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Bugie che Feriscono
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E-book280 pagine4 ore

Bugie che Feriscono

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Info su questo ebook

Il giorno in cui Alex è entrato nella mia vita, non avevo idea di quanto l'avrei amato.
Lui ha cambiato tutto.
Il mio modo di respirare.
Il mio modo di pensare.
Il mio modo di amare.
Mi ha riportato in vita.
Mi ha reso più forte e mi ha dato un luogo sicuro dove stare.
E poi mi ha distrutto.

Quando ho incontrato Emilia, ho avuto l'occasione di fare qualcosa di buono per una volta nella mia vita.
Volevo cambiare.
Lei credeva che fossi il suo salvatore.
Ed io desideravo ardentemente esserlo.
Si è insinuata nel mio cuore e l'ha reclamato come il suo luogo sicuro.
Dovrei dirle la verità su di me... invece la distruggo con le mie bugie.


Nota: Bugie che feriscono è il primo volume della serie Bound and Broken

**Questo libro è un romance New Adult e contiene argomenti adatti a un pubblico maturo. Non è destinato ai minori di 17 anni.**

LinguaItaliano
Data di uscita7 giu 2017
ISBN9781547503933
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Anteprima del libro

Bugie che Feriscono - Rebecca Shea

Dedica:

A coloro che amano ciò che non si può amare

Prologo

Inspiro l'aria fresca primaverile mentre mi avvio verso casa dopo il lavoro al supermercato. L'odore di umidità aleggia nell'aria e solo piccole chiazze di neve rimangono della tormenta di tarda primavera che abbiamo avuto la scorsa settimana. La ghiaia scricchiola sotto i miei piedi mentre cammino lungo la banchina dell'unica strada che collega le due estremità di questa piccola città. Io vivo in una piccola roulotte con mia mamma all'estremo margine del paese. La piccola abitazione è situata vicino al White Lake, il lago che porta lo stesso nome della cittadina. Abbiamo vissuto in questa schifosa roulotte ogni giorno dei miei ventun anni. È fatiscente e sfasciata, ma è tutto ciò che possiamo permetterci, quindi non mi lamento. Cerco di trarre il meglio dalla nostra situazione.

Ancora una volta, scalcio la ghiaia lungo la strada di campagna asfaltata che conduce al lago e alla nostra casa angusta e sgangherata. È buio qui fuori nel cuore della notte, ma la luna risplende così luminosamente che la strada si riesce a vedere facilmente. Continuo a percorrere la banchina, rimanendo sullo sterrato così da evitare qualsiasi auto. Non è insolito non vedere una singola macchina passarmi accanto sulla via di ritorno a casa. Tuttavia, è insolito vedere le luci lampeggianti di una volante della polizia.

Il cuore comincia a battermi selvaggiamente quando vedo le luci svoltare sul vialetto di ghiaia che porta alla nostra roulotte, e i miei piedi cominciano a correre di scatto. Inciampando una paio di volte sui sassi, riduco la distanza dal caravan e sento gridare il mio nome.

«Emilia!» È Carter, il nostro padrone di casa. «Emilia!» urla di nuovo. È difficile credere che qualcuno effettivamente possegga e affitti l'immonda roulotte in cui viviamo, ma è sempre stato buono con noi, e indulgente quando non paghiamo l'affitto in tempo.

«Che succede?» chiedo mentre mi avvicino, senza fiato. I miei occhi scrutano il caravan e noto che la porta d'ingresso è aperta e sbatacchia al vento.

«Si tratta di tua madre» risponde Carter, scuotendo il capo. «Quando sono venuto per riscuotere l'affitto, non ha risposto. Non è da lei, Em.» Lancia un'occhiata dietro di sé alla baracca fatiscente che rappresenta il suo investimento immobiliare. «La finestra era aperta, perciò ho guardato dentro e... ehm, l'ho vista distesa sul pavimento.» Carter è visibilmente sconvolto, si passa una mano tremante tra i capelli argentei e chiude gli occhi brevemente.

