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Non Fidarti di Me
Non Fidarti di Me
Non Fidarti di Me
E-book148 pagine1 ora

Non Fidarti di Me

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Info su questo ebook

Credevo che Katerina sarebbe stata colei che mi avrebbe salvato.
Credevo che sarebbe stata una missione semplice, rapida, pulita.

Poi l'ho trovata nei sotterranei, nella mia stanza.
Invece mi sono avvicinata troppo.

Ora siamo nelle grinfie del mio mostro.
Non avrei mai pensato che Armand Lamaze custodisse un segreto così tremendo.

E non importa quanto lotteremo per liberarci.
Ora devo sopravvivere a qualcosa che non avevo programmato.

Katerina non uscirà viva da qui.

Lo vedremo, Lamaze.


Dark Contemporaneo
Questo romanzo contiene situazioni inquietanti e scene violente. Non adatto a persone suscettibili ai temi trattati. Se ne raccomanda la lettura a un pubblico adulto e consapevole.
LinguaItaliano
Data di uscita8 mag 2020
ISBN9788835823636
Non Fidarti di Me

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    Anteprima del libro

    Non Fidarti di Me - Chiara Cilli

    Alboreo

    PROLOGO

    P iombo a terra con uno schiocco viscido. Provo a sollevarmi su mani e ginocchia. Il mio sangue si mescola alla melma, che mi trattiene, mi vuole inghiottire. Il suo piede affonda nel mio addome, facendomi cadere sulla schiena.

    Poi lui è su di me.

    Il suo pugno cala con violenza, ma non lo sento.

    Non sento più niente.

    Perché lui non sente me.

    Ho cercato di raggiungerlo.

    L’ho implorato.

    Ma la sua mente è troppo forte, il suo cuore racchiuso in un’oscurità troppo malvagia.

    Le grida della campionessa non sono più assordanti, si stanno allontanando. Sta tentando di abbattere le sbarre della gabbia con tutta se stessa, urla disperatamente il mio nome.

    Mi tende la mano.

    La mano che tante volte mi ha salvato.

    La mano che tante volte si è presa cura di me.

    Le sue guance sono rigate dalle lacrime.

    Le mie sono intrise di sangue.

    Mi supplica.

    Ma io resisto, ancora. Di più.

    Lo devo a lui.

    Le dita attorno alla mia gola stringono senza pietà, con rabbia cieca.

    Mi porteranno da lui.

    Voglio andare da lui.

    Mi sta aspettando.

    L’aria sta abbandonando i miei polmoni.

    Tutto sta sfumando.

    I colori stanno svanendo.

    Un’ultima parola lascia le mie labbra, e il ruggito della campionessa esplode nella mia testa come il suono più dilaniante che abbia mai udito.

    UNO

    Respirare. Dovevo respirare profondamente. Smorzai sul nascere la smorfia di ribrezzo che mi storse la bocca per via del fetore di sangue stantio, e mi imposi di mantenere la calma.

    Calma.

    Calma.

    Quindi, al rallentatore, mi voltai.

    Armand Lamaze bloccava l’entrata di questa camera degli orrori con il suo fisico possente. Indossava solamente i pantaloni del completo che, qualche ora fa, si era tolto prima di possedermi con lenta, profonda, inesorabile passione. I folti capelli scuri erano ancora arruffati dal sonno, ma i suoi occhi…

    Non erano più gli occhi che mi avevano guardata con meraviglia, mentre si muoveva dentro di me, come se avesse finalmente trovato la chiave per la salvezza della sua anima.

    Erano gli occhi del Male.

    Emerso dal sottosuolo.

    Perverso.

    Invincibile.

    Assoluto.

    Erano un proclama di morte imminente.

    D’istinto deviai lo sguardo oltre la sua spalla, sulla soglia della cella semi rischiarata dalle luci nell’androne.

    Via.

    Sapevo che era la cosa giusta da fare. Sapevo che di lì a qualche minuto, se non secondo, la mia copertura sarebbe saltata. La campionessa aveva ragione: dovevo portarci fuori da qui.

    Eppure…

    Non mi mossi.

    Armand mi fissava in un modo che mi paralizzava. In un modo che mi legava ineluttabilmente a lui e mi costringeva a restare.

    Dannazione, Rina, dobbiamo andarcene subito.

    Serrai i pugni e spostai il peso sulla gamba di appoggio, protendendomi impercettibilmente in avanti per prepararmi a scattare…

    … quando Armand inclinò il capo in maniera quasi raccapricciante, stese il braccio alla sua destra e afferrò lo stretto battente di pietra. Lentissimamente, come in segno di sfida, se lo chiuse dietro.

    Oh, davvero?

    Subitanei, i miei occhi corsero alle pareti accanto alla porticina per rintracciare il masso appena più in rilievo degli altri che avrebbe riazionato il meccanismo di apertura.

    Ma non ebbi il tempo di trovarlo, giacché Armand fece un passo in avanti.

    E io ne feci uno indietro.

    Lui si bloccò, lo sguardo agghiacciante che mi percorreva come uno scanner alla ricerca di un’anomalia.

    Continuai ad arretrare, e le piante dei miei piedi entrarono in contatto con qualcosa di vischioso e denso. Mi trattenni dal guardare in basso, a malapena repressi un verso di repulsione. Mi slittò un tallone ma, tendendo le mani alle mie spalle, incontrai l’alto tavolo di legno a sostenermi; era freddo come il ghiaccio, levigato come porcellana sotto le mie dita. Mi tenni ad esso, mentre lo circumnavigavo con la cautela di chi è intrappolato nella tana di un puma.

    Quando fui dall’altro lato del mobile, Armand espirò piano dalle narici.

