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Non abbandonarmi mai
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E-book516 pagine7 ore

Non abbandonarmi mai

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Info su questo ebook

Fin da quando è un’adolescente Stella non fa che ripetersi: “Resisti!”. La piccola realtà in cui vive è fatta di persone mediocri, immorali e interessate solo alle apparenze. È un incubo che con i suoi artigli invisibili la soffoca giorno dopo giorno, anno dopo anno. E l’unica soluzione è scappare. 
Così, senza un soldo e a un passo dalla laurea, la ragazza decide di abbandonare la sua famiglia e di partire per la Città eterna. Pur di non rinunciare ai suoi progetti di vita, è disposta a vendersi l’unica cosa che le è rimasta: la dignità. Di giorno è Stella, una brillante studentessa determinata a completare il percorso universitario nei tempi previsti; di notte è Nuit, una bellissima e sensuale spogliarellista acclamata dal pubblico maschile: sguardi lascivi, perversi e profanatori la bramano, la divorano, la intrappolano in un gioco spietato di potere e malavita. Finché lei non si scontrerà con due occhi tenebrosi che in un istante le trafiggono il cuore. Sarà mai in grado di scappare anche da loro? 

Ellis V. Crystal
è la mamma di un piccolo “terremoto” di sei anni che, a quanto pare, è allergico al silenzio o allo stare fermo. Titolare d’azienda sette giorni su sette è anche una lettrice accanita dall’età di tredici anni, una sognatrice che vede ogni obiettivo come una sfida e soprattutto una donna che non rinuncia mai al caffè del mattino da quando dorme cinque ore a notte perché ha scoperto di potersi immergere, attraverso la scrittura, in altri mondi.
LinguaItaliano
Data di uscita11 apr 2019
ISBN9788822733078
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    Anteprima del libro

    Non abbandonarmi mai - Ellis V. Crystal

    2300

    Prima edizione ebook: maggio 2019

    © 2019 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-3307-8

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Librofficina

    Ellis V. Crystal

    Non abbandonarmi mai

    Una storia ispirata a fatti realmente accaduti

    Indice

    Prologo

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Capitolo 20

    Capitolo 21

    Capitolo 22

    Capitolo 23

    Capitolo 24

    Capitolo 25

    Capitolo 26

    Capitolo 27

    Epilogo

    Ringraziamenti

    Non è forte chi non cade,

    ma chi cadendo ha la forza di rialzarsi.

    Jim Morrison

    Prologo

    Due ore. Ancora due ore e sarebbe finita.

    Quanto meno era quella la speranza della mia anima spezzata. Per attenuare il forte tremore delle mani, mi aggrappai all’angolo della scrivania, chiusi gli occhi e trassi un profondo respiro. Le lacrime pungevano agli angoli degli occhi come aghi arroventati, ma non avrei pianto: non avrei permesso al terrore di sopraffarmi, non ancora perlomeno.

    Scappare.

    Questo era il mio unico obiettivo. Scappare da quell’inferno.

    Rilasciai il fiato e ripresi a infilare frettolosamente nel borsone qualche maglia, tre jeans, due felpe e tutto l’occorrente per l’igiene intima. Chiusi la zip con foga come a voler separare, con quel gesto, il futuro dal mio angoscioso passato e controllai che nella tracolla ci fossero i documenti, il cellulare e i settecento euro che avevo racimolato facendo la baby-sitter a due gemelli. Corsi in soggiorno, sfilai un foglio bianco dalla stampante e scrissi a caratteri grandi:

    Le bollette le ho pagate. Non mi cercate. Starò bene. S.

    Mi spostai nella piccola cucina e incastrai il foglio sotto il magnete a forma di pizza sul frigorifero. Tornai di corsa nella stanzetta, acciuffai per il manico il borsone, mi accostai alla finestra e sbirciai attraverso le persiane socchiuse. Non c’era nessuno in strada, a parte l’anziana signora Rosa, seduta sul gradino davanti casa sua e indaffarata a scegliere le foglie di basilico raccolte in grembo. Espulsi tutta l’aria dai polmoni, vagai un’ultima volta con lo sguardo sulle pareti della mia infanzia e, stringendo i pugni sui fianchi, mi avviai verso il portone di casa. Lo spalancai e mi trovai davanti la mia sorellina.

    «Dove vai?», mi chiese con la voce innocente dei suoi dodici anni, mentre si sgombrava la fronte dai suoi riccioli castani.

    «Ai campi da tennis», replicai, pregando dentro di me che non le venisse l’idea di accompagnarmi.

    Guardò il borsone. «Ma non dovevi allenarti domani?»

    «Ho anticipato a oggi. Domani è il compleanno di Anna». Una bugia istantanea. La mia sorellina, nonostante la tenera età, era dotata di un’intelligenza acuta, per cui, prima che realizzasse che in realtà era già il cinque agosto, ovvero il compleanno di Anna, mi piegai sulle ginocchia, le misi le mani sulle spalle e le dissi in fretta: «Tu vai dalla nonna. Aspetta lì papà e mamma. Penso di fare tardi stasera». Si corrucciò e io la strinsi forte al petto, aspirando avidamente il profumo delicato dei suoi capelli. Mi si inumidirono gli occhi e le bisbigliai tra le ciocche sciolte: «Sii forte, scimmietta mia. Sei la luce del mio cuore».

    Lei si divincolò dal mio abbraccio e puntò i suoi occhietti sospettosi su di me. «Stella, tutto bene?».

    Abbassai subito lo sguardo fingendo di sistemare il borsone sul fianco. «Sì», sospirai mesta. Le stampai un rapido bacio sulla fronte e scesi la scalinata esterna senza guardarmi indietro.

