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Il collezionista di respiri
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E-book320 pagine4 ore

Il collezionista di respiri

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Info su questo ebook

In una Milano inquietante e senza tempo, Nina, una giovane studentessa universitaria, rimane sconvolta durante una visita al Museo di Malacologia. Qualcosa non la convince in quelle vetrine dove esseri umani sembrano incarnare personaggi di quadri famosi, diorami viventi che sembrano sospesi fra la vita e la morte. L’incontro con una donna, ignara testimone sopravvissuta a un esperimento criminale, conferma la sua ipotesi: qualcuno utilizza materiale umano per creare opere d’arte. In pochi giorni, senza lasciare tracce, spariscono nel nulla, oppure vengono assassinati, la direttrice di una clinica privata equivoca e impenetrabile, un giornalista di cronaca nera e Nadia, la migliore amica di Nina. Durante un convegno dedicato all’arte e al suo doppio tutto sembra diventare più chiaro: un’organizzazione criminale, forse finanziata da un oscuro imprenditore farmaceutico e legata al mondo accademico, ha creato un florido mercato sommerso gestito e ideato dal Collezionista, vera mente operativa del gruppo. Le indagini imboccano un vicolo cieco e solo l’intuito di un commissario milanese della Mobile sembra risolvere il caso. Ma il vero colpevole si nasconde fra i dettagli di un’immagine fotografica che solo Nina è in grado di decodificare. 

Mario Gerosa, giornalista professionista, è critico cinematografico ed esperto di mondi virtuali. Il collezionista di respiri è il suo primo romanzo.

"Scandagliando la vicenda nell’arco di una settimana Il collezionista di respiri propone una trama assolutamente attuale e capace di far riflettere, oltre che divertire, attraverso l’alta tensione che le pagine si rivelano capaci di trasmettere. Al centro, oltre ai millennials, la futurista visione del concetto di arte, ormai sempre più devota alla realtà e sempre meno attenta all’etica o alla morale. Lo scrittore non esita a concentrare nella settentrionale metropoli infatti vere e proprie cliniche del terrore, dimore utilizzate per delitti sanguinari e violenti e musei che diventano veri e propri centri commerciali aperti a macabri collezionisti. Gerosa, senza pretese, si rivela un romanziere con la R maiuscola e il suo esordio, che ben si presta per un adattamento cinematografico, ne è la prova". (nocturno.it)

"Il pregio di questo lavoro, eccentrico al filone e persino diverso da quel che appare “da fuori”, sta  nel cogliere l’humus comportamentale e dialettico di una sorta di “setta” in via di (pericolosa) formazione all’interno di una società appena distopica, ma non così lontana dalla grottesca realtà che stiamo attraversando. Forse non esiste un solo collezionista, ma più collezionisti come in un gioco speculare al rimando di moltiplicazione del Male. E nel marasma di citazioni, dal quale confesso di essere stato travolto, non avrebbe sfigurato il geniale rapper Frankie Hi-Nrg mc quando  “canta”  Sono intorno a noi, in mezzo a noi, in molti casi siamo noi. Benpensanti o malpensanti, qualcuno tenta a manovrarci. Soprattutto mentalmente".  (Danilo Arona, Corriere AL)
LinguaItaliano
Data di uscita10 mag 2019
ISBN9788893041638
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    Anteprima del libro