Carter è sempre stato come un nonno per me. È gentile ma tenace. Alto e forte, e nulla lo turba. Almeno, così è stato finora.

Un agente di polizia lega un nastro giallo, che indica una scena del crimine, intorno a un albero e quando lo supero di corsa comincia a gridare di fermarmi. Appena oltrepasso la porta d'ingresso, vedo la mia bellissima madre distesa sul pavimento del soggiorno. In una pozza di sangue, con una pistola nera situata accanto a lei.

«No, no, no!» grido. «Mamma, no...» Annaspo in cerca d'aria mentre mi inginocchio accanto a lei. Il sangue si sta seccando nei suoi capelli arruffati. Penetra nelle mie ginocchia, e noto che ha cominciato a raggrumarsi e ad assumere una consistenza gelatinosa sul pavimento. Attiro mia madre sul mio grembo e la stringo a me. La tengo stretta e urlo. Urlo per lei. Urlo per me. Grido per quanto sia stata ingiusta la vita con noi.

Lo sceriffo Wilson varca in fretta la soglia d'ingresso e mi implora di lasciarla andare. Quando non me ne vado, mi ordina di uscire. Continuo a non dargli ascolto. Non posso abbandonarla; è tutto ciò che ho. Premo la fronte contro la sua e piango. Le mie lacrime cadono a fiotti e atterrano sul suo viso mentre cerco di razionalizzare ciò che sta accadendo.

«Ti prego, non puoi lasciarmi. Ti prego» sussurro contro la sua testa.

«Emilia» dice Carter sommessamente entrando nella roulotte. «Coraggio, figliola. Non è necessario che tu rimanga qui.»

«Devo, Carter. Ha bisogno di me. Io ho bisogno di lei» gemo. Questo non sta succedendo a noi.

«Emilia, per favore. Vieni fuori e parla con lo sceriffo Wilson. Ha delle domande da farti.»

Carter mi tira per un braccio, e scivolo sul sudicio pavimento di linoleum macchiato di sangue mentre cerco di alzarmi. Poi avvolge un braccio intorno alle mie spalle e mi guida fuori dal rimorchio. I miei pantaloni color cachi sono ricoperti di sangue, e le mie mani tremolano così forte che devo infilarle nelle tasche della felpa.

«Sceriffo, lei è Emilia, la figlia di Carrie Adams.»

«Miss Adams.» Lo sceriffo mi rivolge un cenno del capo, uno sguardo di compassione negli occhi.

Il mio corpo comincia a tremare con una tale intensità che posso effettivamente sentire le mie ginocchia urtare l'una contro l'altra. Carter mi stringe a sé per calmarmi.

Lo sceriffo sospira con comprensione. «Sono desolato per la sua perdita.» Fa una smorfia quando pronuncia quelle parole. «Stiamo ancora mettendo insieme tutti i dettagli, ma sembra si tratti di suicidio. Sarà il medico legale a stabilirlo con certezza, ma non si sospetta alcun delitto» dice con calma.

«Non possediamo una pistola» mormoro. Dove potrebbe aver preso una pistola? Non si sarebbe sparata, lasciandomi sola. Mi aveva detto di sentirsi meglio, che la depressione che un tempo la mangiava viva era finalmente a bada.

«Come ho detto, lasceremo che i nostri investigatori scientifici concludano il loro lavoro, ma la scena è stata compromessa.» Mi guarda con severità. «Mr. Wilson, cioè Carter, ha detto che c'era una pistola nella sua mano quando è arrivato.»

«Non avevamo una pistola» ribadisco. «Non avevamo modo di ottenerne una. Non potevamo permettercela. A malapena riuscivamo a mangiare. Quella pistola lì dentro non è nostra.»

Lo sceriffo Wilson sospira e scrive sul suo taccuino.

«Ha altre domande per lei?» chiede Carter. «Credo che sia sotto shock.»

«Per ora è tutto.»

