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Corpora: Una storia d'amore e di guerra
Corpora: Una storia d'amore e di guerra
Corpora: Una storia d'amore e di guerra
E-book627 pagine5 ore

Corpora: Una storia d'amore e di guerra

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Info su questo ebook


La misteriosa scomparsa di un aereo da turismo tra gli atolli tropicali.
Un solo superstite colpito da amnesia.
Anna comprende perfettamente che non sono le giuste premesse per una relazione, ma si ritrova coinvolta suo malgrado nell’incubo quotidiano di Gabriel.
Tutta la vita del giovane infatti rischia di trasformarsi in un’allucinazione a occhi aperti, mentre la memoria gli restituisce i brandelli sparsi del suo recente passato.
Comincia così un thriller fantascientifico, con ampie concessioni alla psicologia, che unisce all’intreccio improvvise aperture sul mistero della psiche e dei sentimenti umani.
 
LinguaItaliano
Data di uscita27 feb 2017
ISBN9788893780254
Corpora: Una storia d'amore e di guerra

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    Anteprima del libro

    Corpora - Marina Brotto

    Pessoa

    PROLOGO

    QUI

    Il vecchio teatro cittadino era gremito: non c’era da stupirsi, poiché, essendo una replica serale, i parenti degli attori e i loro amici erano sufficienti a riempire i trecento posti disponibili sui palchetti ottocenteschi.

    In platea, circondato da qualche abbonato nostalgico dei tempi della propria esperienza liceale, c’era anche un critico del quotidiano locale, la cui opinione poteva però influenzare la preside circa la partecipazione della compagnia al concorso nazionale.

    Quell’anno mettevano in scena una rivisitazione di una nota opera di Pirandello.

    Enrico IV, già strizzato nel costume di scena, con la rossa capigliatura lucidata a gel e il mantello fissato al gomito destro, spiava oltre il sipario con aria assorta, mentre una compagna esasperata – ed esasperante - gli pettinava il pizzetto, e cercava di convincerlo a passarsi sul viso un nuovo strato di cerone: sotto ai riflettori le gocce di sudore sulla fronte avrebbero scintillato come stelline di carta stagnola al concerto di Natale.

    Ma l’attore la respinse, per tornare a concentrarsi sul dialogo che si stava svolgendo a pochi metri da lui. Quindi respirò a fondo, lasciando penetrare nelle narici l’odore acidulo della cera del palco, nel tentativo, vano, di tacitare l’ansia scatenatasi al comparire di una nota figura, quando questa si era seduta in penultima fila, poco dopo che in sala le luci erano state abbassate.

    Gesticolando più del dovuto, l’interprete di Belcredi polarizzava su di sé l’attenzione del pubblico. Stava dicendo:

    "Noi non credemmo affatto dapprima, che si fosse fatto male sul serio."

    La compagna che impersonava Donna Matilde fece allora un breve passo di lato, senza però accorgersi di non essersi voltata del tutto verso la platea. La sua voce giunse così affievolita, e contrastata dal brusio di un paio di ritardatari.

    Niente, sa. Neanche la minima ferita!

    Forse per suggerirle di alzare il tono, Belcredi urlò:

    Si credette soltanto svenuto…

    A qualche metro dai loro piedi una telecamera amatoriale, fissata su un supporto a binario mobile, riprendeva la rappresentazione con inquadrature variabili a comando della regista, che si sforzava di inviare segnali cifrati anche all’addetto alle luci. Al suo fianco, appollaiata rigida su uno sgabello come su un trespolo, una ragazza contemplava il tutto, pensando a come trattenere impressioni e giudizi sul blocco per appunti: il giornalino scolastico pretendeva un buon articolo.

    Ma i fogli davanti a lei erano ancora tutti bianchi.

    Anna aspettava una scena in particolare, no anzi un personaggio… e il suo cuore in tumulto le impediva di cominciare a scrivere. Protetta dalla semioscurità, avrebbe però potuto arrossire senza vergogna. In quella fortunata situazione sarebbe passato inosservato se i suoi occhi, a un tratto, avessero brillato quanto un faro, e ciò la rendeva libera di aprire la porta alle sensazioni straripanti che le premevano dentro.