    Il collezionista di respiri - Mario Gerosa

    Rosenberg

    Prologo

    Opprimente, nelle ossa, dovunque. Faceva così caldo, tanto caldo, da sciogliere la pelle dei personaggi immortalati nei dipinti. L’afa era insopportabile nel salone delle feste della clinica, le cui porte scorrevoli erano state chiuse ermeticamente. Nell’aria vagava una specie di nebbiolina, una condensa maleodorante, nel cui vapore in sospensione roteavano minuscoli pulviscoli di polvere, e nugoli di insetti, piccoli sistemi solari impazziti che ronzavano attorno alla flebile luce al neon dell’entrata. Nella sala, di dimensioni molto ampie, era stata ricostruita l’aula di una vecchia università, con panche e banchi di legno disposti a semicerchio. Davanti a questo scenografico catafalco era stato montato uno strano e rudimentale tavolo operatorio, su cui giaceva un uomo completamente nudo, inerme. Era sdraiato su un piano inclinato, di modo che avesse lo sguardo rivolto a uno schermo posto di fronte a lui. Scorrevano in totale silenzio immagini di celebri dipinti a soggetto mitologico: Arnold Böcklin, George Frederic Watts, Gustav Wertheimer... naiadi, sirene, fauni e centauri si avvicendavano in un carosello frenetico, nevrotico, variopinto. Le palpebre dell’uomo sul tavolo operatorio erano tenute aperte a forza con apposite pinze che non gli consentivano di chiudere gli occhi, aiutati in questo sforzo innaturale da uno speciale collirio dispensato amorevolmente da un infermiere. Tutto dava l’impressione di lievitare in uno spazio ancora più bianco del bianco assoluto, lattiginoso, informe, in cui volumi e geometrie tendevano a sfumare, a cessare di esistere. All’improvviso tutto sprofondò nel buio più assoluto. Dal bianco latteo e asettico del laboratorio, che profumava di alcol, fiori di garofano e medicine, pareva di piombare in una dimensione ovattata, quasi un volo senza meta in un cielo notturno e artificiale. La sensazione era dovuta, almeno in parte, all’ondeggiare flessuoso del tavolo operatorio, dotato di una serie di cuscinetti che permettevano un curioso moto oscillatorio. Un incubo senz’aria condizionata. L’uomo sembrava sul punto di vomitare, ma la bocca era ostruita da una mascherina che gli impediva ogni movimento. Emetteva suoni inarticolati, buffi, tragici. Le mani e i piedi erano assicurati al tavolo d’acciaio con robuste e consunte cinture di cuoio.

    Nel frattempo lo spettacolo era cambiato: ora balenavano sequenze di comiche di una volta, vecchi spezzoni di Laurel e Hardy, scenette con Ridolini, Cretinetti, Charlot, accompagnate da una musichetta, una scala ripetuta di do maggiore, proveniente da un fortepiano poco accordato sistemato in un angolo della sala, in fondo, che sembrava suonare da solo. Qualcuno armeggiava nell’ombra: un tintinnare di strumenti chirurgici, un suono metallico contrappuntato da un brusio sgradevole di voci indistinte. Poi un getto d’aria gelida, improvviso, arrivò dietro la testa dell’uomo. Quindi un soffio di aria calda. Nei suoi occhi si leggevano paura, terrore, desiderio di dormire, forse di morire, sicuramente di non soffrire. Nel mirino della telecamera che lo stava riprendendo pareva si fissassero le sue sensazioni, le sue emozioni senza né voce né sentimento. Il corpo non rispondeva più, regnava l’odore penetrante di calce e di alcol nelle narici, lo stordimento totale. Una decina di minuti dopo, le slapstick si interruppero e cominciarono a scorrere sequenze di famosi film dell’orrore. Erano intercalate da immagini dei dipinti di Giulio Aristide Sartorio, quadri che ritraevano immaginifiche scene ispirate ai grandi miti della classicità.