«Emilia, siediti» dice Carter, guidandomi verso la grande quercia di fronte alla nostra roulotte. Il mio corpo debole emette un sonoro tonfo quando crollo a terra. Ho la sensazione che il mio petto si stia restringendo, e che l'aria sia svanita dai miei polmoni. Le mie membra sono rigide e mi domando se sia così che ci si sente quando si è in stato di shock.

Il tempo si ferma mentre osservo gli agenti di polizia che vanno e vengono, e borbotto risposte alle loro domande come meglio posso. Infine, quando comincia a spuntare l'alba, li guardo portare mia mamma fuori dalla roulotte su una barella. Il suo corpo è avvolto in un sacco bianco di plastica con una cerniera sul davanti. Ricomincio a piangere quando la sistemano nel retro di un vecchio furgone contrassegnato con la scritta Medico Legale e si allontanano. Se n'è andata. Non la rivedrò e non l'abbraccerò mai più, né potrò più dirle che le voglio bene.

Mi asciugo le lacrime mentre maledico la malattia che credo abbia tolto la vita a mia mamma. Ha sofferto di depressione debilitante dal giorno in cui mio padre è andato via, ovvero quando ha scoperto che era incinta di me. È avvenuto tre giorni dopo che si è diplomata al liceo e ha rinunciato ai suoi sogni di andare al college per crescermi. Avrebbe voluto diventare un'infermiera. Sarebbe potuta essere brava. Ho sempre provato un senso di colpa per essere stata la ragione per cui la sua vita è andata in pezzi e che i suoi sogni si sono infranti per potermi allevare. Tuttavia, la realtà è che sono stata io a crescere lei. Da che ho memoria, mi sono occupata io di cucinare, fare il bucato e le pulizie. Non ho mai conosciuto la donna che affermava di essere stata: divertente e spensierata.

Nonostante non sia mai stata una madre perfetta, ha fatto del suo meglio per crescermi e ha insistito che mi impegnassi a scuola. Sono sempre stata una studentessa modello, qualcosa di cui sono sempre andata orgogliosa.

Guardo verso il vialetto e posso quasi vederla lì. Quando andavo alle elementari, percorreva i quattrocento metri fino al limite della proprietà ogni mattina e aspettava con me che l'autobus passasse a prendermi. E i pomeriggi in cui non dormiva, persa nella sua depressione, la trovavo ad aspettarmi quando l'autobus mi riaccompagnava a casa. Quei pomeriggi erano sporadici, ma adoravo vederla attendere il mio ritorno. Quelli erano i ricordi più belli che avevo di lei. Quei giorni significavano una sola cosa: la sua depressione era a bada, anche se solo per poche ore.

La voce di Carter mi strappa ai miei pensieri. «Non voglio che rientri in quella roulotte, Emilia» dice con voce sommessa mentre cammina verso di me. È rimasto seduto al mio fianco nelle ultime ore, allontanandosi solo per pochi minuti quando la polizia ha srotolato il nastro segnaletico che adesso circonda il caravan. «Mi hanno dato il permesso di recuperare alcuni oggetti dalla tua camera da letto mentre finiscono all'interno. Puoi stare nella stanza degli ospiti a casa nostra. Ho chiamato Eve per farglielo sapere.»

«Cosa stanno facendo lì dentro?» riesco a chiedere, la voce rauca. Il mio corpo è rigido e la mia testa è appoggiata contro la ruvida corteccia della quercia, e l'aria fredda del mattino mi punge la pelle.

Carter ha le mani infilate nelle tasche anteriori mentre mi guarda. «Dimmi soltanto cosa posso prenderti» dice con un sospiro.

Sussurro velocemente una breve lista di cose, sapendo che entreranno in un'unica borsa a tracolla. Carter scompare, e pochi minuti dopo è di nuovo al mio fianco. O forse è passata un'ora. Il tempo scorre in modo confuso in questo momento.

Getta la mia borsa sul retro del suo furgoncino. «Andiamo, Emilia» dice dolcemente.

