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That Guy
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E-book329 pagine4 ore

That Guy

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Info su questo ebook

Lui è ricco, sexy e potente...

Una commedia dolce e romantica

Se il ragazzo perfetto esiste, perché farselo scappare?

Avete presente quel tipo di ragazzo? Il frutto delle vostre fantasie più romantiche, il classico protagonista dei libri. È ricco, potente e, ovviamente, sexy. Vive in un appartamento stupendo, sa essere irritante ma solitamente ha un buon motivo nascosto nel passato a giustificare il suo comportamento. Ero convinta anche io che non esistesse. E invece ho conosciuto Jake. 
Mi chiamo Penelope e sono una scrittrice. Ho trascorso anni alla disperata ricerca di un uomo che fosse all’altezza dei miei protagonisti e adesso che so che esiste, ho una missione: farlo innamorare perdutamente di me. Non dovrebbe essere un’impresa troppo difficile. Certo, ho i miei difetti, ma sono sicura di potercela fare. C’è solo un problema: ho fatto una stupidaggine e adesso Jake mi odia. Ma sfortunatamente per lui… ho deciso che è quello giusto per me. E in un modo o nell’altro riuscirò a conquistarlo.

«Divertente, sexy e pieno di energia. Impossibile posare questo libro!»
Colleen Hoover

«Il ragazzo che tutte noi abbiamo sempre sognato! Non perdetevi questa esilarante commedia romanticissima.»
Katy Evans

«Strepitoso! Divertente da morire. Leggetelo: non ve ne pentirete.»
Aurora Rose Reynolds

Kim Jones
è un’autrice di numerosi bestseller che hanno come protagonisti uomini un po’ sfacciati ed eroine in gamba. Adora leggere, i cani, le moto e fumare sigarette. Ma soprattutto ama ridere insieme a suo marito Reggie.
LinguaItaliano
Data di uscita21 mar 2019
ISBN9788822732873
That Guy
Autore

Kim Jones

Kim Jones is a journalist with over twenty-five years of experience writing for national newspapers and magazines. Specializing in health and wellness, she lives with her partner, their two sons, a cat, and a cocker spaniel in Cardiff.

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    Anteprima del libro

    That Guy - Kim Jones

    Capitolo 1

    Mai avrei immaginato di camminare su un marciapiede con un sacchetto pieno di merda di cane in una mano e un padrone arrabbiato col suo Golden Retriever alle calcagna.

    La gente di Chicago prende la merda troppo sul serio.

    Che tipo di persona ha deciso che fosse una buona idea l’abitudine di raccogliere gli stronzi di un cane? Qui il parco fornisce addirittura questi sacchetti da un distributore a cui è attaccata la foto di un cane con un sacchetto di plastica in bocca pieno della propria merda.

    Nella cittadina in cui sono nata, Mount Olive, Mississippi, a nessuno importa dove il tuo cane espleta i suoi bisogni. Se ti capita di calpestarla devi solo strofinare il piede sull’erba finché non si pulisce. Se entri in un negozio e vedi la gente che comincia ad annusare l’aria e dire Sento puzza di merda, controllarsi le suole è una reazione naturale per chiunque. Poi tocca alla vittima fare la cortesia di ammettere Sono io. Poi tutti gli altri annuiscono in segno di apprezzamento e indicano la zolla erbosa più vicina.

    In questo momento casa mi sembra lontana un milione di chilometri.

    Schivo un parchimetro e per poco non investo una donna con un passeggino.

    «Mi scusi!», grido alzando le mani mentre mi allontano profondendomi in scuse. Mi lancia uno sguardo truce poi si china e apre la cupola per controllare il bebè. Mi sento orribile all’ennesima potenza. Fino a quando non compare il piccolo Chihuahua, che gira subito il collo ammantato da una sciarpina verso di me.

    Porca puttana…

    Stupida Chicago.

    Stupido cane.

    Stupida merda.

    Stupido Luke Duchanan.

    Sono passati anni da quando mi sono comportata da idiota in un punto vendita Target e ho dovuto seguire un corso per la gestione della rabbia, ma riesco ancora a sentire nella mente la voce del coach ogni volta che mi infurio.

    Vedi, Penelope, se ti trovi in questa situazione non è colpa di nessuno se non tua. Consideriamo le azioni che ti hanno condotta qui.

    Sì. Consideriamole.

