Poesie uroboriche
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Uroborico deriva da Uroboro (meglio conosciuto come “Ouroboros” che in greco significa “serpente che si mangia la coda”).
È un simbolo molto antico e rappresenta, appunto, un serpente o un drago che si morde la coda, formando un cerchio senza inizio né fine.
Apparentemente immobile, ma in eterno movimento, rappresenta il potere che divora e rigenera se stesso, l’energia universale che si consuma e si rinnova di continuo, la natura ciclica delle cose che ricominciano dall’inizio dopo aver raggiunto la propria fine.
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Anteprima del libro
Poesie uroboriche - Oliviero Angelo Fuina
Fuina.
PREFAZIONE di Andrea Leonelli
In questa silloge, che giustamente il poeta ha intitolato Poesie uroboriche
, ritroviamo molteplici elementi di ciclicità, sia per lo stile, sia per la ricorsività di immagini e contenuti. L'idea è stata certamente studiata nella costruzione di reiterazioni periodiche.
Le tematiche maggiormente affrontate sono la scrittura, vista sia come un sollievo, sia come una pena autoimposta. Si indaga sull'utilità reale, per lui, di scrivere, su quale forma dare alle sue opere per esprimerle al meglio e cosa inserire come contenuti per esaltarne lo stile: una tossicità letteraria che ha come effetto collaterale lo svuotamento emotivo. Se da un lato comporre poesie lascia libertà dalla pena, lascia anche inaridito il poeta che trasfonde la carta con la sua anima, sacrificandosi per l'arte.
Ho perso di poesia ogni mio afflato
Ho perso, di poesia, ogni mio afflato
nulla di nuovo pulsa nella penna
la metrica è ancora nella gabbia
ma i numeri non bastano alla somma
Spesso però, il poeta, che rimane come in fin di vita a causa del suo dare, si trova a chiedersi se ne sia valsa poi la pena. Se il riconoscimento ottenuto per il suo sacrificio emotivo, anche agli occhi di chi legge e giudica, sia abbastanza significativo da renderlo soddisfacente.
Non sono il poeta che scrivo
Mi chiedo se a scrivere per gli altri,
usando giusti lemmi e mestiere,
un poeta abbia stessa valenza
di chi intinge nei graffi il silenzio
Fuina, uomo fin troppo sensibile, si chiede, con insistenza, ciclicamente, se il dolore provato sia sufficiente a scrivere cose degne, e se ciò che scrive sia vera arte (e vi assicuro che lo è). Indaga se stesso tramite un'analisi decisamente troppo impietosa di quanto messo sulla carta.
Aveva i nomi in punta di inchiostro
Più non riesco a scrivere il dolore,
brezza che poesia più non sostiene,
soffro il verso nell'inedia scelta
sopravvivere è come morire.
Quando analizza sé, guarda il mondo circostante, cogliendone le situazioni di disagio sociale ed esistenziale. Poi torna a passare al vaglio se, quanto colto, coincida con la sua visione. Se quanto da lui espresso dalla coscienza di sé, sulla carta, rifletta quanto lo circonda.
Ritorna, come camminasse su un nastro di Moebius, a ripercorrere le