    Una volta in strada, legai i lunghi capelli castani in una coda, indossai un cappellino bianco con la visiera, inforcai gli occhiali da sole e, con dita tremule, cancellai le lacrime che mi corrodevano le guance come acido.

    Chissà se un giorno rivedrò la mia scimmietta. Chissà se un giorno mi perdonerà, mi chiesi.

    Superato il vicolo della zona storica, come una ladra, da dietro una fontanella mi affacciai sulla strada principale per controllare l’arrivo dell’autobus. All’improvviso, la vista di una targa mi fece congelare il sangue nelle vene. La targa di un’auto che mi avrebbe perseguitata per il resto dei miei giorni.

    Sentii il mio cuore saltare un battito e rimasi lì inerme con il solo desiderio di trasformarmi in una vera statua. Se il conducente mi avesse notata, i cancelli del mio inferno si sarebbero di nuovo spalancati. Dio, ti prego… fa’ che non mi veda!, implorai con ogni briciola del mio essere, mentre la prolungata apnea mi stava annebbiando la vista.

    Dio doveva essere in ascolto in quel momento perché la macchina proseguì per la sua strada: il guidatore, che incarnava il mio incubo peggiore, era troppo impegnato a ridere con qualcuno al cellulare per guardarsi intorno. Fissai i fari posteriori allontanarsi e sentii lo spavento scivolarmi via di dosso assieme a un anno di vita.

    La stazione. Dovevo solo raggiungere la stazione ferroviaria della città più vicina.

    Capitolo 1

    «Sbrigati!», mi sollecitò Alice, in trepida attesa sulla soglia di casa. «Non vorrai fare tardi il primo giorno nel nuovo locale».

    «Arrivo!», gridai dal bagno. Gettai il lucidalabbra nella borsetta, mi diedi un’ultima guardata allo specchio e, ticchettando con i miei tacchi alti dodici centimetri sul pavimento vecchio di mezzo secolo, raggiunsi la mia collega. «Irma e Stef?», le domandai mentre mi chiudevo il portone alle spalle.

    «Sono giù a fumarsi una sigaretta».

    Scendemmo le tre rampe di scale e in un lampo ci infilammo sui sedili posteriori della Opel Corsa che ci avrebbe portate al nostro nuovo luogo di lavoro.

    «Ciao, Red», salutai il nostro saltuario autista nonché addetto alla consegna.

    Ricambiò il saluto con un cenno attraverso lo specchietto retrovisore e s’immise nel traffico di Roma, tamburellando sul volante con le sue grosse dita a ogni semaforo rosso o rallentamento.

    «Voi avete già lavorato in questo locale?», chiesi a Irma e Alice, che erano più veterane di me e Stef nell’agenzia.

    «Io. Per un mese», rispose Alice, incastrata tra me e Stef. «Il proprietario non avrà neanche trent’anni, non è malvagio ed è fissato con la puntualità e l’igiene».

    «Allunga le mani?», indagò Stef, distogliendo finalmente i suoi occhi a mandorla dal finestrino.

    Alice ridacchiò. «Oh. Penso che siano più le sue dipendenti ad allungare le mani su di lui. È un gran bel pezzo di manzo, dotato di un fondoschiena da prendere a morsi dal mattino alla sera».

    «Mmh…», mugugnò Irma sul sedile anteriore, controllando la scollatura sul suo seno prosperoso. «Sarà divertente».

    Io e Stef ci scambiammo un sorriso d’intesa. La barbie, come noi affettuosamente l’avevamo battezzata, stava già pregustando la caccia seduttiva al nuovo proprietario. Il suo motto era la vita è una e io me la godo con tutti gli annessi e connessi.

    Per certi versi, invidiai Irma. Invidiai la sua disinibizione, la sua abilità nel manipolare gli uomini come marionette. Io, invece, al primo approccio mi irrigidivo come un tronco d’albero. I ricordi erano ancora troppo vividi per riuscire a domarli. Erano nascosti nel loro covo, che attendevano solo il momento più propizio per dilaniarmi dentro.

    Una lacrima sfuggì al mio controllo e, sebbene in auto prevalesse la semioscurità, per celarla girai il volto verso il finestrino. Red aveva appena svoltato in piazza Barberini e fui subito catturata dalla meravigliosa fontana del Tritone e dalla calda luminosità che la circondava, dalla magia dell’arte che presidiava ogni angolo, ogni piazza, ogni palazzo. Roma era davvero la Città eterna, la città più bella del mondo, e io me ne stavo innamorando ogni giorno di più.

    Imboccammo via Veneto, poi Red parcheggiò in una rimessa d’auto sotterranea, consegnò le chiavi all’addetto seduto alla sbarra d’ingresso e sia io che le altre tre ragazze lo seguimmo in strada in totale silenzio. Dopo circa un centinaio di metri, superate le vetrate di un cocktail bar di lusso, girammo l’angolo fino ad arrivare dinanzi a una porta metallica nera. Pigiato il pulsante, quasi nascosto nella parete di mattoni, ad aprirci fu un ragazzo dall’espressione ostile, che, con un cenno di saluto al nostro accompagnatore, si scostò di lato per farci passare. Io ero un metro e settantatré e con i tacchi raggiungevo in altezza parecchi uomini, eppure, nell’oltrepassare lui, mi sentii piccola: doveva sfiorare i due metri, e la maglia nera e aderente che indossava gli metteva in risalto la muscolatura, dandogli un’aria intimidatoria. Ci fece segno di seguirlo e attraversammo un corridoio lungo e angusto, illuminato in basso da due file di lucette azzurrine, per poi piombare davanti a un’altra porta. Dopo che il buttafuori vi diede qualche lieve colpo si udì un clic della serratura e fummo condotte nell’ufficio di quello che supposi essere il proprietario del locale.