    Luke Duchanan ha rubato il cuore della mia miglior amica mentre lei si trovava a Chicago per un tirocinio estivo. Sei mesi dopo glielo ha spezzato quando lo ha scoperto con il cazzo nel culo di un’altra donna. È tornata in Mississippi ed è venuta a vivere con me. E nelle ultime due settimane ho dovuto sentirla piangere e singhiozzare e vederla scolarsi tutto il mio vino.

    Così quando mi ha detto che Luke aveva la fobia della merda di cane ho subito saputo cosa fare. Ho dovuto alzare il limite della mia carta di credito. Volare a Chicago alla vigilia della più grande bufera di neve che lo Stato dell’Illinois abbia mai visto. Mettere un po’ di merda di cane in un sacchetto, incendiarlo davanti alla porta di casa di Luke e filmarlo mentre lo calpestava.

    Carico il video su internet. Diventa virale. Rovino la vita di Luke. Faccio sorridere la mia migliore amica, Emily. Andiamo in un bar. Racconta questa storia a un tizio molto più figo di Luke. Scopano nel parcheggio. Emily ricompone il suo cuore infranto, e se ne va dal mio appartamento.

    Facile, giusto?

    Sbagliato.

    Perché? Perché trovare della merda di cane a Chicago è un’impresa titanica.

    Quando mi sono accovacciata sull’enorme pila di cacca, srotolando sei sacchetti di plastica, il proprietario mi ha chiesto cosa stessi facendo. E io gliel’ho detto.

    «Senti, amico, ho solo bisogno di prendere questa merda, ok?». Non pensavo che mi avrebbe inseguita per tutta la città. Eppure eccoci qui. E non esiste che tutto questo sia colpa mia.

    Stupida gestione della rabbia.

    Il cane comincia ad abbaiare più forte. Lancio un veloce sguardo dietro la spalla e mi accorgo che sono vicini. Troppo vicini. All’angolo svolto a sinistra in una strada ancora più trafficata e piena di macchine. Il vento mi colpisce in faccia e vengo attaccata da folate di aria artica talmente fredda che giuro di riuscire a sentire la polmonite dentro di me.

    Senza fiato, congelata, con le gambe a pezzi, il petto che duole, prendo una pessima decisione. Spalanco la portiera posteriore di una limousine e mi tuffo sul sedile. Non appena lo sportello si chiude dietro di me, cane e padrone passano oltre. Tiro un sospiro di sollievo.

    Che dura appena due secondi.

    Sono nella macchina di qualcuno.

    Sono circondata da pelle nera, lusso e sedili morbidi. Tappetini puliti e vetri oscurati. Una bottiglia di cristallo piena di un liquido ambrato. Divisorio fumé. C’è l’autista dall’altra parte? Certo che sì.

    «Signorina Sims?». La voce risuona dagli altoparlanti e mi immobilizzo. «Il signor Swagger mi ha chiesto di accompagnarla a casa quando ha finito di fare shopping. Desidera andarci adesso?».

    Swagger? Il signor Swagger?

    Sposto gli occhi sull’interfono. Sullo sportello. Poi di nuovo sull’interfono. «Sì, grazie».

    Perché l’ho detto? E con quell’accento poi. Non sono inglese. Né australiana. Non ho idea di chi delle due abbia risposto. Le confondo sempre…

    «Molto bene, signorina. Saremo lì in pochi minuti».

    La macchina si immette nel traffico e ho tre secondi di panico.

    Che cosa ho fatto?

    Quanto sono stupida.

    Qui dentro è così caldo.

    Potrei bere qualcosa.

    Fanculo.

    Il sacchetto pieno di merda cade sul pavimento e mi lancio sul sedile davanti a me. La bottiglia è pesante e difficile da maneggiare. La metto tra le gambe e tiro il tappo con forza. Quando riesco ad aprirla, la mia mano balza all’indietro e mi colpisce in faccia.

    «Figlio di puttana!». Mi schiarisco la voce. «Figlio di puttana!», ripeto, cambiando accento.

    Il whisky è così forte che mi fa bruciacchiare i peli del naso quando lo annuso. Non sono sicura se sia un bene o un male, ma me ne verso un bicchiere. O solo un dito. Insomma, come dicono gli esperti. Rifletto un po’ se aggiungere del ghiaccio, incerta sul come vada servito.

    Come vorrei che avessero una birra.

    Questa benzina che chiamano liquore mi brucia ogni parte del corpo. Ma ha un buon sapore affumicato che mi permane sulla lingua. Impaziente per il prossimo sorso, finisco il bicchiere e quando è vuoto mi sento molto più riscaldata. E più fiduciosa sulle cattive decisioni che mi hanno portata qui.