    L’uomo tremava, aveva una paura viscerale, un terrore sordo. Temeva di sentire dolore, un indicibile dolore, ora che immaginava gli strumenti chirurgici allineati sul ripiano non molto lontano da lui. Sullo schermo continuavano a scorrere le immagini: prima Caligari, poi un uomo nudo disteso su un’arpa gigantesca, un insetto con le braccia di un uomo, un orrido lombrico umano, qualche spezzone di un film di Dreyer e poi un orecchio mozzato trafitto da una lama di coltello, Frankenstein, un uomo che suona un flauto con il sedere, immagini bucoliche posticce animate da personaggi d’invenzione. Poi i fotogrammi cominciarono a scorrere più veloci, sempre più veloci, fino a che le immagini non si confusero fra loro dando vita a un macabro balletto meccanico. L’uomo cercava di liberarsi dalle cinghie e di distogliere lo sguardo ma era immobilizzato e non riusciva a guardare da nessuna parte, mentre il suo sconosciuto aguzzino armeggiava seminascosto nello stanzone. Solo e sempre quel nero trafitto di luci intermittenti oltre la sua testa. Il dolore affondava nelle sue ossa, gli sembrava di sentire pungere sulle mani, i muscoli si flettevano, le braccia e le gambe si tendevano in uno spasimo.

    Il fortepiano intanto aveva smesso di suonare. Ora un coro invisibile intonava litanie simili a salmi, con un andamento monotono e ossessivo. Avrebbe preferito l’assordante silenzio di prima. Pareva volesse smettere di udire, di sentire gli odori, di provare qualsiasi tipo di sensazione. Di sicuro avrebbe voluto finirla con tutta quella parata di orrori e dentro di sé urlava, gridava, correva a perdifiato. Ma non emetteva alcun suono. Fu qualcun altro a parlare per lui.

    - Vede, mio caro signore, lei ha voluto scomodare il Maestro, e adesso deve rendergli un tributo. Lo consideri un piccolo, minuscolo sacrificio. Ho pensato che le avrebbe fatto piacere essere l’oggetto di un tentativo, ancora più ambizioso, ovvero replicare quella bella figura del Combattimento dei centauri di Piero di Cosimo. Ma poi... poi... no, ci abbiamo ripensato, troppo banale, e le abbiamo riservato un’altro ruolo, un’altra personificazione più prestigiosa...

    Lo sconosciuto gli assestò improvvisamente un colpo secco di martello sui denti. Un rumore sordo, uno strappo. Qualcosa di caldo lungo il collo. Un lamento. Dolore. Una fitta intensa. La voglia impossibile di difendersi. Gli occhi rivolti ancora e sempre solo verso il semibuio. Paura. Il colore nero della paura.

    Poi, di nuovo quella voce: Avanti, stia calmo, non vogliamo farle del male, vogliamo solo renderla migliore, diciamo ‘perfezionarla’. Mi scusi se le do del lei, ma è una questione di rispetto. Ma, mi dica, non è contento di diventare finalmente un’opera d’arte?

    In quel momento sulla parete di fondo, proprio davanti a lui, apparve, proiettata, l’immagine enorme di un dettaglio di un dipinto di George Frederick Watts, l’eminente pittore vittoriano, che raffigurava un minotauro: un uomo con la testa di toro.

    L’urlo strozzato nella sua gola raccontava dello strazio e della paura di quell’uomo, un’agonia registrata puntigliosamente dalla videocamera. Senza un sussulto, gelida, non aveva perso neanche un istante di quel supplizio, e lo aveva reso per sempre mortale.

    Prima parte

    Mercoledì

    Il quadro, lo strano quadro, ebbe un fremito, si mosse. Il fauno fece ondeggiare leggermente la coda. Nella vetrina del museo era stato ricreato fedelmente l’ambiente del Pan nel canneto, il famoso dipinto di Böcklin conservato nella pinacoteca di Monaco di Baviera. La vegetazione era in parte dipinta e in parte realizzata con arbusti e foglie di resina. All’interno, come nelle altre nove vetrine del Muman, il Museo di Malacologia e Naturalia di Milano, al centro del diorama, c’era una figura. Ma non era un animale, una bestia, non era una capra delle nevi o un orso polare. Era un ibrido, una creatura mitologica con gambe e corna caprine, una creatura totalmente fedele al quadro dell’artista svizzero. Era viva, e, come si puntualizzava nel comunicato stampa, era in uno stato provocato di seminarcolessia, di parziale appannamento dei sensi. Faceva parte di uno dei dieci diorami creati in occasione della presentazione di un ambizioso progetto che sarebbe stato annunciato quella sera stessa nel corso di una faraonica conferenza stampa.