    Ok. Mi aspettavo un trentenne dall’aspetto cinico e arrogante, di certo non la personificazione del pericolo, seduto su una poltrona di pelle a fumarsi una sigaretta e con il tatuaggio di un teschio bendato a decorargli il collo. Si adagiò allo schienale e, esalando una boccata di fumo, scivolò con i suoi occhi tenebrosi su di noi che, immobili, stavamo trattenendo il fiato.

    «Nessuna di voi è rossa», esordì in un tono così basso e rude da far venire i brividi. Assottigliò lo sguardo, spostandolo a rilento sul buttafuori alla mia sinistra. «Ho chiesto a Fabio una rossa», puntualizzò irritato.

    «Ha mandato queste», rispose l’altro, senza scomporsi di un millimetro.

    «Chi di voi fa le uscite?», domandò, riportando quegli occhi infernali e ancora socchiusi su di noi.

    Irma e Alice alzarono di poco l’indice della mano.

    «Bene. Vi avviso sin da subito che io non prendo alcuna provvigione, in quanto non m’interessa questa vostra seconda attività. Siete libere di scopare con chi vi pare e piace, e che sia per soldi m’importa ancora meno. L’importante è che lo facciate lontano da qui e nel vostro tempo libero. Non voglio guai. Però, per questioni di sicurezza, siete obbligate a informare lo staff dei vostri spostamenti, a specificare con chi vi allontanate, così possiamo rintracciarvi in caso di complicazioni con il cliente. Ci siamo capiti?». Entrambe annuirono meccanicamente e lui trasferì con una lentezza quasi minatoria lo sguardo su di me e Stef. «E voi perché non le fate le uscite?».

    Il trasalimento di Stef al mio fianco fece scattare la mia vena bellicosa e dissi con voce ferma: «Ne deduco che ci sia stato un malinteso con Fabio sui locali. Forse non eravamo destinate al suo».

    Lui piegò la testa di lato e schiacciò la sigaretta nel posacenere senza togliermi gli occhi di dosso. «Come ti chiami, sapientona?». Schiusi le labbra per rispondere, ma lui si affrettò ad aggiungere: «Il vero nome, non quello d’arte».

    Alzai il mento, imponendomi di non far trasparire l’agitazione che formicolava sotto la mia pelle ambrata. «Stella».

    Storse la bocca sottile in una smorfia e rivolse l’attenzione alla mia amica. «E tu come ti chiami?»

    «Ste… Stefania, ma… ma tutti mi chiamano Stef», balbettò lei terrorizzata e con il fiato spezzato.

    «Io sono Dennis e sono la legge in questo locale», disse lui, accendendosi una nuova sigaretta e toccandosi con le dita la cresta dei capelli mesciati e totalmente rasati sulla nuca. «Per le bevande consumate guadagnerete dieci euro l’una, invece per i superalcolici venti». Poi, focalizzando di nuovo l’attenzione su me e Stef aggiunse: «Be’, mi auguro che voi due mi portiate dei guadagni con i drink, visto che sarà dura conquistare la fedeltà dei clienti senza offrire loro dei servizi extra. Il fisico e la bellezza li avete. Usateli. E ora smammate. Matteo vi farà vedere i camerini», concluse e sventolò debolmente la mano verso la porta, neanche fossimo delle mosche da scacciare.

    Le mie colleghe indietreggiarono in sincrono; io, invece, mossi un passo esitante in avanti. «Ehm… io… io non bevo e non intrattengo i clienti ai tavoli. Forse a Fabio è sfuggito di informarla di questi dettagli».

    Alle mie parole, il signor Legge corrugò la fronte come se non fosse certo di aver udito bene. Adombrandosi in volto, afferrò il cellulare dalla scrivania di vetro e fece cenno al suo erculeo assistente di far uscire le altre ragazze dall’ufficio.

    «Fabio», ringhiò non appena accostò l’apparecchio all’orecchio. «Io ti chiedo una rossa focosa e tu mi mandi una puritana del cazzo?». Seguì una lunga pausa, durante la quale la sua espressione variò dall’infastidito al pensieroso, e alla fine mi squadrò attraverso le spirali di fumo, con un brillio indefinibile nelle sue iridi color whisky. «D’accordo. Solo per stasera. Domani mandami la rossa». Posò il cellulare sulla scrivania e nel sollevarsi in piedi si rivelò più alto di quanto avessi immaginato. Con sguardo assorto, si recò dinanzi all’incantevole acquario che occupava metà parete. «E così saresti l’erotismo fatto persona quando balli», commentò, senza curarsi di nascondere la nota scettica nella sua voce roca, graffiata forse a causa del tabacco.

    Stavolta fui io ad accigliarmi. «Non saprei. Finora non ho mai ricevuto lamentele sulle mie esibizioni».

    Increspò la bocca in un sorriso che mi lasciò parecchio perplessa. Tornò alla scrivania e spense anche la seconda sigaretta, consumata solo per metà. Afferrò la giacca di pelle dalla spalliera della poltrona e, indicandomi in modo galante la porta, disse: «Andiamo a scoprirlo, sapientona».

    Usciti dall’ufficio, fianco a fianco, percorremmo il corridoio semibuio e, invece di prendere l’accesso che portava al bar che avevo intravisto dalla strada, scendemmo una rampa di scale in fondo alla quale si udivano i rimbombi bassi della musica. Quando il proprietario spinse con una spalla il pesante portone metallico, l’immensità del locale sotterraneo mi lasciò letteralmente a bocca aperta. Al centro campeggiava una pista a forma di triangolo foderata da moquette nera, mentre alle estremità erano fissati i tre pali d’acciaio che si perdevano in un soffitto dall’aspetto tenebroso. I séparé intorno erano immersi nella semioscurità e delimitati da varie strisce di specchi dai bordi rosso sangue: nonostante la sfumatura dark, questi giochi cromatici donavano all’ambiente anche un tocco di eleganza.