Sollevo lo sguardo e fisso la roulotte in lamiera arrugginita, persa in uno stato di shock e negazione. Per quanto abbia disprezzato questo tugurio, è l'unica casa che abbia mai conosciuto. Un profondo senso di panico si mescola al mio dolore. Cosa mi succederà e dove andrò? Che ne sarà della mia vita ora?

«Resto seduta qui ancora per un po'» mormoro. «Ho bisogno di stare da sola. Sarò da te fra poco.»

«Vieni dritto a casa» replica con fermezza. «Se tra un'ora non sei ancora arrivata, torno a prenderti. E, Emilia, non rientrare in quella roulotte.»

Annuisco.

Lui esita prima di salire sul suo pick-up e partire, lasciandosi dietro una scia di polvere lungo la strada sterrata. Nel giro di pochi minuti, vanno tutti via, lasciandomi da sola seduta contro la quercia. Infine, me ne rendo pienamente conto...

Sono davvero sola.

Capitolo 1

Emilia

Appena scendo dal pullman, ho l'impressione di essere entrata in un forno. Il caldo di Phoenix mi brucia i polmoni e mi punge gli occhi. Sono le nove di sera. Non oso immaginare come sia durante il giorno quando il sole è alto nel cielo. Mi fermo sul marciapiede, cercando di orientarmi, e vengo urtata da dietro da un grosso uomo che grugnisce e mi spintona da parte con forza. Alberi di palma fiancheggiano la strada cittadina di fronte a me, e c'è una piccola fila di taxi parcheggiati davanti alla stazione poco illuminata. Con i pochi soldi che ho, prenderò sicuramente un autobus urbano e non un taxi.

Passo un dito sull'indirizzo scarabocchiato sul foglietto di carta stropicciato prima di rinfilarlo al sicuro nella mia tasca. Senza piani e senza avere idea di dove alloggerò stanotte, mi metto in fila all'unico sportello aperto della biglietteria. Un leggero velo di sudore mi ricopre il volto, e penso che indossare i jeans per un viaggio in pullman di trentanove ore fino a Phoenix in pieno giugno non sia stata l'idea migliore, probabilmente. Mi sento appiccicosa e a disagio, e voglio solo fare una doccia e dormire.

L'uomo davanti a me si allontana dallo sportello e avanzo nervosamente. La donna dietro al bancone è anziana e bassa, indossa degli occhiali spessi e un paio di pantaloni che sono circa due taglie più piccoli della sua misura. Non incrocia il mio sguardo, ma sbraita domande e ordini nella sua voce ruvida da fumatrice. «Avanti il prossimo! Dove devi andare?»

Schiaccia i tasti della sudicia tastiera davanti a lei. Mi schiarisco la gola e mi avvicino ulteriormente così che possa sentirmi. «Non lo so.» La mia voce è debole, timida.

«Bé, come posso aiutarti se non sai dove devi andare?» Il suo tono è condiscendente. Alza lo sguardo dalla tastiera e incrocia i miei occhi con indifferenza.

«Sono appena scesa da quel bus.» Indico l'enorme pullman argentato fermo accanto al marciapiede. «Rimango qui a Phoenix, ma mi serve un consiglio su un posto sicuro dove stare che rientri nelle mie possibilità.»

Accascia le spalle ed emette un sonoro sospiro mentre mi osserva. «Qualsiasi luogo abbordabile non è sicuro» borbotta. «Da dove vieni?»

«White Lake, Illinois.»

«Ovvio» mormora sottovoce, squadrandomi da capo a piedi, prima di digitare di nuovo sulla sua tastiera. «Ascolta, non so quale sia il tuo budget, ma ecco una lista di motel che vanno da trenta fino a cento dollari a notte. Stai alla larga da Van Buren, ragazza. Ti mangerebbero viva lì.» Ridacchia tra sé e sé, e spinge tre fogli di carta verso di me sotto lo sportello di vetro.

