

    Aveva imparato a conoscere i diversi tipi di pioggia, quella fine e fitta dell’acquerugiola, quella decisa e battente dei temporali, quella pungente e trasversale piegata dal vento.

    Il tempo passava, a temporali in città ne succedevano altri in campagna e altri in alta montagna ma la sua attesa stava ormai collassando in quel tumultuoso mare verticale che stava tagliando, rinchiuso in una goccia al cui interno sembrava ormai esserci spazio solo per lui.

    Mentre la sua vita si riempiva così solo di pioggia e di camere d’albergo, anche il suo autista lo lasciò al suo destino, avendo già resistito oltre ogni aspettativa a quel rincorrere la grigia luce piovosa sotto cui un ormai vecchio Marcello stava lentamente spegnendosi.

    «Nella giornata di domani, si prevedono schiarite in tutto il Nord Italia, fatta eccezione per il torinese, su cui in serata insisteranno ancora medie precipitazioni.»

    «Gianluca» disse con un fil di voce al nuovo autista «portami a Torino.»

    Lasciandosi così alle spalle quei flebili raggi di sole che stavano lambendo i tetti di Varese, Marcello raggiunse il capoluogo piemontese nel tardo pomeriggio, trovando respiro nell’umidità che incollava l’aria, incantamento nel movimento costante dei tergicristalli sul parabrezza e dolce nenia nello scrosciare della pioggia sulla vettura.

    Si sentiva come nel ventre materno, l’acqua era diventata il suo liquido amniotico, nell’attesa di un parto geniale rincorso con le gambe per tutta la vita, per tutta l’Italia, per tutta l’Europa. Ora, però, quell’acqua stava spegnendo la sua candela votiva.

    In piedi nella hall di un albergo, alzò gli occhi sui quadri appesi alle pareti, sui manifesti pubblicitari affissi per la strada e che si intravedevano tra le tende di ottima fattura appese alle finestre.

    Tanti uomini avevano contribuito a creare qualcosa. Lui, se ne rendeva conto, non aveva creato nulla. Anche tutti gli individui presenti in quella stanza erano stati creati da qualcuno, erano creature in grado di creare altre creature. Lui non aveva fatto nemmeno quello. Era un creato, non un creatore.

    Si sentì mancare. Un uomo, abbandonando la donna a cui si accompagnava, corse in suo soccorso.

    «Prego, si sieda qui, su questa poltrona.»

    «Grazie.»

    «Ha un sacco di bagagli. Viene da molto lontano?» gli chiese nel tentativo di distrarlo e cercando con gli occhi qualcuno che potesse essere con lui.

    «Ormai non lo so più. So dove ero diretto ma ormai non ha più importanza.»

    «Perché, non raggiungerà mai quel posto?»

    «Temo di no. Forse l’ho cercato nel modo e nei luoghi sbagliati e ormai non c’è più tempo, non c’è più speranza.»

    «Chi le ha parlato di speranza le ha parlato di una chimera, di una sirena dai bei capelli e dal bel canto che tuttavia incanta ma non esaudisce i desideri. Ti accompagna in vita e ti abbandona in morte.»

    «Quanto ha ragione lei.»

    «Che cosa stava cercando?»

    «L’intuizione artistica, il colpo di genio, quella relazionalità tra due idee, cose o eventi che genera un’opera d’arte.»

    «E dove avrebbe cercato tutto questo?»

    «In un giorno di pioggia. Io non ho fatto altro, in tutta la seconda parte della mia vita, che seguire la pioggia, cercando dentro a ogni sua goccia una porta per quella dimensione che mi è sempre stata preclusa, un distillato di genialità. Ma ora, è divenuta solo veleno, laudano privato del calore dell’oblio. Ho annientato ogni cosa, ogni persona, ogni possibilità. Ora sto morendo e non ho idea di che cosa mi aspetterà.»

    «Stia tranquillo, non c’è nulla ad aspettarla. Se avesse impiegato l’intera vita a cercare la risposta a questa domanda, allora sì che l’avrebbe di certo sprecata.»

    Marcello corrugò la fronte, guardando intensamente quell’uomo con gli occhiali e dai capelli scuri tirati indietro. Lo fissò intensamente.

    «Cosa c’è? L’ho turbata forse? Devo aver esagerato in effetti…»

    «No, è che… i suoi occhi… per un attimo, mentre mi parlava, mi sembravano gli occhi della morte… forse sono così. Quando verrà, controllerò se avrà i suoi occhi…»

    Non ci fu tempo per Marcello di soffermarsi su questo suo pensiero, di controllare se potesse relazionarlo a qualcosa, fissarlo sulla carta e nella storia.

    Marcello morì, in quella hall, in un giorno di pioggia, davanti a uno sconosciuto.

    «Ce’» chiamò la donna con accento straniero lasciata in disparte dall’uomo «Cesare? Ma che cosa è successo? Chiamo un medico?»

    «Quest’uomo è morto. Ha detto che avevo gli occhi della morte. Tu pensi che la morte possa avere effettivamente uno sguardo? Io saprei benissimo quali occhi avrebbe per me.»

    «Ma chi era quest’uomo? Un altro scrittore? Lo conoscevi?»

    «No, ma ha avuto un’intuizione geniale, anche se non lo saprà mai.»