    Ci spostammo verso il bar, che occupava un’intera parete, e Dennis s’infilò tra due sgabelli di una lunga fila per bisbigliare qualcosa a una delle barman oltre il bancone. Lei mi scoccò un’occhiata e poi annuì alle parole del proprietario. Quest’ultimo si riavvicinò e m’indicò la direzione per i camerini che si trovavano alle spalle del bar. Rimasi sorpresa nello scoprire che oltre alle mie tre coinquiline ci fossero anche altre sei ragazze, a me totalmente sconosciute e sicuramente dipendenti di altre agenzie.

    Dopo una presentazione veloce e formale, tutte tornarono a prepararsi per la serata. Io mi accomodai dinanzi all’ultimo specchio libero ed estrassi dal sacchetto il completo riservato agli spettacoli d’esordio. Nulla di sfarzoso, propendevo più per la semplicità: uno slip brasiliano di pizzo bianco abbinato a un reggiseno senza spalline, che comunque valorizzava la mia terza piena senza sfociare nel volgare, e una specie di mantella bianca semitrasparente che arrivava a coprire fino a metà coscia.

    «Per le nuove arrivate», esordì, a un tratto, una voce maschile baritonale sulla soglia della porticina. «Sono Livio, il responsabile qui sotto. A rotazione ognuna di voi ballerà tre canzoni di fila, che sceglierete dalla lista che fra poco vi mostrerò. Quando sarete ai tavoli con i clienti, non dovete trattenervi per più di quindici minuti, la candela che si spegnerà al centro del tavolino è il segnale dello scadere del tempo. Inventatevi scuse per allontanarvi senza però apparire sgarbate, a meno che il cliente non ordini una seconda bevanda per voi. In tal caso la suddetta ballerina potrà saltare il suo turno di ballo, ma dopo due drink vi consiglio comunque di sganciarvi: alcuni clienti si prendono troppa confidenza e fanno la manomorta. Siamo intesi?».

    Le mie tre coinquiline annuirono, anche se ebbi il sospetto che sapessero perfettamente come comportarsi con i clienti dal momento che non erano del tutto novelline. Alice era alle dipendenze di Fabio, che era il proprietario della nostra agenzia, da più di un anno, Irma da circa nove mesi, io e Stef da quasi quattro mesi.

    «Ah», riprese il responsabile, che con indosso un completo su misura mostrava una cinquantina d’anni. «Per questione di riservatezza è obbligatorio un nome d’arte che dovete usare anche tra di voi. Evitate i francesismi troppo volgari; la clientela è tutta rigorosamente selezionata e di un certo rango. Questo è un locale di lusso, di conseguenza comportatevi come donne di classe. Non scordatelo. Ora, voi quattro novelline, seguitemi. Dovete scegliere i vostri cavalli di battaglia per le prime esibizioni». Volse la testa calva verso una mora che non conoscevo. «Amanda, apri tu le danze».

    Lei gli rispose con un occhiolino d’intesa, mentre noi ci apprestammo a seguirlo in fila indiana fino all’interno di un box non visibile dalla sala principale. Lì dentro vi era stipata tanta attrezzatura all’avanguardia da far impazzire d’invidia i DJ di tutte le discoteche del mondo.

    Scelti i brani dalla lista sul computer, il responsabile ci destinò uno sguardo carico di ammonimento, accomiatandosi con uno sterile: «Benvenute al Passion».

    Un quarto d’ora dopo stavo per raggiungere le mie colleghe già sedute al bar nei loro abiti succinti, quando la ragazza barman si affacciò da dietro lo stipite della porta. «Nuit, giusto?».

    Confermai il mio nome d’arte con un lieve cenno della testa.

    «Sei tu la prima a ballare». Ma non toccava ad Amanda? Arcuai un sopracciglio e lei, sorridendo, rispose alla mia muta domanda con un: «Ordini del capo», per poi scomparire nel buio del corridoio.

    Ok. Il signor Legge era impaziente di scoprire se io fossi o meno l’erotismo fatto persona. All’idea del suo sguardo esaminatore, l’agitazione scoppiò dentro di me con prepotenza, ma con una scrollatina di spalle m’imposi di darmi una calmata. Nel peggiore dei casi, Fabio, dopo una lunga predica, l’indomani mi avrebbe spedita in un altro locale e tanti saluti al signor Legge tatuato. Mi armai di coraggio e, dopo un lungo respiro, nell’oltrepassare il box, accennai al ragazzo che aveva delle cuffie in mano di far partire la sequenza dei miei brani.

    Nell’attimo in cui le prime note di Frozen di Madonna riempirono l’aria, scostai le due tende di velluto rosso e salii sinuosamente sul palco, dove le luci sembravano danzare al ritmo crescente della canzone.

    Di sfuggita individuai il signor Legge che, seduto su uno sgabello dinanzi al bar con un’espressione beffarda sul viso, quasi di sfida, dondolava un liquido scuro in un bicchiere di cristallo. Che lo spettacolo abbia inizio!.

    Afferrai con una mano il palo, vi agganciai una gamba e, nell’eseguire una rotazione lenta, rovesciai la testa all’indietro affinché i miei capelli lunghi ondeggiassero sensualmente sulla schiena. Chiusi gli occhi e avvertii con sollievo la melodia penetrarmi fin nelle ossa, trascinarmi nel suo incantesimo e in quel luogo magico dove esistevamo solo io e il mio corpo. Ogni sfarfallio della leggerissima mantella, ogni carezza trascinata sulle mie forme toniche e modellate da anni di esercizi, ogni contorsione del mio fisico particolarmente snodato non erano rivolti a catturare la perversione degli spettatori celati dalla penombra dei séparé, bensì a raffigurare e trasmettere loro il nirvana che mi riempiva l’anima durante ogni esibizione.