    Proprio per questo la scelta era caduta su quel museo, storica struttura espositiva allestita con criteri ottocenteschi, ricca di suggestive composizioni in cui è possibile ammirare i brontosauri nel loro ambiente, tutto reso con precisione millimetrica da abili scenografi. Ogni dettaglio pare prendere vita fra quelle quinte evocative: la vita della fauna nella foresta amazzonica, i boschi lombardi, lo uadi sahariano, ogni specie di conchiglia, di mammifero, di mollusco. La società che aveva sostenuto la mostra al Muman aveva temporaneamente affittato gli spazi di un’ala lasciata di solito vuota, con i vani dietro le grandi vetrine in attesa di essere riempiti. Una nota agenzia di eventi aveva pensato di allestire all’interno di quelle teche una serie di scene tratte da famosi quadri ottocenteschi a soggetto mitologico. Non le interpretavano statue o manichini ma esseri umani. Come presepi viventi. Anche grazie a un’illuminazione ad effetto, che creava un’inquietante penombra, l’atmosfera era molto coinvolgente. Nelle sale del museo, coperte da volte rivestite in marmo pentelico e arabescato immerse in un’atmosfera sottomarina dai riflessi violaceo giallognoli, sembrava di trovarsi in fondo all’oceano, lo stesso oceano ricreato abilmente nelle ricostruzioni didattiche al piano di sotto. Le figure che animavano i diorami si percepivano appena, dietro i vetri. I figuranti rimanevano immobili per quanto potevano, e ogni tanto facevano piccolissimi gesti muovendosi impercettibilmente, e ciò aiutava a rafforzare l’idea di quadri animati di vita. Lo scenografo si muoveva nervosamente davanti alle sue creazioni, entrava nella composizione aggiustando piccoli dettagli agli stanchi attori di questa strana recita. Un capello fuori posto, un gomito troppo alzato. Si aveva l’impressione di una monumentalità malata, una musicalità inquieta, bizzarra, di emozioni trattenute e pronte a esplodere da un momento all’altro.

    Nella prima vetrina c’era la sirena dipinta da Louis Loeb. La ragazza, seduta su uno scoglio, aveva un ramo di corallo nei capelli e guardava di lato. Come si apprendeva da una targhetta posta sulla cornice, i costumi erano stati realizzati dalla factory di un grande teatro milanese, i trucchi da un artista degli effetti speciali. Complice il contesto del museo, quelle figure assumevano un’aria animalesca, sembravano fiere ingentilite dai tratti dei loro pigmalioni. E c’era una strana idea di realismo in quei diorami, qualcosa che li faceva andare oltre il riuscito allestimento di una società di eventi. La vetrina successiva era dedicata a Pan e Venere, un dipinto di Adolphe-Alexandre Lesrel. La dea era sdraiata su una pelle di leopardo e sul fondo si scorgevano le rovine di un tempio, meticolosamente ricostruite. Anche qui persone in carne e ossa, quasi immobili, nelle posture esatte dei personaggi del quadro. Ma una cosa, soprattutto, non poteva non colpire i visitatori: anche i volti, i loro lineamenti, erano molto simili, se non identici, agli originali. Come accadeva anche in un altro diorama, dove appariva un centauro dipinto da Giuseppe Maria Crespi, la scena in cui l’eroe istruisce un ragazzo a tirare con l’arco, e in un dettaglio dell’Allegoria dei piaceri, con le sirene dipinte da Henrietta Rae, E ancora con i centauri in una foresta, ispirati al quadro di Wilhelm Trubner, e con il Tritone e la Nereide di Böcklin. Le somiglianze si facevano inquietanti nella vetrina che chiudeva l’esposizione, il diorama ispirato al dipinto di Rubens con Pan e la ninfa Siringa.