    Voglio dire, qual è il peggio che possa accadere? Un passaggio in macchina. Non c’è nessuna legge contro un passaggio per sfuggire al freddo pungente. Se mi beccano, farò il broncio e dirò che sono povera.

    Non è una bugia.

    Sono povera sul serio.

    Che è un altro dei motivi di questo viaggio – anche se a Emily non l’ammetterò mai.

    Oltre al mio piano diabolico, spero di trovare la musa ispiratrice perfetta per scrivere quel banale romanzo sexy che ho iniziato da mesi. Il tipo di storia in cui identifico l’eroe come Quel Ragazzo.

    Sapete, il dirigente d’azienda super ricco e potente che definire bellissimo è poco. Vive in un attico, è fantastico a letto e ha la macchina con l’autista. Il cazzo grande. È un po’ uno stronzo ma in realtà è solo una facciata perché nasconde un segreto che si scopre arrivati al sessantacinque percento della storia, spiegando così tutti i suoi demoni passati che rivelano il motivo per cui è diventato così. Poi si redime e tutte le lettrici che lo hanno odiato cominciano ad amarlo incondizionatamente.

    La macchina si ferma.

    «Signorina Sims?». È l’interfono. «Vuole che l’accompagni su?»

    «N-no. Non è necessario».

    Perché continuo a usare questo accento?

    «Se non si sente a suo agio con il concierge…».

    «Con il concierge va tutto bene. Grazie».

    Con tempismo perfetto, la portiera si apre e una mano guantata entra nella macchina. La prendo, raccolgo il sacchetto con la merda e scendo.

    Il forte vento improvviso mi fa lacrimare. Stringo le dita e lancio uno sguardo in tralice all’uomo accanto a me. Mi sorride educatamente e annuisco. Alzo gli occhi, su, su, verso l’imponente edificio, poi guardo di nuovo l’uomo.

    «Che genere di appartamento ha un concierge?». La mia voce viene portata via dal vento mentre lui mi spinge nell’atrio. Superata la porta, mi fermo a guardare. La neve e il ghiaccio sui miei Uggs rovinati si sciolgono sul tappeto scuro mentre io ammiro ogni dettaglio. Con la bocca spalancata come un’idiota, esamino l’ingresso in tutta la sua opulenza.

    Mobili color crema sistemati a semicerchio sono di fronte a un caminetto in pietra grigia che si erge fino al soffitto. Le fiamme rosse e arancioni del focolare danzano sinuose al ritmo della musica classica soffusa che risuona nella stanza. Voglio infilare le mani e le chiappe ghiacciate nel fuoco e poi sbracarmi come un gatto sul tappeto lì davanti.

    «Da questa parte, signorina Sims».

    Seguo l’uomo attraverso la stanza. I miei stivaletti squittiscono sul pavimento di marmo e lasciano una scia di acqua sporca. Muovo gli occhi in tutte le direzioni. Ogni cosa è dorata e di vetro, con tocchi di giallo e grigio. Dai vasi ai lampadari, dalle sculture ai dipinti, il posto irradia una magnificenza molto più esclusiva di quanto questa ragazza di provincia abbia mai visto.

    «Se ha bisogno di qualunque cosa non esiti a chiamarmi». Alfred – e vi giuro che è quello che c’è scritto sulla sua targhetta – si ferma davanti all’enorme porta di un ascensore. Il colore nero omogeneo e opaco è in netto contrasto con gli altri quattro ascensori, che sono in vetro a specchio dipinto in oro. Mentre inserisce una carta magnetica nella scatolina sulla porta con sopra una grande P, mi do un’occhiata allo specchio.

    I miei capelli ricci castani spuntano dalla testa come ramoscelli spezzati e ricadono sulle spalle fino a circa metà della schiena. La mia giacca per tutte le stagioni che nel Mississippi è più che adeguata, qui a Chicago è praticamente solo un impermeabile. E i miei jeans attillati, che un tempo erano alla moda, adesso sono fradici e sformati sui fianchi. Talmente logori, perché li indosso da tempo immemore, da far sembrare che uno stormo di quaglie mi sia appena uscito dal culo.

    La porta dell’ascensore si apre e Alfred mi fa cenno di entrare. Torno alla realtà.

    «Alfred…», dico afferrandogli un braccio.

    Gli angoli della sua bocca si incurvano in un broncio e spalanca gli occhi.