    Nell’attimo in cui, sulle ultime note della terza canzone, mi sfilai pianissimo e con strusciamenti carichi di sensualità il reggipetto, un fischio sommesso mi strappò un sorriso. Coprendo con la mantella semitrasparente la mia parziale nudità, con leggiadria scesi giù dalla pedana e mi rifugiai nel camerino.

    «Fantastica!», disse la barman, sporgendo la testa oltre lo stipite dell’ingresso. «Uno spettacolo incredibile. Fino a quando non ti sei tolta il reggiseno, mi sono perfino scordata di essere in un night club», aggiunse velocemente, per poi sparire senza che io riuscissi a balbettare almeno un grazie.

    Sei paia d’occhi, sconosciuti e interrogativi, si spostarono su di me. Mi limitai a far finta di niente e indossai la camicetta, che avevo lasciato sulla spalliera della sedia, insieme a una gonnellina: la mia tenuta tra uno spettacolo e l’altro.

    Facendo due conti, poiché io ero stata la prima delle dieci ballerine, avevo circa un’ora e mezza a disposizione prima della mia prossima esibizione. Abbastanza tempo quindi per dedicarmi alla mia seconda attività. Non potevo essere più contenta! Con un sorriso soddisfatto sulle labbra, recuperai un libro dal fondo della mia sacca e, posandolo sulle ginocchia, l’aprii dove poche ore prima avevo lasciato il segnalibro.

    «Che sta facendo?», chiese la ragazza mora di nome Amanda, mentre io m’infilavo le cuffiette nelle orecchie.

    «Studia», rispose Stef, prima di uscire dalla stanza nel suo costume dark, che era in totale contrasto con la sua indole bonaria. Come riuscisse a calarsi nel ruolo della Padrona, lei che era praticamente un angelo gentile, per me era ancora un mistero.

    Un leggero tocco dietro la spalla mi riscosse all’improvviso dal mondo del diritto internazionale. «È già arrivato il mio turno?», chiesi alla barista dall’aspetto vispo che occhieggiava con la fronte aggrottata il tomo sulle mie gambe.

    «Ehm… ancora no. C’è un cliente che da mezz’ora insiste per averti al tavolo. Be’, a dire il vero, dopo la tua esibizione, tutti hanno chiesto di te, ma il capo mi aveva avvisata che non offri servizio di intrattenimento privato. Però per questo cliente ti suggerisco di fare un’eccezione. È giovane, bello da avere orgasmi solo a guardarlo, ricco da far schifo ed estremamente generoso con le sue pupille. Credimi. Maggie venderebbe il braccio destro per entrare nel suo harem. Non buttare quest’occasione, anche perché è uno che sa fermarsi davanti a un no».

    «Non mi pare, dal momento che è più di mezz’ora che insiste per avermi al suo tavolo».

    «Giusto», ridacchiò lei, rivelando due tenere fossette sulle guance. «Be’, forse dipende dal fatto che è il figlio del senatore e non è mai stato rifiutato finora».

    Ah, un capriccio del cocco di papà! «Ringrazialo da parte mia, ma non posso fare eccezioni». Per un viziato non l’avrei fatto neanche se avessi rischiato di penzolare per il collo dal ramo di un albero. Sì, forse ero stata precipitosa a etichettarlo senza neppure conoscerlo, ma ne sapevo fin troppo di soggetti così. Le cicatrici, seppur invisibili, dolevano ancora.

    «Ok», borbottò la barista, allungando la mano. «Io comunque sono Lisa. Se dovessi cambiare idea, sai dove trovarmi. Comincia a preparati perché dopo Maggie rientri in scena».

    Ricambiai la sua stretta di mano. «Ad ogni modo, sei stata molto gentile, Lisa, a informarmi. Io sono Nuit ed è un piacere conoscerti».

    Lisa dispiegò le sue piccole labbra a cuore in un altro luminoso sorriso e ritornò in fretta alla sua postazione lavorativa. Io, ormai sola nel camerino visto che le altre nove ballerine dovevano essere sparpagliate tra i séparé del locale a consumare bevande con i clienti, con un sospiro rassegnato richiusi il libro. Mi ero illusa di poter studiare almeno un altro capitolo, ma non c’era più tempo e mi affrettai a indossare il costume per la nuova esibizione.

    Mi ero esercitata per settimane e avevo imparato numerose nuove coreografie da una maestra di ballo egiziana, così da aggiungere un pizzico di atmosfera orientale ai miei spettacoli. Con i diversi strati di veli a solleticarmi le gambe e con un sorriso sbarazzino sulle labbra sensuali, risalii sul palco. Come di consueto, mi estraniai quasi subito dalla realtà. Ben presto mi ritrovai non più nel locale affollato di uomini dai pensieri licenziosi, ma in un luogo lontano, dove il tepore del sole mi avvolgeva lo spirito, i piedi affondavano nella sabbia fine e bianca di una spiaggia paradisiaca, il venticello fresco del mare smeraldino suscitava in me la sensazione di essere invincibile e non esisteva un passato né un futuro, ma esistevo soltanto io. Un’illusione che durò finché non sfilai il reggiseno. Ogni volta che mi spogliavo, puntualmente sentivo la mia anima macchiarsi, ciò nonostante mi costrinsi a sorridere e ancheggiai sensualmente per i pochi secondi rimasti della canzone. Nell’attimo stesso in cui la musica cessò, un inaspettato silenzio calò attorno al palco.

