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King. Segreto inconfessabile
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E-book294 pagine4 ore

King. Segreto inconfessabile

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Info su questo ebook

King Series

All’improvviso ricordo ogni cosa. L’amnesia se n’è andata, restituendomi tutti i ricordi rimasti imprigionati per mesi nell’oblio. La nebbia si è diradata e la mia memoria è tornata. Anche se avrei preferito che non lo facesse. Adesso che conosco la verità, ho più paura di prima. Perché ci sono segreti molto oscuri che riguardano il mio passato. Segreti che rischiano di mettere in pericolo le persone che amo. Chiedere aiuto a King, l’uomo che ha salvato la mia vita e il mio cuore, è fuori discussione. Questa volta sono io a doverlo proteggere. Anche se significa sposare qualcun altro...

«Questo libro va letto. Punto e basta.»

«Un romanzo pieno di colpi di scena, amore, sesso, violenza e vendetta.»

«L’ho letto tutto d’un fiato.»

T.M. Frazier
è cresciuta sognando che un giorno qualcuno potesse leggere e amare le sue storie. Adesso è un’autrice bestseller di «USA Today» e i suoi libri sono tradotti in tutto il mondo. I suoi romanzi sono stati definiti oscuri, crudi e pieni di grinta: se alcuni scrittori hanno il dono di saper descrivere la primavera, lei sceglie le tinte dell’autunno. La Newton Compton ha pubblicato King e King. Segreto inconfessabile.
LinguaItaliano
Data di uscita10 gen 2020
ISBN9788822741370
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    Anteprima del libro

    King. Segreto inconfessabile - T.M. Frazier

    Capitolo 1

    King

    La vendetta è dolce.

    È quello che si dice. Ma fu soltanto quando strisciai fuori dalle lamiere, togliendomi diverse schegge di vetro dalla pelle, che mi resi conto di quanto fosse vero quel detto.

    Riuscivo praticamente ad assaporare la vendetta, salivavo immaginando il momento in cui avrei avvolto la cintura intorno al fottuto collo del senatore per avermi intralciato.

    Erano passati pochi minuti da quando avevo ucciso un uomo.

    Ma era passato molto tempo dall’ultima volta che ne avevo tratto piacere.

    L’adrenalina era alle stelle, così tanta da risvegliare un morto.

    Ne ero completamente fatto.

    Ne traevo energia.

    Era come se avessi immerso il naso in una ciotola di cocaina e l’avessi sniffata fino a sentirmi invincibile.

    Un fottutissimo Dio.

    E finché non avessi sistemato tutto il casino combinato, non ne avrei smaltito l’effetto. Mi dispiaceva per tutti i figli di puttana che avevano abbastanza palle da cercare di ostacolarmi.

    Fu allora che lo sentii per la prima volta.

    Lui.

    Preppy.

    È il momento di far vedere chi sei a queste teste di cazzo che si sono messe contro il pezzente sbagliato del ghetto. La voce di Preppy riecheggiò forte e chiara nella mia testa, come se fosse lì accanto a me.

    Stavo impazzendo.

    Quando feci ritorno a casa dopo essere strisciato fuori dal bosco, Bear stava scendendo dalla sua moto. Appena mi vide, gettò a terra la sigaretta. Mi venne incontro con passi pesanti e furiosi, la fronte corrugata, i pugni stretti. L’erba secca scricchiolava sotto ai suoi piedi. «Senti, testa di cazzo, non volevo venire alle mani, ma il modo in cui hai gestito la cazzo di situazione non va bene per niente. Lei si merita di meglio, meglio di questo, meglio delle bugie…». Bear si interruppe quando vide il fango e il sangue di cui ero ricoperto. «Cosa cazzo ti è successo?».

    Lo superai, ignorando la domanda, e corsi verso casa, salendo tre gradini alla volta. Spalancai così violentemente la porta che le viti dei cardini in alto schizzarono via e sferragliarono sul pavimento di legno. «Pup!», chiamai. Una piccola parte di me sperava ancora che in qualche modo avesse trovato il modo di restare. Ma quando entrai in casa non dovetti neanche cercare nelle stanze per capire che non c’era più. Sentivo il vuoto. «Merda!», ringhiai, prendendo una delle sedie della cucina. La lanciai attraverso la stanza, volò sopra il tavolino di vetro e andò a schiantarsi sulla sottile parete di cartongesso facendo un buco delle dimensioni di una palla da baseball.