    I diorami non erano che una trovata pubblicitario-culturale per preannunciare il convegno su Il Mondo allo specchio, un incontro di tre giorni sull’arte e il suo doppio, in particolare sulle repliche di mondi e persone nel Ventunesimo secolo, durante il quale sarebbero state esposte anche le linee guida di un importante progetto: una serie di parchi a tema ispirati a grandi capolavori dell’arte. Il concept originale contemplava un parco ispirato al Giardino delle delizie di Bosch, da realizzare in Olanda, alla periferia di Amsterdam, una città ideale che riprendesse il tema del famoso quadro esposto a Palazzo Ducale di Urbino, e un parco mitologico da realizzare in Grecia, nel Peloponneso. Se ne sarebbe parlato in un convegno, cui era collegata anche una mostra, Arte e tassidermia. Dalle vite imbalsamate al ritratto del ritratto, curata da Caterina Sarnico e in programma alla Fondazione Palma. Il progetto dei parchi era un’idea della società americana Arslogos, mentre il convegno era supportato da una famosa casa farmaceutica. Era stato tutto pensato per un’anteprima spettacolare. Per un oscuro giro di passaparola nella buona società della Milano che conta e che ci tiene a farsi vedere, quella presentazione era diventata a poco a poco un’occasione mondana, e nessun personaggio influente voleva mancare. Così all’appello avevano risposto tutte le categorie canoniche del momento: i blogger, le influencer, il fotografo di moda coccolato dalle riviste patinate, il moderno dio della danza, i critici d’arte pronti a infiammarsi e un famoso cuoco superstellato. Completavano il parterre le immancabili signore domiciliate nei quartieri alla moda: vestite come a una prima della Scala, per la maggior parte si erano attenute a un dress code animalier. Un altro ibrido, in fondo. Questo consiglio relativo all’abbigliamento non era stato dato dall’ufficio relazioni esterne. Tra whatsapp e telefonate era rapidamente circolato quel messaggio e le mogli dei direttori di banca, dei notai e degli avvocati più in vista della metropoli decisero di inscenare un estemporaneo flash mob, con tutte le loro mise di gusto vagamente animale. C’era chi aveva un total look leopardato, scarpe zebrate, gonne maculate, acconciature stile savana, foulard skull animalier e c’erano un produttore discografico che sfoggiava una stola di leopardo come fosse un console dell’antica Roma e una nota imprenditrice addobbata inconsapevolmente come nelle tavole di Une semaine de bonté di Max Ernst, con tanto di becco e copricapo piumato. Per questo i diorami con i manichini umani acconciati da personaggi mitologici non provocavano più molto stupore. Facevano più effetto le figure che vagavano e parlottavano dall’altra parte della vetrina, fuori dallo zoo mitologico, erano molto più divertenti di quelle figure assonnate, anestetizzate, che non si sa come, dopo ore riuscivano ancora a stare in posa senza crollare esauste per terra.

    La coda del fauno fece di nuovo un leggero movimento. Lo notò il discografico abbigliato in guisa di console, che senza dar troppo peso alla cosa, fece il gesto amichevole di brindare alla sua mitica salute con un calice di Brut.

    All’anteprima erano presenti anche molti addetti ai lavori, legati al convegno e al progetto dei parchi: ingegneri, architetti, urbanisti, storici dell’arte, scenografi, costumisti. Il curioso allestimento dei diorami con ibridi umani aveva attirato anche l’attenzione di alcuni collezionisti di opere e reperti ispirati alla tassidermia, la tecnica di conservazione dei corpi degli animali. Inoltre c’era un drappello di medici e scienziati, cui si doveva anche lo stato di narcolessia palesato dei manichini umani.