    Per un secondo pensai di aver ballato in una sala deserta, poi qualcuno, tra le decine di clienti in giacca e cravatta che riempivano i séparé, fischiò sommessamente e partì un applauso fragoroso, mentre in coro mi incitavano a concedere un bis. Non avrei mai immaginato che la danza del ventre abbinata alla danza contemporanea potesse sortire un tale effetto.

    Dimenticandomi di essere nuda fino alla cintola, con aria interrogativa e sperduta guardai in direzione della barista, ma lei mi fece cenno di non ripetere lo spettacolo e così, dopo un inchino di ringraziamento al pubblico, filai velocemente via dal palco.

    Sul retro, mentre riprendevo ancora fiato, una voce profonda mi fece trasalire. «Sei una bomba, ragazza mia», si complimentò il responsabile, Livio, avvicinandosi. «Non devi mai concedere un bis, anche se richiesto a gran voce. I clienti devono consumare parecchio prima di assistere di nuovo a un tuo spettacolo. Capito?»

    «Capito», mormorai, allacciando i bottoni della camicetta.

    «Ora vieni che ti offro qualcosa di fresco da bere».

    «Io non…».

    «Sul palco apparivi leggera e impalpabile come una visione e non si notava minimamente il tuo sforzo, ma a guardarti ora sembri sfinita. Vieni. Hai bisogno di idratarti e rilassarti un po’».

    Rimasi basita dinanzi a tanta gentilezza. «Mi basta una bottiglietta d’acqua che potrei bere anche qui dietro».

    «Tranquilla. Con me accanto nessuno ti importunerà. Inoltre, i clienti hanno bisogno di accertarsi che tu non sia un sogno ma un angelo in carne e ossa».

    Sorrisi e lo seguii, sedendomi su uno degli sgabelli in fondo alla fila del bar. Pur avendo lo sguardo inchiodato al mio bicchiere d’acqua, non potei evitare di sentirmi addosso una pioggia di occhiate provenienti da tutte le parti.

    Mi agitai sulla sedia e Livio, che probabilmente aveva colto il mio disagio, iniziò a farmi delle domande sui miei studi di danza al solo scopo di distrarmi. La nostra conversazione fu interrotta da Lisa che, con un vassoio vuoto tra le mani, si avvicinò a Livio per comunicargli qualcosa in confidenza all’orecchio.

    Lui negò secco con la testa e le rispose a voce alta: «Ci penso io a lui. Non permettere a nessuno di disturbare la nostra stella».

    Il suo era stato solo un vezzeggiativo, ma io sobbalzai lo stesso nell’udire il mio vero nome. Non potevo permettere che venisse associato alla mia attuale professione, il rischio che ciò potesse compromettere la mia carriera post-laurea era davvero troppo elevato.

    Di sottecchi, osservai nello specchio nascosto tra gli scaffali del bar la figura robusta di Livio dirigersi verso il séparé oltre il palco alle mie spalle e lì intravidi quattro sagome sui divanetti, tra le quali sicuramente una era quella di Alice, inconfondibile nel suo vestitino rosso tempestato di paillette luccicanti.

    «Il tuo pseudonimo Nuit significa notte in francese, giusto?», volle sapere Lisa, mentre allineava dei bicchieri su una lastra di vetro.

    «Sì, ma io l’ho scelto perché è il nome di una divinità dell’antico Egitto, Nut o anche Nuit. È la dea del cielo e della nascita, colei che divorava e faceva rinascere le stelle».

    «Intrigante».

    Continuando a parlare del più e del meno con Lisa, mi accorsi soltanto in un secondo momento che a fianco a me si era accomodato un signore sulla cinquantina e dall’aspetto molto distinto. Esaminava ogni movimento delle mie labbra, sorseggiando ogni tanto dal suo bicchiere un liquido ambrato.

    «Definirla stupenda sarebbe riduttivo», esordì, infine, dopo un lungo silenzio. «Posso offrire da bere a questo raggio di sole?»

    «La ringrazio. Sto bene così», dissi, indicando con un sorriso gentile il mio bicchiere d’acqua.

    Intenzionato a non arrendersi, aprì la bocca per replicare.

    «Franco», intervenne prontamente Lisa, sporgendosi col busto prosperoso sul bancone, «mi rincresce informarti, ma il contratto di Nuit non prevede un intrattenimento diverso dal ballo».

    Di tutto mi sarei aspettata da lui, fuorché una risata squillante. «Uh… la nuova Cassandra!», continuò a sghignazzare, scuotendo piano il capo. Svuotò in un sorso il suo bicchiere quadrato, lo poggiò sul lucido ripiano nero e puntò il suo sguardo dritto nel mio. L’infida scintilla che si accese nei suoi occhi scuri cancellò all’istante ogni traccia d’innocua allegria. M’inquietai dinanzi a quel repentino cambio d’espressione. «Oh, sarà divertente», ghignò, infilando le dita tra i suoi capelli corti e brizzolati. «Molto divertente», evidenziò in tono ancora più ambiguo. Si accomiatò con un lieve inchino e raggiunse tre suoi compagni dall’altro capo del bancone. Confabularono tra loro, adocchiandomi di continuo con dei sorrisini fin troppo irritanti.

    «Lisa, chi è Cassandra e qual è la sua storia?», mi sentii in dovere di chiedere alla barista.

    «Nulla di che, non ci pensare», minimizzò lei, piegandosi dietro al banco per prendere qualcosa in basso.

    «Lisa, che ha fatto questa Cassandra?»

    «Lisa, Carlo non ti darà più noie per quanto riguarda Nuit», annunciò Livio, apparso alle mie spalle. «Portagli uno scotch. Offre la casa».

    La barista parve rilassarsi e si mosse rapida a preparare l’ordinazione.