    Prese a giocherellare con la matita e disegnò una corona… prima di rompere la punta per la troppa pressione.

    Giulia Dossi della quarta D era ancora sulla scena, tentando inutilmente di bilanciare l’urlato del compagno. Un Belcredi biondo e allampanato, comunque credibile nel primo atto assai più che nel finale.

    Recitava ognuno per burla la sua parte.

    Anna giudicò che le sue parole contenessero una confessione sul valore dell’intera compagnia.

    Donna Matilde rincarò la dose:

    Lei immagina, dottore, che spavento, quando si comprese che egli invece, la sua, la recitava sul serio?

    Alludeva alla performance di Gabriel De Marchi, naturalmente. Già: Anna avrebbe scritto questo sul proprio articolo.

    La sua matita ora girava ossessivamente sulla carta, unendo parole a caso a quel solo nome: Enrico IV.

    Quando lui entrò – tra il clamore scontato del pubblico, un misto di gridolini, applausi, ma anche fischi – per lei si fece caldo come col solleone, e non soltanto per le luci impietose che scatenarono sulla scena.

    Gabriel non sembrava a disagio neppure con quei dialoghi imbalsamati, le cui parole dopo tanti anni suonavano vecchie come una cantilena della nonna. Lui vi metteva tanta convinzione, forza, rabbia, dolore persino, che gli ascoltatori finirono per credergli.

    Nell’articolo Anna avrebbe espresso il concetto semplicemente parafrasando Pirandello: non si ritorna indietro d’ottocento anni nella storia senza portarsi appresso un po’ d’esperienza, e a quella scuola Gabriel era diventato sapiente.

    Illuminato da davanti come se fosse salito sul carro stesso di Apollo – non era il dio delle arti? – sulla scena Enrico IV sfogava il suo animo tormentato:

    Nessuno vorrebbe riconoscere quel certo potere oscuro e fatale che assegna limiti alla volontà…

    Se anche lei avesse potuto realizzare ciò che sentiva di volere… Ma sospettava che la meta fosse troppo alta rispetto alla portata del suo arco.

    … vi scivola, vi sguscia come una serpe qualche cosa di cui non vi accorgete. La vita! E sono sorprese, quando ve le vedete consistere davanti. Così sfuggita a voi, ire contro voi stesso; o rimorsi; anche rimorsi. Me li sono trovati davanti che era la mia faccia stessa, ma così orribile, che non ho potuto fissarla…

    La ragazza per un attimo credette che stesse parlando proprio a lei.

    ALTROVE

    La seconda luna di Thyndar tramontava in un’alba lattiginosa, quando la navetta del trasporto prigionieri attraccò al molo della Torre di Confine. Per ragioni di sicurezza, su tutto il pianeta lo spazio aereo era stato chiuso per qualsiasi altro volo in entrata o in uscita.

    Il Lord Protettore in persona comandava una schiera armata di Dakkain in assetto da battaglia, disposti su due file parallele: scortavano un solo uomo, al centro, incatenato e vestito con la divisa verde della Cavalleria spaziale, ma sprovvista di insegne militari, anzi vistosamente strappata dove un tempo erano state alloggiate.

    Nel silenzio assoluto della fortezza, il fragore metallico degli stivali rimbombò nei corridoi dei sotterranei, accompagnato soltanto dal sibilo delle porte pneumatiche e dallo scandire secco dell’attenti a ogni drappello di guardia che incontrarono.

    Alla fine raggiunsero la Sala delle Esecuzioni, di fronte al Consiglio di Guerra convocato al completo.

    Quando i ceppi energetici che legavano il prigioniero ai polsi e alle caviglie furono inseriti nei supporti alla base della Roccia delle Origini, un proiettore a sinistra riprodusse l’ologramma del Maestro dell'Inquisizione nei suoi paludamenti scarlatti, mentre a destra comparve il volto alterato del principe Heidan, ancora solcato dalle chiazze scure prodotte dal veleno degli Shitri, infruttuosamente usato dai congiurati.

    Infine al centro, assiso sul Trono del Cielo, si manifestò l’Imperatore, folgorante nella sua ira, e affiancato dall'Astor Fulvo, simbolo ancestrale del suo potere.