    La conferenza stampa di quella sera era il preludio al convegno in cui sarebbe stato finalmente presentato il progetto dei parchi. Un convegno che era stato strutturato in maniera scientifica per avvalorare tutta l’operazione: si sarebbe parlato di scenari immaginifici dell’arte e sarebbe intervenuto anche Sergio Serandrei, presidente dell’Istituto Mutinelli e apprezzato esperto di cultura greca antica. Anche l’allestimento del convegno, come quello dell’anteprima stampa, era stato pensato con toni sensazionalistici: la Arslogos, la società che finanziava i parchi a tema, aveva optato per una scenografia ispirata all’arte di Hieronymus Bosch, il grande pittore visionario. L’albergo dove si sarebbe tenuto il convegno, il Grand Hotel Morbelli, si sarebbe così trasformato in una eccentrica dependance del macabro giardino delle delizie del pittore olandese contemporaneo di Leonardo. Quell’allestimento, come la mostra alla Fondazione Palma e come anche la manifestazione al Muman, sarebbero stati solo un assaggio dell’idea dei parchi artistici a tema. Al loro interno ci sarebbero state attrazioni legate alle varie opere d’arte degli artisti o dei vari temi. Per l’Italia era in cantiere un progetto curioso: un parco a tema ispirato in parte alle città rinascimentali e in parte ai Caroselli degli anni Sessanta e Settanta.

    Mancava poco all’inaugurazione e le hostess e gli addetti alla sicurezza avevano preso posto. Per rendere più suggestiva la serata erano stati reclutati, non si sa come, alcuni personaggi dai volti molto particolari. Si aggiravano tra le sale, mescolandosi alla fauna delle signore vestite con sgargianti abiti animalier, una copia in doppiopetto identica al vecchio alla sinistra del Cristo nella Salita al Calvario di Bosch, un clone in maglione girocollo di Giovanni Arnolfini di Van Eyck e un altro che pareva appena uscito da un dipinto di Dalì. Proprio in quel momento, una coppia di cantanti italiani molto famosa negli anni Ottanta stava amabilmente conversando con una replica perfetta, in giacca e cravatta, di un gentiluomo di Lorenzo Lotto. La troupe di un telegiornale si aggirava fra i presenti. Un giornalista stava intervistando Sergio Serandrei, presidente dell’Istituto Mutinelli, che avrebbe presieduto il convegno in programma nei giorni successivi.

    Era affascinato dall’apparato scenografico e guardava Serandrei con deferenza.

    - Professore, l’allestimento di questa anteprima è molto suggestivo. Notevole l’idea dei diorami. Ma non si rischia di spettacolarizzare troppo l’arte, di renderla qualcosa di effimero?

    - Non penso. Per decenni ci hanno insegnato che l’arte è una cosa seria. Non ho nessuna intenzione di metterlo in dubbio. Però nell’epoca dei reality, dei Grandi fratelli e della realtà virtuale, e aggiungerei di tutte quelle vane rappresentazioni del sé che circolano in rete, anche noi storici seri, e sottolineo seri - disse allargando la bocca - dobbiamo adeguarci. Se non spettacolarizziamo rischiamo di rimanere indietro, di farci superare da chi propone mondi sintetici rivelati da un visore appiccicato davanti agli occhi.

    - Ancora una domanda: quelle creature nelle vetrine sono ispirate a celebri dipinti legati alla mitologia, ma ricordano anche dei personaggi da videogame. Come spiega lei questa singolare commistione di linguaggi? Un lascito del postmoderno che contamina la nostra cultura visiva?

    Il giovane cronista era fiero della sua domanda, l’aveva preparata con cura, scrivendola e riscrivendola sul taccuino per formularla meglio.

    Serandrei fece un’espressione di disappunto.

    - Allora, non confondiamo. Questa è arte, è cultura. Cultura millenaria. Qui c’è storia, letteratura, lacrime e sangue dei poeti e degli artisti. I videogiochi li lasci ai ragazzini...