    Attesi che Livio riprendesse il proprio posto sullo sgabello e, mordendomi le labbra alla ricerca di un grammo di coraggio, gli domandai di getto: «Chi è Cassandra?».

    Lui raddrizzò la schiena guardandomi di sbieco. «Una poverella caduta in disgrazia».

    «Che tipo di disgrazia?». Quando volevo, sapevo essere peggio di un martello pneumatico.

    «Una arrivata qui tutta acqua e sapone, intenzionata a ballare soltanto. Dopo neanche tre mesi, era diventata l’attrazione principale delle orge più perverse».

    Una serie di brividi corse lungo la mia colonna vertebrale. «E cosa l’ha indotta a capitolare così?»

    «L’illusione dell’amore e il richiamo della perversione, mia cara».

    No, io non mi sarei mai fatta corrompere dall’amore, perché era davvero solo un’illusione. «Io non corro questo pericolo», mormorai assorta.

    «Le sue stesse parole», ridacchiò lui.

    Non mi lasciai suggestionare e mi girai sullo sgabello per ammirare Amanda, la ragazza bruna e statuaria che avanzava a gattoni, come un’eccitante pantera, verso il secondo palo della pedana. Aveva una bellezza naturale e candida, propria delle sue origini slave, che, abbinata a degli occhi da cerbiatta smaliziata, attraeva come una calamita e faceva di lei la ballerina più richiesta dai clienti. Me l’aveva confidato Livio e mi aveva detto anche che era una delle poche ad avere un contratto fisso con il Passion. Da quello che avevo potuto capire, essere assunte da un night club, invece che lavorarci tramite le agenzie, costituiva quasi un privilegio, ma dovevo ancora scoprire quali fossero di preciso questi benefici.

    Mi esibii altre volte, nel corso della notte, e alle quattro del mattino io e Stef salimmo nel taxi che ci riportò all’appartamento nel quale avrei dormito per la prima volta. Solo noi eravamo rientrate, Alice e Irma avevano invece trovato i polli di turno da spennare. Se Irma usciva con gli uomini che incontrava al lavoro anche per divertirsi, oltre che per guadagnarci qualcosa, Alice li seguiva in albergo prettamente per i soldi e dietro lauto compenso si concedeva perfino agli ultrasettantenni. Mai conosciuto una persona più venale di lei.

    Quando la sveglia squillò, alle sette e trenta del mattino, feci fatica ad aprire gli occhi, ma, dopo una doccia veloce, mi sentii già più desta e pronta a iniziare la mia giornata.

    In ritardo come al solito, mi infilai il cappottino quando ero già in strada e costeggiai il Viminale camminando alla velocità della luce. Presi al volo l’autobus, zeppo di gente che a quell’ora del mattino andava al lavoro, e raggiunsi la sede della facoltà di Giurisprudenza giusto in tempo per seguire il corso di diritto internazionale.

    Nonostante i tre caffè, arrivai all’ora di pranzo sfiancata dalla stanchezza e, anche volendo, non riuscivo più a concentrarmi sulle parole dei professori, così, dopo aver mangiato un panino, infilai gli auricolari dell’iPod e mi diressi verso il mio nuovo appartamento.

    Mentre uscivo dalla metropolitana, iniziai a scrivere un messaggio a Fabio, il proprietario dell’agenzia:

    Ciao. Visto che non soddisfo le esigenze del proprietario del Passion, stasera dove mi mandi?

    Fabio lo visualizzò, ma non rispose.

    Intanto ero arrivata finalmente a casa e, dal momento che ci erano state consegnate solo due chiavi, ad aprirmi la porta fu Stef con un asciugamano sulla testa a mo’ di turbante. Mi salutò con due bacetti sulle guance. «Buongiorno, tesoro. Com’è andata la lezione?»

    «Bene».

    Mi buttai sul divano al centro del salone arredato in un misto di stile classico e ottocentesco. Era sempre a carico del locale offrire alloggio alle dipendenti delle agenzie, con la regola ferrea di non portarci mai i clienti. In questo caso, ci era capitato un appartamento che necessitava di un urgente restauro, ma quanto meno era collocato in una buona posizione: al centro di Roma e abbastanza vicino al luogo di lavoro.

    «Le ragazze tutto bene?», domandai.

    «Sì», rispose Stef, tuffandosi, ancora in accappatoio, accanto a me. Si avvicinò alla mia spalla e mi bisbigliò con fare cospiratorio: «Da quanto ho capito, Irma ha sperimentato una cosa a quattro stanotte». Sogghignò con la mano davanti alla bocca. «Prova ancora difficoltà nel sedersi, però dice che ne è valsa la pena».

    Risi anch’io. Irma e la sua ricerca del piacere carnale. Prima o poi le sarebbe scoppiato il cuore a furia di cercare l’orgasmo del secolo. «E la nostra Regina

    «Alice? Dorme ancora».

    Nessuna delle tre la tollerava. Soltanto perché lavorava da più tempo di noi per l’agenzia si riteneva in diritto di poterci comandare a piacimento. Le era andata male però: tutte e tre la ignoravamo come se fosse trasparente.

    «Ti vedo stanca». Stef mi riscosse dai pensieri poggiando la mano sulla mia coscia. «Perché non vai a riposare un paio d’ore?»

    «Sì, penso che ci andrò. I corsi all’università sono stati impegnativi».

    Mi recai in camera e, vestita com’ero, mi buttai sul letto matrimoniale che condividevo con Stef.

    A risvegliarmi dalla pennichella fu un tocco leggero sulla guancia.

    «Sveglia, fiorellino», mi sussurrò Irma, con un bacio leggero sulle labbra.

    «La vuoi piantare?», brontolai, girandomi su un fianco. «Mi piacciono gli uomini. Non riuscirai mai a convertirmi».