    «Devo confessare una cosa».

    Mi prende la mano e la sua ansia scompare, rimpiazzata da un caloroso sorriso. «Non dica altro. Lo so già».

    «Lo sa?»

    «Ma certo. E non si preoccupi… signorina Sims». Si china verso di me e la sua voce diventa un sussurro. «Il suo segreto è al sicuro con me». Si ricompone e mi fa l’occhiolino. «Il signor Swagger non sarà di ritorno prima di domani a mezzogiorno. Ha la casa tutta per lei. Se la goda».

    È possibile che quest’uomo sappia che non sono la signorina Sims?

    Succede spesso che permetta a una sconosciuta di invadere questa casa senza fare domande?

    Che tipo di persona è questo Alfred?

    Entro nell’ascensore. La porta si chiude e decollo fino alla cima dell’edificio così velocemente da dovermi reggere alla maniglia.

    Odio gli ascensori. C’è qualcosa di terrificante nel trovarsi in uno spazio chiuso, appesa in una scatola di metallo pesante sospesa in aria tramite corde e pulegge e… e se va via la corrente?

    Il mio naso trova il muro. Chiudo gli occhi e mi reggo forte, canticchiando la mia canzone preferita per evitare di svenire. Poi finalmente arriva il din rivelatore e la porta si apre. Esco e mi trovo in un piccolo corridoio dove c’è un tavolino che regge il più grande vaso di fiori che abbia mai visto. Dietro di esso c’è una porta di legno massello con una maniglia dorata.

    Senza la pressione di un autista, un concierge o un uomo col cane, ho il tempo di fermarmi a riflettere su questo casino.

    Se aprissi quella porta potrei finire in prigione. E nonostante sappia che la prigione è una concreta possibilità nel caso Luke Duchanan mi beccasse nella sua proprietà, varcare questa soglia non è un reato grave come l’infrazione.

    Chiamo Emily.

    «Sì?».

    Diamine. Sembra stia malissimo.

    «Ehi, Em. Come va?».

    Singhiozza un paio di volte e sento il rumore di un computer portatile che si chiude. «Luke ha appena postato su Facebook una foto di lui con la sua nuova troia».

    «Ah, sì? Be’, è brutta».

    «No, per niente».

    «Vuoi che le dia un pugno in faccia per farla diventare brutta?».

    Emily sospira, poi si soffia il naso. «No. Adesso sono usciti insieme. Sembra che il nostro piano non funzionerà. Probabilmente staranno fuori tutta la notte». Le si spezza la voce quando pronuncia l’ultima parola.

    «Posso sempre rimandare a domani». L’accenno di speranza nella mia voce non sortisce nessun effetto su di lei. Vuole che lasci perdere. Vuole che vada a casa a bere vino e mangiare cioccolata. Ma non posso andarmene. La mia curiosità pretende che scopra cosa si nasconde oltre la porta. Il senso della ricerca lo impone. E anche il buon Dio.

    I miei occhi si concentrano sulla maniglia dorata. Brilla come l’aureola di un angelo.

    Cose di questo genere non capitano senza l’aiuto di qualcuno come Dio. Forse è il piano che Lui ha in serbo per me. Forse quel cane si trovava al parco per un motivo preciso. Forse il padrone era un angelo che mi ha inseguito fino al posto in cui dovevo andare. Quella macchina? Non stava aspettando la signorina Sims. Stava aspettando me. Alfred? Forse anche lui è un angelo. E se il signor Swagger fosse il mio Quel Ragazzo?

    Adesso tutto mi è chiaro.

    Ho incontrato il favore divino.

    Spiegherei tutto questo a Emily, ma non capirebbe. Mi direbbe che devo smettere prima che la mia immaginazione prenda il sopravvento. Perché l’ho chiamata? È troppo emotiva per essere d’aiuto.

    Ho preso la mia decisione.

    «Devo andare, Em. Sono nella mia stanza».

    «Hai una stanza? Quando l’hai presa? Perché? Come?».

    Alzo gli occhi al cielo alle sue domande.

    Emily si attiene al piano. È una di quelle persone che tiene un’agenda, e non se ne discosta mai. Se Gesù arrivasse lo stesso giovedì in cui va dal dentista, non ho dubbi che gli direbbe di aspettare. Mi dispiace, Gesù. Non sei sull’agenda.