    - Non sono d’accordo, professore - rispose il giornalista deluso, un po’ offeso dalla replica, che non rispondeva a una domanda che gli era sembrata intelligente - ma prendo atto della sua autorevole opinione.

    Serandrei, come infastidito, cambiò atteggiamento e alzò il tono di voce.

    - Lei si limiti a registrare la mia opinione, bravo. Lei faccia le domande, io rispondo. Anzi, se la mette su questo piano, non le rispondo più...

    Prese un bicchiere d’acqua dal vassoio di un cameriere, riprese fiato, e più calmo proseguì.

    - Per prima cosa faccia domande più intelligenti. Quello che ha detto è di una banalità assoluta... non si offenda. Come può equiparare Böcklin a un videogame? Henrietta Rae a una influencer da social network? Non dica sciocchezze...

    - D’accordo, professore, era solo un’opinione. Avrò formulato male la mia domanda...

    - Sarà così. Vuole dare lezioni a me?

    Il cronista tirò un sospiro e quindi riprese.

    - Qualche anticipazione sul convegno: cos’è esattamente questa idea dei parchi artistici?

    Serandrei notò una giovane giornalista vestita in stile punk, inviata da una rivista d’arte contemporanea, che stava ammirando la vetrina dove era riproposto il quadro di Pan e Venere.

    - Venga, parliamone con la sua collega...

    Serandrei si soffermò subito sulle scarpe in cavallino maculato con tacco alto indossate dalla donna.

    - Complimenti per l’allestimento, è davvero efficace - esordì la ragazza, che indossava una giacca di pelle nera con una maglietta leopardata. Nelle intenzioni, voleva assomigliare a una seduttrice dei fumetti anni '40, ma l’insieme era fin troppo scontato, troppo ragionato.

    Ancora un’occhiata alle scarpe in cavallino maculato, Serandrei pareva conquistato.

    - Buonasera - disse il professore mieloso, strascicando le vocali, carezzando appena i capelli viola della giornalista, che diede un bacio sulla guancia al vecchio studioso.

    - Ogni volta lei supera se stesso - disse con un’aria che voleva essere da vamp. - Lei è unico, professore!

    - Ti ringrazio, e potrei ricambiare facilmente il complimento. Che cosa pensi dei diorami? Ti piacciono?

    - Favolosi. Molto Lynch. Magari ci avrei messo anche qualcosa di più hard. Anche se...

    - Se che cosa? - disse Serandrei subito sulla difensiva.

    - Beh... è molto suggestivo, ma anche è un po’ tetro: mi ha fatto venire in mente un vecchio film, non so se lo ricorda... Il circo degli orrori.

    - Sì, vagamente.

    - C’era un impresario di un circo, un pazzo, che ricostruiva scene di famosi omicidi da mostrare al suo pubblico, e utilizzava, come interpreti di quelle scene, criminali che sottoponeva a sofisticati interventi di chirurgia plastica. Uno scultore di carne. Mi è venuto in mente vedendo le comparse in quelle vetrine. Assomigliano a personaggi di quadri mitologici. Ho riconosciuto anche un dipinto di Böcklin...

    Il giornalista del telegiornale fremeva e cercò di attirare l’attenzione con un commento.

    - Professore, quei personaggi non sembrano nemmeno truccati, sembrano proprio originali, reali...

    - Nell’era di internet chi cerca trova... - rispose Serandrei. - Ci sono banche dati straordinarie, programmi di riconoscimento facciale: è bastato inserire i volti e...

    L’amica di Serandrei riguadagnò prontamente la scena.

    - Ho saputo che alla mostra, quella su Arte e tassidermia, è prevista anche una sezione sui tableaux vivants a soggetto animale. Ci sarà anche la famosa installazione di Gaspare Vitale? Ne avevamo parlato anche sulla nostra rivista, mi ricordo, in un dossier su arte e crimine...