    Bear mi seguì all’interno della casa. «Mi vuoi dire cos’è successo o vuoi continuare a distruggere casa?». Gli passai accanto per andare in garage. Mi servivano moto e rifornimenti.

    Quel tipo di rifornimenti che richiedevano proiettili.

    «Niente che non si potesse risolvere con un sacco per cadaveri».

    Avevo ancora un polso ammanettato, la catena delle manette macchiata del sangue del finto poliziotto. Appena quello stronzo era morto e la macchina si era schiantata contro l’albero, mi ero spostato sul sedile anteriore. Grazie a Dio, le chiavi delle manette erano ancora nella tasca di quel maledetto idiota. «Lo vedo», disse Bear. «Dove cazzo è Doe?». Dal tono della voce sembrava in apprensione, e la cosa mi dava sui nervi, ma me ne sarei occupato in un secondo momento.

    Dopo aver recuperato la mia ragazza.

    «Il buon senatore mi ha fregato. Non c’era Max. E l’ultima volta che ho visto Pup scalciava e urlava, mentre io venivo portato via da un tipo assoldato per farmi fuori». L’immagine di lei che si dimenava tra le grinfie del senatore mi mandava in bestia. «Fai qualche chiamata», tagliai corto. «Scopri dove potrebbe averla portata».

    «Cazzo», disse Bear. Invece di tirare fuori il cellulare, si piegò in avanti e appoggiò le mani sulle ginocchia.

    «Che cazzo succede ora?».

    Bear si afferrò il dorso del naso. «C’è una ragione per cui sono tornato qui, amico, oltre a prenderti a calci in culo per aver combinato un casino con Doe. Credo che prima di risolvere questo problema con una scarica di pallottole, dovresti considerare che potrebbe non essere stato il senatore a cercare di farti fuori», disse, raddrizzandosi e appoggiandosi alla parete, dove si accese una sigaretta.

    «Che cazzo vorresti dire? È stato lui a mandare il tipo ad arrestarmi».

    Bear scosse la testa. «Lui è un nostro problema, ma non è l’unico. Rage ha chiamato meno di venti minuti fa e, come sai, quel figlio di puttana ha occhi e orecchie dappertutto. A quanto pare tutto il casino successo con Isaac non è finito». Si passò una mano tra i capelli e la cenere della sigaretta cadde sul tappeto.

    «Ho fatto saltare il cervello a quello stronzo personalmente. A me sembrava piuttosto finito», ribattei.

    «No, non Isaac. Lui è cibo per i vermi ormai, ma sto parlando di qualcuno che è imbestialito per il fatto che Isaac, essendo morto, non può più continuare a vendere la sua merda in Florida. Qualcuno che non ha paura di uccidere intere famiglie per arrivare alle persone che gli hanno messo i bastoni fra le ruote».

    Mi irrigidii, sapevo esattamente di chi stava parlando. «Eli».

    «Esatto», mi confermò Bear. «E potrei scommetterci che è stato Eli a volerti fare fuori piuttosto che il caro paparino».

    Eli Mitchell era colui che filtrava il proprio denaro sporco attraverso Isaac. Almeno prima che io, Preppy e Bear lo mettessimo ko insieme a parecchi della sua cerchia. Con i suoi spessi occhiali neri e la bassa statura, nessuno l’avrebbe creduto responsabile della metà delle cose che faceva quotidianamente.

    Quando vuoi stanare un coniglio spaventandolo, spargi dentro alla tana del fumo. Il fumo di Eli consisteva nell’uccidere qualunque tuo caro finché non uscivi allo scoperto e finalmente uccideva anche te.

    «Secondo le mie informazioni Eli si trova ancora a Miami, ma sta per fare la prossima mossa. La banda è in isolamento, teme un contraccolpo. Papà è incazzato nero».

    «Prima Isaac e ora quel cazzo di Eli», dissi. «Non c’è un attimo di tregua. A volte penso che starei meglio in galera».