    Egli non pronunciò parola: con la mano destra, regalmente, picchiò tre volte a terra con lo Scettro del Tempo.

    La sentenza ora era definitiva.

    Il prigioniero, costretto a stare in ginocchio con le braccia incatenate alla pietra luminescente, rimase in ostinato silenzio, né girò la testa a guardare per l’ultima volta colui che lo aveva condannato.

    Parlò invece il supremo Giudice, custode dei Libri della Memoria e della Tradizione:

    Kastiel Rheim di Goram, sei stato giudicato colpevole di Alto Tradimento e Lesa Maestà, sulla base della testimonianza giurata delle Dame della Chiara Signora e dell’Esame del Maestro dell’Inquisizione. Quanti cospirarono con te hanno già pagato le loro colpe secondo il proprio grado e le nostre Eterne Leggi. Oggi anche tu renderai conto dei tuoi crimini.

    Alla destra di suo padre, il principe Heidan puntò lo Scettro della Giustizia in direzione del condannato: la roccia cominciò a vibrare, e assunse un’intensa colorazione rossastra, da trasparente che era. Un calore innaturale si diffuse per tutta la sala.

    Ciascun membro del Consiglio di Guerra pronunciò a turno la formula rituale:

    È la Legge. È giusto.

    Il capitano dei Dakkain stracciò la giubba che copriva le spalle del suppliziato, e ne denudò la schiena fino alla base della colonna vertebrale. Sulla sua pelle erano ancora visibili i tatuaggi del rango e lo stemma della famiglia, tra le cicatrici dell’Esame e le ferite più recenti della procedura standard per gli interrogatori.

    Aiutato da due soldati, l’ufficiale estrasse dalla gabbia il Bennu Rubro, animale simbiotico del principe Kastiel sin dalla nascita, e con la spada ne spiccò di netto le ali dal busto. Un identico gridò uscì allora dalla gola del volatile e da quella del prigioniero.

    Infine fu attivato l’Estrattore, con le sue appendici flessibili simili a tentacoli provvisti di aghi ipodermici, che furono inseriti in più punti della spina dorsale dell'uomo.

    La procedura di espianto del sistema neuronale periferico sarebbe durata una ventina di microtempi, ma pietosamente un Dakkain tagliò i polsi al condannato e gli recise la gola, perché la morte del corpo sopraggiungesse prima.

    I cadaveri della maggior parte dei congiurati erano stati inceneriti e dispersi nello spazio siderale, affinché non se ne conservasse traccia su nessuno dei Mondi civili, come prescriveva la Tradizione.

    Il corpo del loro capo, invece, ricomposto e vestito con una divisa militare semplice e senza insegne distintive, fu chiuso in un sarcofago di netronio.

    Dopo i tre giorni stabiliti per legge, anche se nessuno lo aveva vegliato secondo il rito del suo pianeta natale, la bara fu sepolta a seicento metri di profondità in una caverna di ghiaccio su Uno, il mondo d’origine della Razza colonizzatrice.

    I ventotto vermi unoriani degli Immortali coinvolti, furono poi dispersi nei Mondi primitivi della fascia esterna, e affidati a vettori occasionali fino al momento dell’Estinzione.

    1

    Ogni benedetta mattina Anna arrivava davanti al portone della scuola con un ampio margine di anticipo, ma non amava trovarsi ingoiata dallo sciame umano che si spostava intruppato lungo i tre piani di scale allo scoccare dell’ora x: zaini e pupazzetti conficcati nelle schiene dei vicini, aliti da sonno appena mascherati dall’aroma del caffè, zaffate di deodorante e gel per capelli profumati alla frutta.

    Dopo qualche minuto, invece, l’atrio si spopolava, e allora lo attraversava senza fretta, trascinando il corpo riluttante fino alla 4F: secondo piano, sesta aula a sinistra.

    Il suo banco era nell’ultima fila, proprio nell’angolo tra le due pareti, in modo che vi ci si potesse rincantucciare e poggiare la schiena come un animale braccato, o come una statua nella sua nicchia, secondo il parere della prof di matematica la prima volta che l'aveva colta completamente assorta nei suoi vagabondaggi mentali.