    - Dovresti chiederlo alla professoressa Sarnico, la curatrice... - rispose il professore. - Parli dell’installazione con la ragazzina con le gambe amputate, giusto? Quella che Vitale voleva fare assomigliare a un quadro inedito di Khnopff? Ci sono molte testimonianze, articoli... anche un documentario. Su internet girava anche qualche immagine... tutte cose fasulle, montaggi. Finora nessuno ha dimostrato che quell’opera sia davvero esistita...

    - Tutto ciò ha contribuito a farla diventare un’opera di culto...

    - Era proprio quello che voleva il povero Vitale. E non credo che ci abbia guadagnato un granché. Ha solo avvalorato la sua fama di artista maledetto.

    Gaspare Vitale, padre dello storico Giorgio Vitale, era un artista morto qualche anno prima. Aveva avuto una brutta grana a causa di un’installazione ispirata a un inedito di Khnopff, pittore simbolista belga. Si diceva che avesse amputato le gambe di una ragazza per farla posare come sfinge. Vitale se la cavò con una condanna a tre anni che probabilmente non scontò mai.

    Il giornalista del telegiornale scalpitava. La sua intervista era in sospeso. Fece un cenno per richiamare ancora una volta l’attenzione di Serandrei.

    - Al convegno ci sarà qualche anticipazione sui parchi? - irruppe il giornalista esasperato.

    - Qualcosa... un trailer di qualche minuto, ancora un po’ di pazienza e saprete tutto - continuò mentre prendeva il braccio sinistro della ragazza, per esaminare da vicino un tatuaggio: Capro espiatorio, scritto in caratteri gotici.

    - Le piace? L’ho fatto fare apposta per questa sera. Sa... è per il dress code animalier...

    - Vediamo cosa possiamo fare per renderlo un po’ più concretamente credibile - disse Serandrei sorridendo maliziosamente. - Ne riparliamo...

    In sottofondo c’era la musica dolcemielosa dei Preludi di Debussy e del Carnevale degli animali di Saint-Saëns, che contribuivano a sprofondare le sale in un’atmosfera da liquido amniotico, dove le belle signore milanesi leopardate e i loro eleganti accompagnatori sembravano galleggiare.

    Le sale cominciavano a riempirsi, con una folla eterogenea di persone che piluccavano dai vassoi di finger food, con catering a cura dell’immancabile quanto famoso telechef.

    In fondo al corridoio spuntò Giuliana Colesanti, la responsabile comunicazione della Clinica Salus, una nota struttura ospedaliera privata specializzata in trapianti di organi e ricostruzioni di arti, con protesi molto evolute. Era in compagnia della figliastra Nina, studentessa di restauro a Firenze. Le due si assomigliavano come due gocce d’acqua. Erano alte e magre, con il volto ovale. Entrambe avevano gambe lunghe e slanciate e una vita sottile. Sembravano sorelle. La dottoressa Colesanti era una donna concreta, elegante ma dai modi un po’ bruschi. Aveva uno sguardo acuto, penetrante, che risaltava dagli occhi stretti, incorniciati da un caschetto castano, che seguiva i lineamenti di un viso regolare di gusto nordico, dovuto all’eredità genetica della madre finlandese. Indossava una giacca su un abito corto stretch nero. Nina, ventidue anni, mostrava il suo fisico atletico e i boccoli color mogano che si srotolavano su un abito lungo in seta a motivo pantera. La vera madre di Nina, la prima moglie di suo padre, era morta una decina d’anni prima. Il padre, imprenditore del settore petrolifero, era morto invece da due anni e aveva lasciato alla figlia una fortuna, gestita formalmente da un amministratore. Grazie all’eredità, Nina poteva permettersi di fare una vita agiata, studiando restauro a Firenze e programmando una serie infinita di viaggi durante l’anno. Ma da un po’ di tempo non viveva bene, non era felice. La sua passione, l’arte, era diventata anche un assillo, una

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