    «Ti capisco, amico. La penso come te. Non si tratta più di faccende tra bande di motociclisti. Queste sono faccende da cartello. Più grandi… più pericolose», disse Bear. «E non posso portare Grace in isolamento. Lo so che la consideri una madre più della troia che ti ha generato, ma ultimamente papà è un dito in culo. Non vuole che nessuno della banda porti dei civili al suo interno, soprattutto durante l’isolamento, quindi dobbiamo trovare un posto sicuro per lei, almeno per un po’». Bear mi guardava e, mentre parlava, compresi ciò che cercava di dirmi. «Io fuori dalla banda non ho nessuno a cui tenga davvero tanto da motivare un’uccisione».

    Pup.

    «Merda!», gridai, rendendomi conto di non poterla portare a casa. Mi voltai e diedi un pugno al muro, provocando un’ammaccatura nel cartongesso, fino allo stucco di rivestimento esterno della casa. Il dolore mi prese dalle ossa del braccio fino alla spalla, ma era sempre meglio di come mi sentivo dentro. Del senso di fallimento. «È colpa mia se Prep è morto. Non avrei mai dovuto assegnarlo alla faccenda della Serra della Nonna. Non avrei dovuto…». Mi passai una mano tra i capelli. C’erano così tante cose da elencare. Felicità, tristezza, e rimpianto avevano preso il sopravvento negli ultimi mesi della mia vita. Potendo tornare indietro, avrei cambiato un sacco di cose. Pensavo che tutto ciò che mancasse alla mia vita fosse Max. Ma adesso c’erano Max, Pup… Preppy.

    E non importava cosa avessi fatto, chi avessi ucciso, Prep non sarebbe mai tornato.

    «Qual è il piano, amico?», chiese Bear.

    «Lo prenderemo prima che lui prenda noi… stasera», dissi, scrocchiandomi le nocche. Il tempo di piangersi addosso era scaduto. C’erano altre persone da uccidere.

    «Mossa coraggiosa, amico».

    «Forse, ma prima devo scoprire dove si trova Pup. Magari non sarò in grado di tirarla fuori da lì, ma devo arrivare a lei. Dirle quello che sta succedendo».

    Bear annuì con la testa. «Posso scoprire dove si trova. Farle arrivare un messaggio», si offrì.

    Scossi il capo. «No, devo recapitarle il messaggio personalmente. È l’unico modo perché lei mi ascolti».

    «Capisco, anche perché, se fossi in lei, a quest’ora ti avrei già staccato le palle», disse Bear. Gli rivolsi un’occhiataccia, stavo per perdere la poca pazienza che mi era rimasta. «Scoprirò dove si trova», mormorò Bear, tirando fuori il telefono dalla tasca. Spense la sigaretta nel posacenere sul davanzale e ne accese un’altra. «Tutta questa faccenda… ci vogliono delle gran palle, amico. Hai sbattuto la testa o cosa?».

    Uscii all’esterno e mi appoggiai alla ringhiera, inalando l’aria salmastra della sera. «Già, direi di sì. Ho lo stesso problema di Pup».

    «Sarebbe?», chiese Bear, seguendomi fuori e appoggiandosi di sbieco alla ringhiera.

    «Abbiamo dimenticato entrambi chi cazzo eravamo».

    Bear compose un numero sul telefono; riuscivo a sentire gli squilli attraverso l’altoparlante, mentre lo teneva vicino all’orecchio. «E adesso te lo ricordi?»

    «Sì, adesso me lo ricordo».

    «E chi sei esattamente?», chiese Bear.

    «Sono lo stronzo cattivo».

    Capitolo 2

    Doe

    Scioccata.

    Sbigottita. Non trovo le parole. Sopraffatta. Stordita.

    Ma scioccata è la parola che meglio descrive come mi sentivo dentro quell’auto.

    Avevo un milione di domande in testa e non riuscivo a emettere un suono per farne almeno una.

    E di certo non riuscivo a essere cortese con i due uomini che si definivano la mia famiglia. Erano semplicemente degli estranei, che, quando mi ero rifiutata di seguirli, avevano tirato fuori l’artiglieria pesante.

    Un bambino con riccioli biondi e gelidi occhi azzurri come i miei.

    Un bambino che mi aveva chiamato mammina.