«Grazie.» Le sorrido educatamente e prendo i fogli. Fermandomi sotto il lampione, do loro un'occhiata, poi mi avvio verso la fermata dell'autobus con l'unica borsa che mi sono portata appresso. Contiene tre cambi d'abito, un quaderno, tre libri e il mio portafoglio. È tutto ciò che posseggo. I pochi oggetti che mi sono lasciata dietro erano di poco o nessun valore, e sarebbero stati un ulteriore peso di cui preoccuparmi.

Mi siedo nervosamente sulla panchina di metallo rovente e aspetto, l'adrenalina che mi scorre nelle vene. Utilizzando la grande mappa sul lato della pensilina, memorizzo i tre autobus che devo prendere per raggiungere la via piena di motel, nella speranza che abbiano una stanza economica disponibile per un paio di giorni. Quando il bus accosta al marciapiede, salgo su e pago, prima di prendere posto al centro del veicolo quasi vuoto.

Il trasporto pubblico è simile nella maggior parte delle città, così come le persone che ne usufruiscono: puoi vedere la stanchezza scritta sui loro volti. Poggio la testa contro il finestrino e mi concentro sui negozi e le auto che passano mentre serpeggiamo lungo le strade buie di Phoenix. Un'ora e due cambi dopo, giungo alla mia destinazione finale. Sistemandomi la tracolla della borsa sulla spalla, scendo dall'autobus sulla strada scura.

Posso vedere le insegne dei motel poco più avanti, a circa due isolati e mezzo di distanza. Camminando velocemente verso le insegne luminose, tengo gli occhi incollati sulla mia destinazione. Un letto e una doccia sono così vicini che posso quasi sentire i miei muscoli doloranti cominciare a rilassarsi. I motel sono situati lungo una strada di servizio, appena fuori l'interstatale principale. C'è parecchio traffico, il che mi fa sentire più a mio agio in questa città sconosciuta. Man mano che le luci si fanno più vicine, scendo dal marciapiede e attraverso il parcheggio asfaltato verso il piccolo edificio. Una luce al neon illumina la parola ufficio, e aumento il passo, sfrecciando attraverso le auto parcheggiate. Perfino di sera posso sentire il calore estivo permeare la superficie dell'asfalto nero e penetrare nei miei sandali. Agito le dita dei piedi contro la suola sottile delle mie scarpe.

Quando apro la porta di vetro, vengo accolta da un getto d'aria fresca. Per la prima volta in un'ora, ho la sensazione di poter respirare davvero e i miei polmoni rispondono con un profondo respiro. Inspiro un paio di volte, poi sollevo il viso verso la bocchetta dell'aria condizionata sul soffitto, sperando che asciughi il sudore sulla mia faccia.

«Posso aiutarla?» chiede un uomo anziano dai capelli grigi mentre esce da una porta chiusa.

Sussulto. «Salve. Ehm, sì. Mi serve una stanza per un paio di notti.»

«Due?» Mi osserva da sopra l'orlo dei suoi occhiali prima di portare lo sguardo sul suo computer.

«Sì, solo due notti per ora, grazie.»

«È di queste parti?» domanda.

«No.» Deglutisco. «Illinois.»

«Ho bisogno della sua patente e carta di credito.»

«Ho un documento di riconoscimento e contanti.» Ti prego, fa che sia sufficiente. Non avrei la forza di provare a cercare un altro posto adesso. Tiro fuori dalla borsa il portafoglio.

L'uomo si ferma e mi guarda dall'altro lato del bancone. «Non accettiamo contanti. Ho lavorato sodo per ripulire questo posto» dichiara, esaminandomi di nuovo.

«Non ho una carta di credito» balbetto, in preda al panico.

Lui espira rumorosamente e mi fissa con occhi comprensivi. «Se paga in contanti, fanno centocinquanta dollari.»

Deglutisco con forza. Tutto quello che ho sono duecento dollari e non mi basteranno per tornare in Illinois se le cose non vanno bene qui. «Ehm...» Mi giro e guardo fuori dalle grandi vetrate il motel accanto, dove l'insegna camere libere brilla luminosa nel buio. Mi domando se sia più economico. È fatiscente e squallido, molto più di questo Motel 6, e si sta facendo tardi. Mi agito nervosamente, cercando di decidermi.