    Io non ho agende. I miei programmi variano a seconda delle condizioni. In questo momento sarei dovuta essere in un affollato aeroporto in attesa del volo. Il destino, invece, ha deciso che devo restare in un appartamento di lusso. Le circostanze sono state alterate in mio favore e mi rifiuto di ignorarle e negarmi questa opportunità.

    «Penelope…».

    «Che c’è?»

    «Non puoi permetterti una stanza».

    «Certo che posso».

    «E come?»

    «Ho chiamato la banca e ho ottenuto un aumento di credito». Bugia. Ma la verità avrebbe come conseguenza domande a cui non voglio rispondere. Il che significa altre bugie.

    «Ma… come hai fatto?»

    «Non fare domande a cui non è possibile rispondere, Em. È così e basta. Ora devo fare il check-in. Ti chiamo domani. Fanculo Luke Duchanan».

    Fa una pausa, poi sospira. «Fanculo Luke Duchanan».

    Chiudo la chiamata.

    Appoggio la mano sulla porta.

    Recito una breve preghiera di ringraziamento, una serie di scuse per tutte le cose brutte che ho fatto e la promessa di non dire più così tante parolacce in futuro per dimostrare la gratitudine verso ciò che sto per ricevere.

    Poi giro la maniglia ed entro.

    «Porca puttana».

    Capitolo 2

    Vorrei dichiarare ufficialmente che ho mentito.

    Ma sul serio… che cosa si aspettava Dio?

    Mi trovo nella mente di milioni di lettrici. Questo posto è l’attico di tutti gli eroi dei romanzi rosa. Open space. Finestre a parete che dominano Chicago. Parquet in legno massello. Una scala a chiocciola con il corrimano di vetro. Una roba pseudoartistica appesa al soffitto che credo sia una semplice manichetta antincendio ricoperta di vernice dorata.

    Getto il giubbotto sul pavimento e mi tolgo gli stivali e i pantaloni. Con il solo maglione addosso mi addentro nella stanza. Accarezzo il divano di pelle bianca e il tavolo di mogano accanto. Poi sposto la mano sul vetro ricurvo che si estende per tutta la lunghezza e altezza del muro. È tiepido al tocco. Non freddo come pensavo.

    La vista.

    Oh mio Dio. La vista.

    Le luci luccicano e splendono sotto un cielo nero e limpido. Palazzi dall’altezza eterogenea e illuminati da vari colori si stagliano sulle strade cosparse delle luci più piccole delle auto in movimento. È una sensazione quasi sconvolgente. L’idea di svegliarsi qui al mattino, guardando il sole sorgere dietro i grattacieli…

    Vale la pena andare in prigione per una cosa simile.

    Se il resto di questo posto è miracoloso come il panorama, potrei anche restare fino al ritorno del signor Swagger. Poi lo farò innamorare di me. Non dovrebbe volerci molto. Sono un buon partito.

    Poso il sacchetto con la merda su un mobiletto e apro l’enorme frigorifero di acciaio inossidabile. È colmo di provviste che possono provenire solo da un supermercato di lusso.

    Con entrambi gli sportelli spalancati, scatto una foto. Poi richiudo e ne faccio qualche altra della cucina in tutta la sua artistica gloria. Dopodiché immortalo il panorama e il soggiorno. Il lungo tavolo di vetro.

    «Sì, piccolo». Mi metto in ginocchio per trovare un’angolatura diversa. «Così. Un sorriso per la stampa».

    Sulla destra della cucina c’è un piccolo bagno che a dire il vero non è molto elaborato, ma va bene lo stesso. Un’altra porta in sala da pranzo conduce in un ufficio. Riconosco l’aroma speziato e il tocco di eucalipto. Il signor Swagger fuma il sigaro.

    Visioni del mio Quel Ragazzo seduto alla scrivania con addosso nient’altro che un sigaro e un sorriso mi scatenano un’ondata di desiderio. Voglio bagnargli la poltrona e strofinare la vagina sui muri per marcare il mio territorio.

    Datti una calmata, pervertita.

    Osservo le alte librerie con un’infinità di libri che sono poste su entrambi i lati della porta. Una grande e robusta scrivania di legno si trova di fronte all’entrata, e vado a sedermi sulla poltrona di pelle. La faccio roteare fino a quando non mi gira la testa, poi esamino tutti i cassetti. Sono chiusi a chiave.