    Lei mi appioppò per gioco una pacca sul sedere. «Ah, sì? E allora come mai in quattro mesi non hai lasciato avvicinare nessuno al tuo bocciolo nascosto?»

    «Aspetto la primavera per fiorire», replicai ridente.

    «Ma smettila, e fatti una bella scopata! Anzi, fattene una decina di fila, possibilmente non con lo stesso esemplare. Ne hai proprio bisogno, figlia mia! Ah, e visto che siamo in tema, non scartare a priori il sesso tra donne… potrebbe sorprenderti».

    Risi con la faccia nel cuscino. «Sei tremenda». Trascinai la schiena contro la testiera del letto fino a mettermi seduta. «Che ore sono?»

    «Quasi le cinque».

    «Devo mettermi a studiare».

    «Per questo ti ho svegliata».

    Incredibile, ma proprio lei, che pensava al sesso più assiduamente di una ninfomane, aveva una fissa per lo studio. Era la più grande tra noi quattro, aveva quasi trent’anni, e il suo maggior rimpianto era quello di non aver mai potuto studiare. Di conseguenza, nei miei confronti, era più assillante di un esercito di zanzare.

    Si sollevò dal bordo del letto, dirigendosi verso l’uscita. «Ti chiamo quando sarà pronta la cena?»

    «Sì, grazie. Tu invece come stai?», le chiesi, mentre un sorrisino allusivo affiorava sulle mie labbra.

    Raddrizzò le spalle e lisciò con i palmi la sua vestaglia di raso. «Divinamente! Anche se sono ancora un po’ indolenzita. Una scopata da dieci e lode! Hai visto, mia cara? Anch’io sono in grado di ricevere voti alti».

    Proruppi in una risata genuina. Era umanamente impossibile non affezionarsi a lei. Non le apparteneva un solo grammo d’ipocrisia, non nascondeva le sue voglie per adattarsi alle regole dei benpensanti, e io l’ammiravo per questo. Era schietta e sapeva quel che voleva.

    «Grazie per avermi svegliata».

    Simulò un inchino da principessa e lasciò la stanza.

    Mi trasferii alla scrivania vicina al balcone, accessi la lucetta e, prima di immergermi con la mente nel manuale di diritto internazionale, controllai il cellulare.

    C’era soltanto un messaggio di Fabio:

    Tutto sistemato. Stasera torni al Passion.

    Provai un moto d’orgoglio. Alla fine ero riuscita a conquistare il signor Legge solo con la danza e, quando alle dieci di sera ci presentammo al locale, non mi stupii affatto di essere convocata nel suo ufficio.

    Bussai piano all’uscio dischiuso e, a un «Avanti» ovattato, entrai.

    Come la sera prima, tra le labbra del signor Legge era incastrata una sigaretta accesa e mi chiesi come mai l’odore di fumo fosse appena percettibile. L’ufficio doveva essere munito di un ottimo impianto d’aerazione.

    «Siediti, Stella», ordinò subito, indicandomi con la penna che teneva in mano la poltrona di fronte alla scrivania. «Qual è il tuo prezzo?», mi domandò lapidario, dopo che mi fui accomodata.

    «Temo di non aver afferrato appieno la domanda».

    Spense la sigaretta, appoggiò la schiena alla poltrona e portò le mani all’altezza del cuore, intrecciando le dita tra loro con uno sguardo vacuo. «Quante probabilità ci sono che tu un giorno possa accettare l’invito di intrattenere un cliente al tavolo?».

    Una domanda che mi prese del tutto alla sprovvista. «Ehm… zero?»

    «Nemmeno se ti regalassero una villa ai Caraibi?».

    Mi morsi le labbra per non ridergli in faccia. «E cosa dovrei farmene di una villa ai Caraibi?».

    Tirò la testa indietro di scatto, neanche se le mie parole fossero state pallottole da schivare. «Viverci?», buttò lì con cinismo. «Venderla per ricavarne una bella sommetta?»

    «Nah… Ho altri progetti io».

    «Una sognatrice che spera di farsi strada con una laurea». Dall’espressione beffarda che, a quelle parole, oltrepassò il suo volto spigoloso, capii che il suo non era affatto un complimento.

    «Può darsi», replicai vaga.

    «E se, mentre sei seduta al bar, che tra parentesi è uno dei tuoi doveri in questo locale, dovesse capitarti un cliente che ti piace alla follia?»

    «Non posso permettermi alcuna eccezione e deviazione. Dire di sì a uno renderebbe difficile rifiutare tutti gli altri».

    «Quindi non cederesti per nessun prezzo al mondo?».

    Una domanda che, pronunciata da qualcun altro, non avrei neanche preso in considerazione, ma il tono misterioso e grave con cui lui me l’aveva posta mi suggerì che dietro quell’indagine si nascondeva qualcosa. «No, non cederei per nessun motivo al mondo».

    Arcuò il sopracciglio destro al punto da far quasi sparire la cicatrice che lo attraversava. «Bene. Era ciò che volevo sapere». Spostò lo sguardo su una pila di fogli. «Puoi andare ora».

    Mentre pensavo a quanto fosse bisbetico, farfugliai un Buona serata e scesi dabbasso.

    Salutai le altre ragazze alle prese con il trucco e le acconciature e non mi sfuggirono le occhiate venate d’ostilità di alcune di loro. Appena inquadrai la mia postazione, compresi il perché: ai lati dello specchio spiccavano due enormi mazzi di fiori e sulla mensola un pacchettino infiocchettato, oltre a diversi bigliettini. Questi ultimi erano gli inviti di alcuni clienti a raggiungerli al tavolo per un drink, il pacco regalo, invece, racchiudeva un bracciale in oro bianco. Mi pietrificai e, come

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