«Ok.» Mi volto di nuovo verso di lui e gli rivolgo un sorriso. Estraggo i soldi dal portafoglio, conto centocinquanta dollari e li faccio scorrere sul bancone.

L'uomo mi stampa la ricevuta, che infilo nella borsa, e mi porge una chiave elettronica. «Non voglio nessun problema qui. Mi sembra una brava ragazza. Vada nella sua stanza e rimanga lì» dice, poi si ritira dietro la porta chiusa da cui è spuntato pochi minuti prima.

Un adesivo appiccicato sul davanti della chiave dichiara che la mia stanza è la centoquarantatré. Mi sistemo meglio la tracolla della borsa sulla spalla ed esco di nuovo nell'aria calda e afosa. Seguendo il marciapiede che si snoda intorno al parcheggio, cammino a passo svelto, leggendo i numeri in ordine crescente sulle porte.

Fuori a una delle camere, c'è un gruppetto di quattro uomini che fuma e ride, e il mio battito cardiaco aumenta. Fa che mi lascino in pace. Tuttavia, quando mi avvicino si zittiscono. Girandogli intorno, tengo gli occhi fissi sul marciapiede. Il cuore mi batte selvaggiamente nel petto, e aumento il passo,  riportando lo sguardo sui numeri.

127... 129...

135...137...139...

Il mio panico comincia ad attenuarsi un po'. Mancano solo tre porte fino alla mia stanza. Quando lancio un'occhiata alle mie spalle, sento il cigolio di una porta che si apre, e un attimo dopo vado a sbattere contro la persona che sta uscendo dalla camera. Sussulto e cerco di arretrare, scusandomi profusamente, ma due mani salde mi afferrano le spalle, impedendomi di muovermi.

«Mi dispiace tanto» rantolo. La chiave elettronica mi sfugge di mano e atterra ai piedi dell'uomo che ho quasi travolto. Abbasso lo sguardo, e i miei occhi notano le sue scarpe nere costose.

Appena lo sconosciuto mi lascia andare le spalle, mi fiondo ad afferrare la chiave ma lui è più veloce; si piega e la raccoglie prima di me. Chiude le dita abbronzate intorno alla plastica dozzinale e si alza. Riprendendomi dal momentaneo shock, mi tiro su e incrocio i suoi occhi color ambra.

«Stai bene?» domanda, guardandomi con gli occhi socchiusi. Noto che indossa un paio di pantaloni grigi eleganti e una camicia nera senza cravatta. I suoi capelli sono corti ma leggermente più lunghi in cima; un po' spettinati, non perfettamente in ordine. La sua pelle è dorata, come se fosse stato in vacanza ai tropici, e l'abbronzatura fa risaltare quei suoi occhi ambrati contro le ciglia scure. La mascella squadrata è ricoperta da un sottile velo di barba che rivela che non si è rasato oggi, ma sono le sue fossette che mi tolgono il fiato. È talmente raffinato che gli darei una trentina d'anni. Probabilmente è l'uomo più bello su cui abbia mai posato gli occhi, ma tutto di lui trasuda ricchezza, potere... e pericolo.

«Stai bene?» ripete, inclinando la testa di lato mentre io lo osservo affascinata.

«Ah, ehm... sì, scusa... Sono solo nervosa.» Distolgo lo sguardo, abbassandolo sulle mie mani irrequiete.

Lui lancia un'occhiata alle mie spalle verso gli uomini sul marciapiede e poi riporta gli occhi su di me, come se avesse messo insieme i pezzi. «Ti stanno importunando?» domanda, facendo un cenno del capo verso gli uomini.

«No.» Scuoto la testa. «Sono soltanto stanca. È stata una giornata davvero lunga. Mi spiace di esserti venuta addosso» dico timidamente. Allungo la mano verso di lui, col palmo rivolto in su, chiedendogli implicitamente di restituirmi la chiave. Mi trema la mano mentre lo osservo spostare lo sguardo tra la scheda elettronica e me. Strofina il

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