    Niente computer. Niente penne personalizzate. Sollevo la pietra grigia che è su un angolo e che immagino sia un fermacarte. Tocco la lampada e si accende. La tocco ancora e si illumina ancora di più. Sei tocchi dopo, comincia ad affievolirsi. Poi devo toccare per altre otto volte solo per spegnerla. L’unico altro oggetto sulla scrivania è un telefono nero e lucido senza fili che deve provenire dal futuro.

    Scatto una foto.

    Al piano di sopra c’è una stanza per gli ospiti con altre decorazioni dello stesso stile. Mi rotolo sul letto dove con ogni probabilità nessuno ha mai dormito e incasino i cuscini, come faccio sempre. Con il gomito sbatto sul comodino grigio chiaro in tinta con gli altri mobili. Mi fa un male cane.

    Sfioro le tende bianche e soffici sul muro di fronte al letto. Dietro di esse c’è un altro panorama della città. Si gode una veduta diversa, ma bella quanto quella offerta dal soggiorno.

    Torno nel corridoio e oltrepasso una porta più grande delle altre con accanto un tastierino numerico. Emette un suono quando giro la maniglia e vedo che è chiusa.

    Oh mio Dio…

    È una stanza del sesso.

    Lo so e basta.

    Piena di ogni genere di strumenti di tortura e panche per sculacciare. Muri di colore rosso. Croci e ceppi e pinze per capezzoli, altroché!

    Passo all’ultima porta e quasi me la faccio sotto. È la camera da letto principale. Una suite. È l’incarnazione della camera di un capitano d’industria. Letto matrimoniale. Tonalità di blu, argento e legno. Altro panorama mozzafiato. Una poltrona extralarge e un’ottomana nel luogo in cui Quel Ragazzo si siede a leggere il giornale. A mettersi le scarpe. O dove culla la sua amante dopo averla sculacciata a sangue.

    C’è un armadio a muro pieno di completi eleganti. Li annuso. Cassetti con cravatte e orologi, calzini piegati e camicie bianche e boxer. Li tocco tutti. Scarpe che riflettono la mia immagine. Le accarezzo con le dita.

    «Ray Donovan, lui è Christian Grey».

    Mi faccio un selfie con tutta quella roba figa sullo sfondo. Più tardi la metterò su Instagram.

    #indovinatedovesono

    Il bagno non teme paragoni. Naturalmente, c’è una doccia che potrebbe facilmente accogliere venti persone, una jacuzzi, uno scalda-asciugamani. Doppia vanità. Un ripiano per la biancheria di casa così grande da poterci dormire. Ma nessuno parla mai dei bagni.

    Mai.

    Però questo?

    È un bagno degno di un re.

    Non solo è situato alla giusta altezza, ma si trova in un angolino appartato tutto per sé con una porta a difenderne la privacy. C’è un portariviste. Un iPad. La carta igienica più fashion che abbia mai visto. E dietro la porta c’è una tv.

    Una tv.

    Una cavolo di tv.

    Nel bagno.

    Nel cavolo di bagno.

    Trascorro lì dentro le successive due ore della mia vita. Prima di tutto, sulla toilette equipaggiata con uno sciacquone di cortesia. Poi nella doccia. E poi in ammollo nella calda jacuzzi.

    Di tanto in tanto, l’ansia prende il sopravvento e la realtà insinua stupide domande nella mia testa.

    E se arrivasse la vera signorina Sims?

    E se il signor Swagger tornasse in anticipo?

    A ogni preoccupazione trovo qualcosa che mi distrae. Come il pulsante sul lato della vasca che illumina un touch screen che mi permette di controllare la temperatura dell’acqua, l’illuminazione, la musica, e la cadenza dei getti.

    Lascio che la dolce musica strumentale mi porti via e gli spruzzi mi cullino fino quasi a farmi dormire. Poi esco dall’acqua. Metto i Maroon 5. Prendo un asciugamano e quasi muoio per un colpo di calore. Mi devo sdraiare sul pavimento del corridoio per raffreddarmi perché le mattonelle del bagno sono riscaldate. Nuda, entro nell’armadio e scelgo una delle camicie bianche che sono un milione percento cotone e al tatto sembra che siano nuvole sulla mia pelle.

    Risuonano le note di Sugar – la mia preferita.

    Salto sul letto come se fosse un trampolino. Cado sulla schiena e guardo in alto. Mi chiedo se fosse ciò che farebbe la signorina Sims. È ovvio che lei non vive qui. O che, se ci abitasse, non si veste qui. A meno che la sua non sia la camera chiusa a chiave. E se tornasse a casa?

    Non pensare queste cose.

    Non tornerà a casa.

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