    Quella era inoltre l’unica fila con tre banchi, non soltanto perché la scolaresca era in numero dispari, ma anche per permettere alle sue due compagne di ignorarla completamente: comportamento di cui, peraltro, il più delle volte le ringraziava, e che ricambiava di cuore.

    Non che non amasse ascoltare il resoconto minuzioso e la cronistoria delle loro avventure del pomeriggio precedente, solo che non sapeva dimostrare tutto l’entusiasmo necessario, e ottenere così l’ammissione al club ristretto delle confidenti di Pam, la ragazza che sedeva alla sua destra.

    Pamela Cairoli era stata eletta, a grande maggioranza, Miss liceo, evento raro per una studentessa che non fosse all’ultimo anno, e indice di grande popolarità: se venivi bocciata al suo esame non esistevano perciò possibilità d’appello. Forse un sorrisetto di circostanza, se le capitava di aver bisogno di copiare la versione di latino. Ma non essendo neppure una sgobbona nel vero senso della parola, l’utilità di Anna si riduceva così, il più delle volte, a ben poca cosa.

    Quella mattina alla prima ora mancava la professoressa di inglese. La supplente decise di sobbarcarsi dell'onere di fare l’appello.

    Arese Carlo… Marconato Sara… Perin Alinor.

    Nessuno rispose a quel nome, così parecchi compagni si girarono a fissare l’alunna distratta, che infatti non si era ancora accorta di niente, e si sentì all’improvviso al centro della ribalta. Una gomitata alle reni, accompagnata da un Svegliati!, la convinse a dare retta alle parole della donna in cattedra.

    Perin Alinor ripeté quella da dietro un paio di scintillanti occhiali Gucci.

    Eccola mormorò lei infine, alzando anche un braccio, ma decisamente con troppa enfasi: altre risate.

    Ah, allora c’è, signorina cinguettò la sfinge, spostando subito dopo la propria attenzione sul nome successivo dell’elenco.

    In quel preciso istante, Anna immaginò di cancellare il sorriso sarcastico dalla bocca di Pam con un diretto ben piazzato, ma nella realtà si contentò di abbassare la testa e dondolare leggermente sulla sedia, tornando a immergersi nel turbine caotico dei suoi pensieri.

    Alinor: che diavolo era passato nella mente ai suoi genitori per spingerli ad affibbiarle un nome del genere? Contava poco che non lo avessero in pratica mai usato: se lo ritrovava sulla bocca di ogni nuovo insegnante dai tempi dell’asilo, e suonava all’incirca come un titolo usurpato.

    Perché dare un nome così particolare ad un esserino smilzo e insignificante? sembrava essere l’opinione comune. Esile, ma con i lineamenti marcati, sin da bambina si era distinta soltanto per le lunghe trecce e i grandi occhi verdi che non sapevano piangere, neppure quando in cortile la chiamavano in coro ghostbuster.

    Anna aveva infatti una carnagione bianchissima, e una folta massa di capelli castani. Quasi nessuna delle sue caratteristiche fisiche ricordava quelle di sua madre, che era invece una bella donna dai tratti morbidi e tipicamente mediterranei. Anche per questo motivo da bambina l’aveva tanto ammirata, così paziente e dolce, incapace di arrabbiarsi sul serio.

    La signora Perin era una persona forte, ma ormai molto solitaria. Poteva raccontare storie per ore, però parlava pochissimo di sé, e non rispondeva mai a domande dirette. Da quanto tempo non sentiva più la risata di sua madre?

    Riscuotendosi all’improvviso dalle sue riflessioni, la ragazza dirottò lo sguardo verso la finestra alla sua sinistra, dove le gocce di pioggia scivolavano su uno spesso strato di polvere, malinconico commiato di un inverno per altro tepido.

    Presto sarebbe giunta la primavera, la sua stagione preferita, quando la routine scolastica non concludeva le sue serate alle ventidue e sua madre ancora non insisteva per costringerla a frequentare tutte le iniziative della parrocchia, dove Pam godeva di un notevole entourage, quando soprattutto cominciava ad indossare maglioncini leggeri che delineavano le sue forme senza essere provocanti.