    La mia vita, da quando mi ero risvegliata senza memoria, era stata un casino di eventi incredibili legati insieme tra loro in un nodo mostruoso. Ogni volta che avevo creduto di poterlo sciogliere, il nodo non aveva fatto altro che stringersi di più, fino a occupare ogni centimetro di spazio disponibile intorno a me, avvolgendosi attorno a qualsiasi cosa potenzialmente positiva.

    Strangolandola a morte.

    Erano stati proprio delle merde a portare il bambino. Era per lui che me ne stavo seduta in silenzio, incapace di scagliare la mia solita raffica di domande. Troppa paura di spaventarlo o di dire qualcosa di sbagliato che lo traumatizzasse a vita.

    Il silenzio dentro quella berlina era assordante; talmente assoluto che, avvicinandovi abbastanza, avreste potuto udire tutto il mio shock. Il rumore degli pneumatici che acceleravano sull’asfalto mentre ci immettevamo sulla statale fu un gradito sollievo.

    L’uomo che diceva di essere mio padre sedeva davanti, sul sedile del passeggero. Tutto di lui suggeriva rigidità e durezza. Il suo completo non aveva una singola grinza o macchia di sudore e, nonostante il caldo e l’umidità, indossava la giacca. Cominciavo a pensare che quel vestito avesse vita propria, che fosse un’entità vivente. Era troppo perfetto. Non mi avrebbe sorpreso se ci fosse stato un piccolo alieno rugoso che abitava nelle maniche, per controllare l’essere dentro al vestito.

    Un telefono vibrò sul sedile anteriore. price. Il senatore abbaiò nel ricevitore. Dopo alcuni secondi di borbottio al telefono, allungò una mano sopra la testa e premette un bottone, facendo sollevare il divisorio oscurato e separando così i sedili anteriori da quelli posteriori.

    Io sedevo a un’estremità del sedile posteriore, a un bambino di distanza dal ragazzo che si era presentato come Tanner.

    Il mio fidanzato?

    O meglio il fidanzato di lei.

    «Vedi…», bisbigliò Tanner, un’espressione maliziosa negli occhi color nocciola. «…lui è la vera ragione per cui hanno smesso di chiamare saluto quello che diciamo per rispondere al telefono». Forzai un mezzo sorriso e Tanner tornò a guardare fuori dal finestrino.

    Per gran parte dell’ora di viaggio, quando sapevo che non mi stava guardando, fissai il profilo di Tanner desiderando che il mio cervello danneggiato prendesse a scartabellare l’archivio dati, nella speranza di individuare il fascicolo che conteneva le informazioni su Tanner e sui miei sentimenti per lui.

    Tanner aveva un bell’aspetto con quella sua faccia pulita da pubblicità del dentifricio. Ma tutto ciò che continuavo a pensare mentre lo guardavo era che sembrava… gentile. E nonostante avesse la mia età, sembrava ancora un ragazzino.

    Una parola che non potrei mai usare per descrivere… lui.

    Non riuscivo a pensare a lui, per il momento. Non volevo. C’erano così tante cose da digerire. Il tradimento di King, il suo arresto. Ma quando guardai di nuovo Tanner, non potei evitare di fare un paragone. Mentre Tanner aveva la pelle pulita e radiosa, era alto e slanciato come un nuotatore, King era abbronzato e tatuato, con una costante tempesta negli occhi. Il suo corpo muscoloso sembrava il risultato di molti incontri di wrestling con il diavolo in persona.

    Quando non fissavo Tanner, sapevo che lui guardava me, perché sentivo il suo sguardo trafiggermi le guance. Ma ogni volta che mi voltavo verso di lui, si girava e fingeva di essere interessato a qualcosa fuori dal finestrino.

    E poi c’era il bambino.

    Il fatto che io fossi madre era proprio assurdo.

    Assolutamente incredibile.

    Ma, strano a dirsi, era l’unica cosa dentro quell’auto di cui ero certa.

    Mio padre, il mio fidanzato, mio figlio. Quella berlina conteneva la mia presunta famiglia, eppure, a eccezione del piccolo, ogni fibra del mio corpo mi diceva che la mia vera famiglia si allontanava sempre di più, a ogni chilometro di strada che percorrevamo.

    king.

    Forse era tutta una bugia. Ogni singola cosa. King aveva detto di amarmi. Forse anche quella era una bugia. Non sapevo più a cosa credere.