    «Non stai tentando di fuggire», constatò avanzando, la voce tanto lugubre da farmi accapponare la pelle.

    Perché quella non era la sua voce.

    «Non stai urlando.» Si fermò dinanzi al tavolo, sondando i miei occhi. «Non stai piangendo.» Si puntellò con i pugni sulla superficie incerata, sporgendosi appena verso di me per bisbigliare: «Questo non è normale».

    Mi conficcai le unghie nei palmi per frenarmi dal digrignare i denti. Mi ingiunsi quantomeno di sgranare le palpebre e di far sembrare che il mio respiro diventasse sempre più accelerato.

    La campionessa avvolse le sbarre della gabbia con le mani. Piano, un dito alla volta, lo sguardo funesto.

    La missione è compromessa.

    Forse. O forse no.

    Dobbiamo terminarla.

    Avrei dovuto. Seduta stante.

    Ma non riuscivo a liberarmi dagli occhi di Armand. Mi ancoravano, mi risucchiavano in un abisso infinito, permeato di sangue nero.

    Mi tenevano.

    Dopo quello che mi parve un secolo, lui si raddrizzò e fece un passo alla sua sinistra. Lo imitai automaticamente, in modo da mantenere sempre la stessa distanza tra di noi.

    «Chi sei, Katerina?» mi domandò, in tono inquietante.

    «Chi sei tu, Armand», ribattei con voce scossa, ma il modo in cui lo fissavo era tutt’altro che spaventato.

    Lui si spostò ancora, e così io.

    «Neanche i miei fratelli hanno mai saputo dell’esistenza di questa stanza.» Mi osservava con attenzione, pronto a carpire ogni mia più piccola reazione. «Perciò, come hai fatto a trovarla?»

    Feci vagare freneticamente lo sguardo in tutte le direzioni. «Cos’è questo posto?»

    «Non puoi essere semplicemente capitata quaggiù, mentre facevi un giro per il castello.» Armand continuava a muoversi lentamente, come un giaguaro in attesa dell’attimo perfetto per balzare alla giugulare della sua preda.

    Arretrai, restando vicino al tavolo. «Cos’è questo?» sibilai, indicandolo senza azzardarmi a toccarlo di nuovo.

    Ma lui non mi stava ascoltando. «Sei entrata proprio in questa cella e hai cercato la pietra che aprisse il passaggio.»

    Puntai un dito tremante sugli uncini agganciati alle catene che pendevano dal soffitto, dietro di lui. «A cosa ti servono quelli?»

    «Il che significa che sapevi che c’era una porta segreta.» La sua voce profonda sembrò riverberarmi dentro, crepare le mie ossa e riversarvi tutte le sue tenebre.

    Mi ritrovai ai piedi del tavolo e, inevitabilmente, abbassai gli occhi sulle spesse manette di ferro. Quando li levai nuovamente su Armand, erano traboccanti di orrore. «Che cosa fai qui?»

    Il bagliore caldo alle sue spalle dava come l’impressione che fosse avvolto da un’aura di fuoco, mentre quello proveniente dalle altre lampade sembrava far risplendere la sua pelle come oro. Sul suo volto vi era un gioco di luci e ombre che lo rendeva ancora più duro, spigoloso, angosciante.

    «Come facevi a saperlo?» mi chiese, la voce che pareva rimbombare come un tuono.

    Tacqui, fissandolo con un misto di falso panico crescente e determinazione a sopravvivere a qualunque cosa fosse accaduta. «Non lo sapevo.»

    Armand rimase in silenzio. D’un tratto, qualcosa passò sul suo viso, rapido come uno spettro. La sua fronte si aggrottò. «Non credo stia mentendo, ma sta decisamente nascondendo qualcosa», disse, sommesso.

    Io e la campionessa ci accigliammo all’unisono, confuse dalle sue parole.

    «Non ancora», dichiarò Armand, lo sguardo che ardeva di un bisogno famelico. «Non ne abbiamo mai avuto una libera.» Si voltò alla sua destra, e la sua espressione diventò ancora più inflessibile. «Voglio vedere cosa farà.»

    Fu allora che lo capii.

    Non sta parlando con noi.

    Un lampo di stupore attraversò il viso della campionessa. Il mio divenne una maschera di massima circospezione. Sviai gli occhi nella direzione in cui erano rivolti quelli di Armand, e d’istinto indietreggiai di mezzo passo.

    «Con chi stai parlando?» domandai in un soffio.

    Lui saettò con lo sguardo rapace su di me.

    DUE

    Luglio 1994

    Ventuno anni prima

    «A rmand!»

    Henri irruppe nella mia camera senza bussare, come al solito, seguito dallo scalpiccio del piccolo André.

    Avevo appena finito di fare la doccia e, in boxer, mi stavo cospargendo di un costoso profumo maschile che mi aveva regalato la mamma.

    «Che puzza!» sbraitò Henri, fingendo di tossire quando entrò nel bagno.

    André lo imitò, sventolandosi con una mano, il visetto paffuto contratto in una smorfia. Con le sue lunghe ciocche bionde e gli occhi di un verde molto chiaro, non poteva essere più diverso da me e Henri. Aveva preso dal ramo della famiglia francese di nostro padre, mentre Henri aveva ereditato la bellezza aristocratica di nostra madre, di origini russe. Io ero un mix dei nostri genitori, ma, mentre i miei fratelli spiccavano come una giada e uno zaffiro, io ero una comune ambra.

    «La tua ragazza morirà soffocata», mi derise Henri.

    Rimisi il profumo nell’armadietto e chiusi l’anta con un po’ troppa enfasi. Il tonfo fece sussultare André, e mi affrettai a tranquillizzarlo strofinandogli il pugno

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