    La successiva ora di lezione portò un cambiamento interessante, e la catapultò tra i versi degli elegiaci latini. Poi, con un nesso che poté cogliere solo in parte a causa del brusio persistente, la fece rimbalzare ancora più indietro nel tempo tra affascinanti fanciulle egizie, che sapevano catturare l’attenzione di un uomo con la loro chioma, quasi fosse un cappio. L'immagine mentale, suggerita da quelle parole, era abbastanza suggestiva da convincerla a sintonizzarsi del tutto sulla spiegazione:

    La poesia d'amore dell'antico Egitto era un genere letterario documentato già per l'età ramesside, stava dicendo in quel momento l'insegnante, e talvolta poteva essere affidata alla voce narrante della fanciulla protagonista.

    Dare spazio all’immaginario femminile nell’antichità? Per forza se ne erano conservati soltanto pochi frammenti!

    Anna sospirò.

    A quel punto, tra i rumori di fondo e l'affannosa rincorsa agli appunti della Morelli in primo banco, furono proiettate delle slides, mentre con sottofondo musicale qualcuno recitava:

    ... Allora mi affretterò verso il mio amato, / lo bacerò davanti ai suoi, / non avrò vergogna della gente dichiarava, cantando, una ragazza invasata dalla dea dell’amore, il cui simbolo portava dipinto sull'alto della coscia.

    Hathor, la giovenca: forme morbide e generose, non la candida colomba, la timida creatura che vola, ma radente e lenta. Ecco come nella fantasia di un uomo dovrebbe essere una donna per conturbarne i sensi.

    Anche nella mitologia greca, del resto, Pasifae si innamorava di un toro. Vai a capire gli antichi e la loro fissazione per gli amori bestiali! C’era infine il nodo inestricabile delle origini più lontane attribuite alla dea: possibile che l’amore fosse scappato dal regno dei morti? D’accordo la teoria dell’attrazione degli opposti, ma che la passione fosse nata negli inferi!

    Magari, però, questo spiegherebbe il fascino di vicende quali Romeo e Giulietta, anzi le renderebbe predestinate dalla genesi stessa del sentimento.

    L’idea le parve inquietante.

    Nell’aula intanto si udirono risate soffocate. Carlo Diotti aveva sollevato la manica della camicia per mostrare il proprio tatuaggio sull'avambraccio destro.

    Fastidio. Ecco perché preferiva la lettura solitaria: nessun microcefalo interveniva a spezzare il filo dei suoi vagabondaggi mentali.

    Seguirono immagini policrome di divinità, tra cui la celeberrima coppia Iside e Osiride, il cui legame matrimoniale era stato in grado di superare persino la prova dell'oltretomba.

    Anna non aveva mai nutrito la vocazione dell’Indiana Jones, ma fin da bambina aveva subito il fascino irresistibile della mitologia egizia, con il suo complicato culto dei morti, la bilancia dell’anima e il mistero delle piramidi. Be’, per la verità c’era poi la venerazione istituzionale dedicata ai felini, che aveva fatto concludere, a una gattofila come lei, che si fosse trattato di una civiltà molto evoluta.

    L'ultima sezione di diapositive, invece, mostrò una serie di uccelli dipinti a tinte vivide, rinvenuti sulle pareti di una tomba della XIX dinastia. Tradotti i geroglifici, la scritta sottostante recitava all'incirca: Io sono Bennu, l'anima di Ra, la guida degli Dei del Duat. Che mi sia concesso entrare come un falco, che io possa procedere come il Bennu, la Stella del Mattino.

    Il suono della campanella interruppe la lettura delle interpretazioni degli studiosi, senza appagare del tutto la curiosità di Anna, la cui fervida immaginazione aveva già creato attorno al poema un alone di mistico romanticismo, e si stava chiedendo come i ragazzi allora si scambiassero i messaggi per darsi appuntamento. In tal modo però non si avvide della sparizione del suo quaderno di latino con gli appunti su Ovidio, finito direttamente nello zaino di Pam, con buona pace di qualsiasi proposito di ripassare prima del compito.