    Non limitarti a sopravvivere. Vivi, mi aveva detto.

    E così avevo fatto.

    E amato.

    La rabbia che avevo provato nei confronti di King per avermi mentito era passata nell’istante in cui avevo visto la delusione oscurargli il volto, non appena si era reso conto che Max non era dentro quell’auto.

    E poi, quando il detective lo aveva ammanettato, non ci avevo più visto dalla rabbia.

    Avrei voluto lottare per lui. Avrei voluto essere io a riportargli sua figlia. Ma non avevo potuto fare altro che osservare l’orribile scena che si svolgeva davanti ai miei occhi, intrappolata tra le braccia del senatore. Dentro mi ero sentita soffocare, mentre King veniva spinto nell’auto del detective e riportato in una cella senza finestre.

    Stavo dicendo la verità quando avevo raccontato al senatore che King mi aveva salvata. E non intendevo le volte che mi aveva salvato da Ed o persino da Isaac.

    Intendevo quando mi aveva salvata da me stessa.

    Non mi ero mai aspettata di potermi innamorare di King. Il mio rapitore, il mio tormentatore, il mio amante, il mio amico, il mio mondo.

    Eppure era successo.

    Il bambino sdraiato sul mio ventre si mosse, i suoi piccoli respiri mi scaldavano la pelle attraverso la camicia, là dove il suo naso premeva contro il mio stomaco.

    Avevo delle domande. Così tante domande che la testa mi scoppiava peggio di quando Nikki mi aveva sparato. Volevo urlare, a mo’ di scarica di mitragliatrice, ma temevi di spaventare il bambino dalle guance paffute. Gli accarezzai i morbidi ricci e lui sospirò con assonnata soddisfazione.

    «Non posso credere che sia tu, Ray. Credevo che non ti avrei più rivisto, eppure sei seduta qui accanto a me. Ti ricordi ancora di me? O di lui? O qualsiasi altra cosa?», mi domandò Tanner esitante. Alzai lo sguardo di scatto per incontrare l’unica cosa che ricordavo della mia vita passata: i bellissimi occhi color nocciola dei miei sogni.

    Scossi la testa. «Solo i tuoi occhi. Li ho sognati. Una volta», ammisi.

    «Quindi mi hai sognato, eh?». Tanner agitò le sopracciglia in modo allusivo. Mi dette un colpetto con il gomito sulla spalla, poi prese le distanze da quel contatto insolito. «Scusa», disse, quando vide che mi stavo irrigidendo. «L’abitudine».

    «Tutto okay», replicai, anche se non ero sicura che fosse tutto okay. «Devo chiederti delle cose su di lui, però».

    Tanner guardò amorevolmente il bambino. «Chiedi pure».

    «Quanti anni ha? Hai detto che io ne ho diciotto. Quando è successo tutto questo? Come?»

    «Come?». Tanner rise nervosamente. «Be’, Ray, quando un uomo e una donna si amano…». Si interruppe, quando vide che non stavo sorridendo. «Scusa. Sono così abituato a scherzare con te. Tu sei l’unica che capisce le mie battute, o almeno una volta era così». Tanner si passò una mano tra i ricci e sospirò. Si mise a giocare con le cuciture del sedile in pelle.

    L’auto si fermò davanti a un’ampia casa a tre piani, con la facciata rosa acceso. Alte colonne serpeggianti erano schierate sul portico, che era tappezzato di fenicotteri rosa di plastica e nani da giardino di varie dimensioni. Il lungo vialetto era diviso in sezioni a ventaglio, della stessa sgargiante tonalità di rosa della facciata. Il prato era disseminato di altri fenicotteri di plastica. Fontane di cemento, almeno una trentina, tutte in stile diverso, erano sparpagliate per il cortile.

    «Io sono fatto così», disse Tanner, aprendo la portiera. Sollevò il bambino dalle mie gambe e mi si strinse il cuore.

    «Aspetta, dove stai andando?», gli chiesi, sentendomi all’improvviso in preda al panico.

    «È stata una lunga giornata per lui. Di solito passa la maggior parte delle notti da te, ma sta con me da quando sei sparita», disse Tanner. E, sebbene non mi ricordassi del bambino, non potei fare a meno di sentirmi delusa che non rimanesse con me. Tanner doveva aver percepito il mio stato d’animo perché aggiunse: «Ma ti prometto che tornerò presto. Va’ a sistemarti, dopo parliamo un altro po’».