    Fine

    II

    Non sempre capiva cosa volessero significare quei racconti e a volte non era in grado di coglierne i riferimenti. In questo spesso nemmeno il padre poteva aiutarlo, come nel caso dell’uomo che aveva seguito la pioggia fino a incontrare Cesare Pavese. Gli piaceva però costruirsi sue personali interpretazioni, imparare parole nuove e cominciare poi a scrivere storie tutte sue.

    Tornati sulla spiaggia, Samuele aiutò il padre, più con la volontà che con la forza di cui è dotato un bambino, a trainare le alzaie e a far scorrere la piccola barca sullo scivolo inclinato, fino al bagnasciuga.

    Era sempre lui il primo a correre, moderatamente, verso la cabina per liberare la cerata e ricongiungerla con la sua amica di legno, così che la seconda potesse raccontarle, nel silenzio cotto dal sole allo zenit, della battuta di pesca e riportarle gli ultimi segreti del mare.

    Samuele un po’ invidiava quelle due mute amiche. La volta successiva, pensava, avrebbe accuratamente piegato quella coperta di plastica e l’avrebbe portata con loro, così che anche lei potesse abbandonare per un po’ la terraferma e godere di una piccola avventura.

    Con la mente aperta a questo pensiero, aveva preso posto sulla vettura, proiettando sul finestrino immagini trasparenti che nel pomeriggio avrebbe fissato con l’inchiostro sulle pagine di un quadernetto ricevuto in dono per il suo compleanno. Lì raccoglieva tutti i suoi racconti inventati, celati da una copertina marroncina a occhi estranei ai suoi. Su quelle distese rigate, secondo rotte dettate dalla sua fantasia, la piccola barca e la sua rigida amica, solcavano le pagine assieme al foglio che voleva rimanere bianco.

    Il foglio che voleva rimanere bianco

    Non c’era inchiostro che tenesse. Ogni volta che quell’uomo tentava di scrivere qualcosa, questo si riversava dalla stilografica come un fiume che rompe i suoi argini metallici, inondando il pennino e straripando sul foglio, ormai da gettare tra la carta straccia.

    Era da parecchi mesi che era impossibile per lui fissare un qualsiasi pensiero su carta: ogni volta che si gettava sul gruppo di fogli impilati sullo scrittoio, animato da quello che riteneva essere il sacro fuoco dell’arte scrittoria, questi o venivano sparsi per la stanza da un’improvvisa folata di vento o l’inchiostro replicava le sue esondazioni.

    Anche quando aveva deciso di raggirare questo inspiegabile problema ricorrendo alla macchina da scrivere, il meccanismo s’inceppava, i martelli s’incastravano, i caratteri non imprimevano segni o il carrello mangiava la carta.

    Il suo nervosismo cresceva ogni giorno di più. Chiedeva in giro se anche altre persone avessero mai avuto un problema simile ma non trovava mai chi potesse annuire ai suoi racconti o alle sue domande.

    Aveva cercato anche di trovare risposte nei libri e nelle enciclopedie, scorrendole iniziale per iniziale. Quando arrivò alla S e alla voce «sindromi» pensò di aver trovato la risposta al suo problema: sindrome da foglio bianco. In fondo, era proprio quello che in qualche modo capitava a lui. Non riusciva a imbrattare quei maledetti fogli con le sue idee, con tutte le cose geniali che aveva da dire al mondo intero.

    Forse il problema era lui, non la carta, la penna, la macchina da scrivere. Forse era lui che in realtà causava quegli incidenti perché temeva di non avere grandi intuizioni da imprimere su un foglio.

    Eppure si stimava molto, aveva una gran considerazione di sé, considerava un grande peccato che tutto quello che aveva da dire rimanesse muto nella sua mente, invisibile agli occhi degli altri.

    Sindrome da foglio bianco… sindrome da foglio bianco… Andava ripetendo queste parole per la stanza, gettando un occhio su quella invalicabile montagna di carta porosa, fino a decidere di portare i suoi pensieri a passeggio, lungo le strade che arrivavano alla ferrovia.

    «Sindrome da foglio bianco! Ma ti rendi conto? Sarebbe più corretto dire sindrome del foglio bianco!»

    La voce si alzava da quella bianca montagna di carta adagiata sullo scrittoio, a fianco alla finestra. «È stato già terribile e svilente raccogliere tutti quei pensieri banali e così mal scritti per gli ultimi due anni. Adesso basta, mi rifiuto!»

    «Eh già» le confermò la boccetta d’inchiostro «era davvero uno scempio dover scrivere quelle frasi così già sentite, così prive di originalità, di creatività, di bellezza. Ogni goccia che lasciavo era una parte vitale di me che si sacrificava inutilmente, annegata in un mare d’inutilità, pochezza e bruttura.»

    «Mi chiedo perché certi individui sentano il dovere di condividere con altre persone il vuoto che hanno dentro, spacciandolo per arte creativa» aggiunse la macchina da scrivere. «Di certo, il mondo non ne sente il bisogno. Tutti che si credono scrittori, tutti che credono di aver concepito il romanzo o le poesie di una vita, quello che fino a quel momento mancava all’umanità.»

    «Sogni di gloria e un’esaltazione personale del tutto fuori luogo» precisò la finestra. «Non lo sopporto. Con tutta quella presunzione e quell’arroganza che solo un ignorante può avere e ostentare. Non potevo affacciarmi alla stanza di un contadino o di un vero letterato? No, dovevo

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