    Protestare? Sarebbe stato come richiamare gli occhi di tutti su di lei, e c’era sempre qualcosa che non andava: i jeans troppo larghi, le scarpe basse e forse un po’ maschili, le guance non truccate o i capelli scialbi. Sopravvivere senza affanno significava quasi sempre rendersi invisibile. Ma anche per questo c'era un prezzo da pagare.

    Sfogando rabbia repressa e frustrazione contro la carta del tramezzino, resa untuosa e appiccicaticcia dalla maionese, uscì in corridoio, e si rifugiò di fronte alla bacheca degli studenti, dove campeggiavano immancabili le locandine che pubblicizzavano le iniziative extrascolastiche dell'istituto, compresa la compagnia teatrale.

    Un istante dopo udì alle sue spalle la voce della Bernardi, la professoressa di italiano del biennio, che era anche la responsabile del periodico digitale.

    Anche tu, Perin, sedotta dal fascino del palcoscenico? In tutta sincerità mi sembri più il tipo da dietro le quinte, magari intenta a scrivere una recensione per il sito della scuola, come lo scorso anno. Rammenta il mio consiglio, il gruppo del giornalino si riunisce ancora al mercoledì: c’è sempre un posto per te!

    Io... prometto che ci penserò, tuttavia ricordo anche di non aver mai preso più di sette nei suoi compiti. Aveva deciso, data la giornataccia, che era giunto il momento di togliersi almeno un sassolino dalla scarpa.

    Dai miei alunni mi aspetto che diano sempre il massimo. Tu al contrario preferivi sognare ad occhi aperti, invece di sudare onestamente sui libri. A volte sembrava che la tua partecipazione alle mie lezioni fosse una gentile concessione. Non ho mai capito bene se ti sopravvaluti, oppure l’esatto contrario.

    Le parole dell’insegnante sorpresero Anna, ma non bastarono a risollevarle del tutto l’umore: l'aspettava ancora l’interrogazione di fisica prima di potersi considerare in salvo.

    Dal proposito di ripassare al volo la legge sul flusso del campo magnetico di Gauss, la distrasse però l’arrivo inatteso di Debora, la sua migliore amica, che agitava il cellulare come uno sbandieratore senese alla parata del Palio.

    Arriverà sabato prossimo! gridava dal fondo del corridoio opposto, cercando di farsi udire nel frastuono di decine di altre voci concitate.

    La ragazza, la cui classe si trovava in realtà nella palazzina contigua, coprì l’ultimo tratto quasi correndo, e spinse sotto il naso di Anna uno scatto che ritraeva un candido cucciolo di Maltese dagli occhi vispi e intelligenti.

    Me l’ha confermato l’allevatore ieri sera: possiamo andare a prenderla. E ciò significa anche che questo pomeriggio tu ed io andremo a fare compere.

    Molti dei discorsi di Debora, soprattutto quando scorgeva nel volto dell’amica tracce della consolidata malinconia, terminavano con quella magica formula, ma questa volta Anna sospettò che si sarebbero recate presso un centro specializzato in prodotti per animali.

    Era da settimane, ormai, che l’amica si stava preparando all’avventura di crescere un cane in totale autonomia, e in certi momenti il suo entusiasmo aveva finito per contagiarla, distraendola persino dal suo doloroso segreto.

    Lei, però, preferiva l’universo felino con i suoi insondabili misteri, ovvero l’atteggiamento solenne e a tratti beffardo della sua gatta Cloe, quando si stendeva sul piastrellato del terrazzo in attesa che le fosse servito il pasto, e quando di notte le si strusciava contro, offrendole la sua complicità nelle ore insonni e funestate dagli incubi.

    2

    Gli alunni della 3A, i compagni di classe di Paola De Marchi, recentemente scomparsa in un tragico incidente, avevano messo sul banco della ragazza una foto circondata da mazzi di fiori bianchi: Anna non riusciva neppure a passare davanti a quell’aula, quando c’era la porta aperta, poiché subito il suo pensiero correva per associazione al fratello di lei, Gabriel, spalancandole dentro una voragine oscura.