    Il senatore emerse dal sedile del passeggero.

    «Aspetta!», gridai. Tanner si voltò. «Come si chiama?». Indicai il bambino la cui guancia era appoggiata alla spalla di Tanner e che, sebbene fosse stato sballottato un po’, dormiva ancora.

    Tanner sorrise. «Samuel».

    Il cuore mi schizzò fuori dal petto.

    Samuel.

    Preppy si chiamava Samuel.

    «Ma lo chiamiamo Sammy», disse Tanner.

    «Tanner», disse il senatore con tono di rimprovero. Poi si mise seduto accanto a me sul retro dell’auto. Il disprezzo che avevo momentaneamente messo da parte per il bene di Sammy tornò a farsi sentire subito e, mentre ci rimettevamo in strada, sparai le mie domande. «Perché hai fatto arrestare King?», chiesi, incapace di nascondere l’amarezza nella mia voce. «Lui mi ha preso con sé. Mi ha dato un posto dove stare. Prima di lui, vivevo per strada, arrangiandomi per trovare un riparo o del cibo. La mia unica amica era una battona senzatetto che pensava fossi io quella che faceva pena!».

    Il senatore non batté ciglio nel sentire la mia storia, non ne sembrava toccato in alcun modo. Si aggiustò un gemello e prese a digitare qualcosa sul cellulare. «Brantley King è un criminale, un truffatore e un assassino», asserì senza guardarmi. «Qualunque tipo di relazione pensavi di avere con lui era una farsa. E al limite dell’illegale. Quando mi ha rivelato che voi due eravate… intimi, ho sperato davvero che mi stesse solo provocando, ma adesso so che diceva la verità. Quell’uomo è venuto da me con il solo scopo di usare te come pedina per ottenere ciò che voleva. Niente di più. Si è preso gioco di te, una ragazzina, e ha cercato di truffarmi. Adesso sta andando dove merita, e questa è l’ultima volta che voglio sentir parlare di lui, signorina».

    «Voleva solo riprendersi sua figlia», replicai, incrociando le braccia al petto. Poteva anche credere di aver chiuso il discorso, ma col cazzo.

    «Non sempre otteniamo ciò che vogliamo», disse impassibile il senatore. Le sue parole riecheggiarono nella mia testa come se gliele avessi già sentite dire. «Inoltre, non so che tipo di potere pensa che abbia un senatore. Il massimo che avrei potuto fare per lui era scrivergli una lettera di raccomandazione per il tribunale dei minori. Forse fare una chiamata al giudice Fletcher, sempre che lavori ancora in tribunale».

    «Allora perché hai stretto l’accordo? Riportami indietro», ordinai. «Io non ti conosco nemmeno. Riportami indietro!», gridai, allungandomi verso la portiera, fregandomene che la macchina stesse andando a tutta velocità. Spinsi la maniglia e aprii la portiera abbastanza per vedere la strada sterrata che scorreva al di sotto. Il senatore si protese in avanti e la richiuse bruscamente, bloccando la serratura.

    «Ramie, non essere sciocca. Non c’è ragione di tornare là. Inoltre, vuoi davvero lasciare tuo figlio?», mi chiese, alzando un sopracciglio.

    Merda.

    «Tanner dice che hai detto a tutti che ero a Parigi, così da non sentirti imbarazzato di avere una fuggiasca come figlia. Non credi che invece di inventare bugie avresti potuto impiegare meglio il tuo tempo a cercarmi?», chiesi, con la mano ancora sulla maniglia. «Nei miei panni, tu vorresti rimanere, sapendo questo?».

    Il senatore sospirò. «Ti abbiamo cercato, Ramie. Ma non sapevamo della faccenda della memoria. Non rintracciandoti, abbiamo semplicemente pensato che non volessi essere trovata. E smettila di far ruotare tutto intorno a te. Questa batosta non ha colpito soltanto te, perciò pensaci bene prima di andare in giro ad accusare la gente».

    «King non mi ha rapita. Voglio che tu faccia cadere le accuse. Non voglio che torni in prigione», affermai, incrociando le braccia al petto.

    Il

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