    Nel sito dell’istituto erano state postate le solite frasi di circostanza, incorniciate però da una splendida istantanea dei due fratelli, fornita dagli archivi della compagnia teatrale del liceo.

    Lui vi appariva più giovane, ancora senza l’impertinente pizzetto fulvo, gli occhi chiari ridotti ad una fessura a causa della luce che lo illuminava di fronte. Non era una foto ben riuscita, tra tante che erano apparse anche sulle riviste di moda, ma il sorriso aperto e radioso di Gabriel era comunque in grado di sigillare la bocca dello stomaco di Anna, e tradursi in una sorta di stordimento.

    Tutto nel volto di lui, dalle linee marcate delle guance, alle labbra ampie e sottili, appariva come un inno alla bellezza e alla vita - così non le era proprio possibile arrendersi all’idea che fosse davvero morto.

    Il dolore – che non avrebbe dovuto provare, si ripeteva – giungeva invece a ondate alterne, ma sempre con la stessa intensità.

    Anna aveva intervistato Gabriel De Marchi per il giornalino della scuola quasi un anno prima. Era avvampata a ogni sguardo, e al suono della sua risata il cuore aveva preso a ballarle in petto la street dance: tanto era bastato per arruolarla nel gruppo delle sue fan più assidue su Facebook, senza però che nella vita reale riuscisse neppure ad alzare gli occhi per salutarlo, quando lo incrociava nei corridoi dell'istituto.

    Era così scivolata in un surreale stato di attrazione, da cui poi non si era affatto curata di liberarsi. Si era anzi romanticamente convinta di essere protagonista di una colossale esplosione chimica: lo sbocciare di un’affinità elettiva che si manifesta in natura con la stessa frequenza di un’eclissi, e le modalità di una collisione astrale. Anche se non aveva neppure mai sognato di passare all'azione.

    Incontrare Gabriel faccia a faccia, ascoltarlo parlare di sé e della sua esperienza teatrale, aveva scombinato del tutto qualsiasi opinione prima avesse avuto su di lui.

    Lo aveva trovato carino anche prima dell’intervista, è ovvio, ma distante e un po’ freddo. Voci di corridoio sottolineavano poi con malignità come fosse strano che non avesse ancora una ragazza ufficiale. Infine, dopo che ebbe partecipato a una sfilata di moda a Firenze, in molti lo avevano preso di mira per una presunta ambiguità sessuale. Quando però Anna si era trovata in sua presenza e aveva visto quegli occhi chiari illuminarsi di autentico entusiasmo per la propria recitazione nell’Enrico IV di Pirandello, aveva sentito il sangue rimescolarlesi nelle vene, e si era accesa per contatto come una fiaccola accostata alla fiamma viva.

    Non avrebbe saputo spiegarne la ragione esatta, ma percepiva sincerità nelle parole del ragazzo: davanti a sé vedeva un’anima appassionata in cerca della propria identità, e perciò aveva provato un sentimento molto vicino alla stima, anzi all’ammirazione.

    Quasi senza che se ne accorgesse, insomma, si era innamorata. Tuttavia non lo aveva confessato a nessuno prima di quella noiosa settimana di inizio gennaio, relegata a casa di sua nonna, e quindi in esilio dal resto del mondo, quando, dalla sua camera in un hotel del centro di San Martino di Castrozza, Debora le aveva confidato una cotta per il supplente di ginnastica, e lei, prendendo il coraggio a due mani, di coltivare da qualche tempo dolci fantasie riguardo ad un ex-studente, nonché attore della compagnia del liceo, diplomatosi l'anno prima.

    Poco dopo le era giunta una mail dalla sua amica, che alla luce della sconcertante rivelazione la informava di un viaggio in Venezuela di Gabriel e famiglia: era stato solo alcuni giorni prima che al telegiornale dessero la notizia della scomparsa di un piccolo aereo da turismo sulla tratta oceanica tra l’arcipelago di Los Roques e Caracas, tristemente nota per altre tragedie simili.

    Febbricitante, Anna si era precipitata a cercare altre informazioni in rete, ma non aveva trovato molti dettagli oltre alla rotta (Dos Mosquices – Caracas), al nome dei due piloti e dei dieci passeggeri a bordo, di cui appunto sei erano italiani.

    Poiché l'ultimo contatto dell'aereo si era verificato a circa 20 miglia nautiche dall'isola, le ricerche condotte dalle autorità si concentravano su tre diverse aree per una superficie complessiva di 250 miglia quadrate. Una prima squadra era stata incaricata della perlustrazione attorno all'arcipelago, dove le superfici marine erano trasparenti e poco profonde. A est dell'isola, e nel tratto di mare dalla barriera sud in direzione dell'aeroporto di Maiquetia, invece, le acque oceaniche erano più profonde, e ciò rendeva più difficile l'avvistamento di eventuali relitti inabissati.

    Per consolarla quella sera le era giunta una nuova e accorata mail di Debora con le ultimissime: fonti attendibili – la ragazza ne vantava parecchie su Facebook - l’avevano aggiornata sulla settimana favolosa che la famiglia De Marchi aveva trascorso nella capitale venezuelana e i tre giorni sull’isola principale dell’arcipelago corallino. Con vari contatti Gabriel aveva lodato le spiagge assolate e le squisite aragoste.

    Tutt'altro che tranquillizzata, Anna si era domandata se l'amica intendesse per caso suggerire che il suo Gabriel era morto contento!

    Con uno dei suoi repentini cambi d’umore, si pentì allora di aver fiatato, e in una parte remota della propria mente si chiese addirittura se tanta presunzione non avesse in qualche modo pesato dalla parte della sfortuna.

    In generale su tutta la faccenda si manteneva incredula, e in uno stato di catatonica sospensione dalla realtà. Ossia fingeva indifferenza, e intanto si sentiva mancare il respiro.

    Alla notizia ufficiale della sciagura erano seguiti per lei giorni bui e tormentati, con improvvise crisi di pianto notturno e insensati silenzi persino nei confronti della sua perplessa amica, che con serafica pazienza si sforzava tuttavia di snidarla dal suo volontario isolamento, e di farla sfogare.

    Il loro rifugio preferito era spesso un piccolo bar pasticceria a orientamento vegano, situato a pochi passi dalla biblioteca, dove Anna diceva alla madre di andare a studiare. Sedevano al tavolino d’angolo e, dopo aver ordinato una coppa abbondante di yogurt di soia con cereali, lasciavano alle parole il compito di depurare le loro menti da tutti i pensieri negativi. E a poco a poco il cuore si faceva più leggero.

    Non riesco a rassegnarmi… Ha soltanto vent’anni. Fu l’esordio di una delle piene torrenziali di Anna in un uggioso pomeriggio della fine di gennaio.

    Le lacrime le bruciavano agli angoli degli occhi, ma avevano comunque il pudore di non farsi vedere.

    Debora rimase in silenzio, poiché capiva che l’amica aveva soprattutto bisogno di sapersi ascoltata e compresa.

    Con un gesto nervoso della mano Anna ricacciò indietro una ciocca di capelli e ricominciò a parlare, guardando però lontano, un punto indefinito oltre il vetro della finestra.

    "Questa notte ho avuto un incubo… Sì, l’ennesimo. Ero in piscina con i soliti amici e Marco mi prendeva in giro, perché sono sempre l’ultima a tuffarmi. Così, dopo qualche istante di lotta scherzosa con le mani, mi ha dato una spinta più energica e sono caduta, ma da un’altezza che mi sembrava senza fine. Precipitavo con gambe e braccia annaspanti nel vuoto. Sotto di me tutto era divenuto improvvisamente scuro e non potevo vedere dove sarei finita. Ma il pensiero che stavo per piombare sott’acqua mi indusse a prendere un respiro profondo prima della fatidica sensazione dell’onda che ti si richiude sopra. L’impatto con la massa liquida è stato duro, doloroso anzi come una sberla in piena faccia. Ha rischiato di stordirmi, ma la sensazione di freddo pungente mi ha tenuta vigile: in apnea forzata continuavo ad agitarmi, cercando di riemergere. Subito dopo, però, lo shock termico ha costretto il mio cuore ad accelerare, forse anche per il panico latente, e sono andata

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